Nanni Moretti. Lui è parziale

Santiago, Italia e la politica del cinema di Nanni Moretti, regista autarchico

Io sono un autarchico, Palombella rossa, Bianca, Caro Diario sono solo alcuni dei film di Nanni Moretti, padre di un cinema personale, politico nel senso più ampio possibile, di un “dramma comico”, di un teatrino grottesco in cui Lui è soggetto che non sa stare dentro al pensiero collettivo né rimanerne fuori, non accetta di essere intrappolato nel vincolo sociale da cui si allontana convinto che la minoranza sia una possibilità. È stato capace di raccontare il contingente, di immaginare futuri rivelatisi poi illuminanti preveggenze (Il caimano, Habemus Papam). Nella sua carriera che si è andata a costruire come un’avventura dell’io ha raccontato il sé più profondo, attraverso una maschera, quella collerica e non modulabile di Michele Apicella, l’autarchico, spesso insofferente del mondo di Io sono un autarchico, Ecce bombo, Sogni d’oro, Palombella rossa, attraverso un personaggio altro, in La messa è finita, Habemus Papam, Mia madre, sfiduciato nell’essere umano, afflitto da vari problemi, attraverso se stesso, colto nella sua vita, la nascita, la malattia di Caro diario e Aprile. È stato anche però in grado di cogliere problemi universali, i cambiamenti di un’Italia non sempre all’altezza dei sogni dell’individuo – impossibile dimenticarsi della scena di Aprile in cui implora e urla a D’Alema «Di’ qualcosa di sinistra!». Moretti, dopo Mia madre, evolvendosi ancora una volta, torna al cinema col documentario Santiago, Italia, genere a cui si è già avvicinato con La cosa – dove racconta la cosiddetta “svolta della Bolognina” attraverso una serie di interventi di militanti comunisti durante i dibattiti all’interno di alcune sezioni del Pci – e poi con Il diario del caimano – non solo un tradizionale making of del film ma anche un diario da cui emerge la sua idea di cinema.
 

Nella sua carriera Moretti ha raccontato il sé più profondo, ma è stato anche in grado di cogliere problemi universali, i cambiamenti di un’Italia non sempre all’altezza dei sogni dell’individuo


Santiago, Italia racconta i mesi seguenti al golpe di Augusto Pinochet, che nel 1973 aveva rovesciato il governo di Salvador Allende, e il ruolo dell’Italia nel colpo di Stato in Cile. Il film inizia con un uomo, lo stesso Moretti, che guarda dall’alto Santiago, e il regista afferma con la sola presenza che quello è il suo film. Elemento importante questo, da sempre infatti Moretti è una presenza fagocitante, scompare per un istante lo sfondo e rimane lui, forte della sua completa indipendenza creativa, della capacità di spaziare tra i generi e realizzare con libertà le proprie opere. Lo sguardo sulla città è una dichiarazione d’intenti, ciò che scorrerà davanti ai nostri occhi è ciò che lui ha visto, sentito, ciò su cui ha ragionato, ciò che formerà il punto di vista anche dello spettatore.

Santiago, Italia, tra immagini di repertorio e interviste, si costruisce intorno a quattro capitoli: Unidad Popular (1970-1973), 11/09/73, L’Ambasciata italiana, Viaggio in Italia, enunciazioni che spiegano a chi guarda in quale punto della linea del tempo si trova. Moretti presenta gli eventi in ordine cronologico, parte dall’età dell’oro in cui i cileni hanno vissuto sotto Allende, per poi narrare quell’11 settembre 1973, giorno dell’assalto alla Moneda e della morte del presidente, dopo il quale migliaia di cittadini, nemici di Pinochet, subirono ogni tipo di tortura all’interno dello stadio più grande del Cile. Moretti, e a questo punto entra in gioco l’Italia del titolo, si concentra sull’accoglienza che il nostro paese ha dato, attraverso l’ambasciata italiana, ai molti rifugiati, per poi arrivare al loro viaggio della speranza alla volta della nostra capitale. Il regista racconta tutto questo con interviste a colleghi, traduttori, militanti, uomini e donne – è sua la voce che fa le domande –, narra la spinta ribelle di tutti coloro che sostenevano Allende, le sue idee, la sua politica, i giorni delle torture ma porta sullo schermo anche le voci di un militare e di un generale che nel coro appaiono distorte, dissonanti, insensate.
Moretti non può tacere di fronte a certe affermazioni, interrompe chi parla con domande per capire meglio, ma non basta, se la provocazione è troppo forte. Durante l’intervista ad un soldato rinchiuso in carcere con l’accusa di aver partecipato alle sevizie e all’uccisione di oppositori politici, quando l’uomo sostiene di essere non carnefice ma vittima del sistema, e aggiunge di aver concesso quell’incontro convinto dell’imparzialità del suo interlocutore, allora Moretti abbandona il suo ruolo. Con un coup de théâtre entra in scena e al militare dice, con lo stile che gli è proprio e con la forza linguistica che ha fatto di molte sue battute delle sentenze iconiche: «Io non sono imparziale». E per essere ben compreso chiede che la frase venga tradotta. Con questa incursione Moretti si mostra nella solita maniera politicamente scorretta, la sua poetica, quella dell’io che si manifesta con la presenza, ribadendo ancora una volta di non temere e di volere esprimere la propria posizione di soggetto che pensa e dice.

