Muse col muso

La donna nell’arte e nel cinema tra Malcolm & Marie, Storia di un matrimonio e Ritratto della giovane in fiamme

«La tua mancanza di curiosità è una mera estensione del tuo narcisismo, della tua megalomania e della tua visione egoistica del mondo. Non dubitando mai di te stesso, non ti sei mai chiesto “come posso essere un partner migliore?”», afferma Marie nel finale di Malcolm & Marie. Si tratta di un lungo monologo (quasi dieci minuti), nel quale la donna riassume tutto ciò che non va nella sua relazione con Malcolm e il perché è rimasta così ferita dal mancato ringraziamento del compagno regista durante la première della sua ultima opera, dando avvio all’interminabile discussione al centro della pellicola. Scritto e diretto da Sam Levinson, e interpretato da Zendaya e John David Washington, Malcolm & Marie era tra i film più attesi del 2021 ma ha diviso sin da subito critica e pubblico: per gli innumerevoli ed estenuanti scambi sul cinema, sul mestiere della critica ma soprattutto per i tanti monologhi del personaggio di Malcolm, ritenuti autoindulgenti e rappresentativi del pensiero del regista stesso. Il Guardian ad esempio ha scritto che «Levinson, un regista bianco, usa Malcolm come scudo nero per il suo vero bersaglio, non i critici che analizzano le opere nere, ma quelli che interpretano le sue».
 

Considerata la sempre maggiore presenza delle donne nel mondo dell’arte non sorprende che una figura di norma passiva e marginalizzata come la musa si trasformi in un personaggio più emancipato e complesso


All’uscita del film si è discusso molto di white privilege, appropriazione culturale, rapporto vita/arte ma molto poco si è parlato invece della figura di Marie, interpretata da Zendaya, che nonostante sia coprotagonista al pari di John David Washington è rapidamente scomparsa da ogni analisi e discussione. «Io penso che ci sia stato portato via un po’ del nostro ruolo attivo», ha dichiarato al New York Times l’attrice, anche coproduttrice del film, «proprio come è stato sottratto al suo personaggio. Marie incarna infatti la musa ispiratrice del compagno artista, una figura tradizionalmente dimenticata e relegata all’anonimato; allo stesso tempo, però, quella di Zendaya è anche una donna arrabbiata che si ribella al ruolo subalterno che le viene affibbiato e che reclama lo spazio e il riconoscimento che merita. E considerata la sempre maggiore presenza delle donne nel mondo dell’arte – dal cinema alla fotografia, passando per la letteratura – non sorprende che anche una figura di norma passiva e marginalizzata si trasformi in un personaggio più emancipato e complesso: una musa che denuncia la propria subalternità e che ribalta persino i ruoli di genere, al cinema e non solo.

Forza gravitazionale
Partiamo proprio da Malcolm & Marie di Sam Levinson: il film non è altro che la storia di una coppia in crisi che litiga tutto il tempo tra urla, aggressioni verbali, recriminazioni e insulti reciproci. La scintilla scatenante della disputa è proprio la rabbia di Marie, risentita per non esser stata citata durante il discorso di Malcolm, così egocentrico da dimenticarsi della fidanzata ex attrice con un passato di tossicodipendenza, e proprio per questo sua principale fonte di ispirazione. «Ero un ottimo materiale, per questo mi sei rimasto accanto. Perché ero una bella storia», ribadisce lei in una scena. Nel corso della pellicola, quella che inizialmente sembra una ingenua dimenticanza assume le sembianze di una subdola cancellazione da parte di Malcolm, che pur avendo scritto un film che ricalca in modo preciso la vita di Marie, nega non solo la sua influenza ma anche il grande debito nei suoi confronti.

Quella tra Malcolm & Marie, del resto, anche a fronte della disparità di carriera e di età – lui è molto più grande di lei –, è una relazione tossica costruita sul grande squilibrio di potere, nella quale il primo si attribuisce il ruolo di salvatore, eroe e artista, che può rubare dalla vita della seconda e portare alla luce i suoi traumi, sfruttando proprio la sua invisibilità. Prendendo parola, però, Marie rompe questa dinamica di potere che si era instaurata, diventando soggetto nonché motore dell’intera storia. Come ha dichiarato Levinson, «Marie è la forza gravitazionale dell’intera opera ed è lei che tiene tutto insieme, che ne riceva o meno il riconoscimento».

Soggetti pieni e contraddittori
In un lungo articolo uscito su BitchMedia (tra i pochissimi a indagare in modo approfondito il personaggio di Zendaya), la giornalista Jordan Taliha McDonald scrive che «Marie è una musa senza favore divino» e proprio per questo è condannata all’anonimato e a «un destino senza omaggi né onori». Nella mitologia greca, le muse erano le figlie di Zeus e Memoria, e in quanto divinità erano oggetto di venerazione e quindi riconosciute, protette e rappresentate nell’arte visuale, pur sempre in relazione alla figura maschile. Come spiegano le creatrici del podcast Muse col muso, Beatrice Carvisiglia e