La prima arma che Moretti utilizza è la memoria, quella che rievoca i giorni post golpe e riapre dolorose ferite, quella delle parole. Non è un caso che queste ultime abbiano così tanta importanza, perché da sempre il linguaggio è elemento fondamentale del suo cinema e la parola è utilizzata nella sua espressione minima e nella sua accezione massima: è un segno che insieme ad altri segni compone un messaggio, ma è anche la prima e necessaria unità senza la quale un discorso non sarebbe possibile. I racconti delle tranche de vie di ogni singolo individuo cuciti assieme diventano la Storia scelta e raccontata da Moretti, che cambia la tipica prima persona del suo modus narrandi nella seconda, tu. Egli chiede, interviene, ne sentiamo la voce, ma al centro ci sono i testimoni che, davanti alla macchina fissa, si mettono a disposizione del racconto, rispondendo alle domande di quell’uomo che crea con loro un legame di stima e di complicità, gli intervistati non guardano in macchina ma lui. Fanno partecipare lo spettatore alla loro commozione, sofferenza, gratitudine addirittura e se nei primi due capitoli il cineasta indaga un paese altro, il Cile, e i suoi abitanti, sparge le sementi per raccontare anche gli italiani e l’Italia, non solo quella degli anni ’70 ma anche quella di oggi.
 

Se nei primi due capitoli il cineasta indaga un paese altro, il Cile, e i suoi abitanti, sparge le sementi per raccontare anche gli italiani e l’Italia, non solo quella degli anni ’70 ma anche quella di oggi


La seconda arma infatti è la capacità di analizzare: Moretti mostra cosa sia stato il Cile di quei giorni, cosa abbia significato essere rifugiati all’interno di un’ambasciata, ma il suo intento è quello di parlare dell’Italia contemporanea, quella dei migranti. I rifugiati parlano con tenerezza e con gratitudine di quelle giornate vissute nella sede della rappresentanza diplomatica italiana su suolo cileno, ricordano i letti ammassati, i piani separati, la gioia di molti momenti ma anche la difficoltà e la paura. Si mescolano gravità e leggerezza, come sa fare solo Moretti, in grado di unire il dolore di chi è stato umiliato e torturato al grottesco riso di una donna che racconta le angherie a cui è stata sottoposta.

Il rapporto con il presente sta proprio in quel Viaggio in Italia in cui Moretti mostra una parte di rifugiati che abbandona la propria terra per salvarsi raggiungendo il nostro paese, luogo accogliente che partecipa al dramma dei sopravvissuti, pronto ad allargare le braccia, a dare ospitalità e lavoro. Racconta la solidarietà senza se e senza ma, quella che si percepisce dai ricordi commossi di chi credeva di rimanere in esilio per poco invece qui ha incominciato una nuova vita, di chi ha incontrato sulla propria strada l’Italia che stava cambiando eppure non si è tirato indietro.
Moretti fa serpeggiare silenziosa una domanda: chi siamo diventati? Quale è l’Italia di oggi? In quel muro dell’ambasciata talmente basso da poter essere scavalcato riverbera un altro muro, quello che lo spettatore conosce bene perché gli ricorda il presente. Il regista è solito entrare in rapporto con l’attualità, direttamente e indirettamente, e qui lo fa seguendo la seconda strada. Dalle parole dei rifugiati giunti in Italia molti anni fa trapela lo spaesamento nel vedere oggi un paese diverso, molto più simile al Cile degli anni ’70.
Con Santiago, Italia Moretti, pur spostando il punto di vista (passando dall’io al tu), spinge lo spettatore ancora una volta a riflettere portando al cinema, con la sua statura autoriale, una nuova espressione della sua coscienza artistica e politica, senza retorica né falsi e ingenui patetismi.


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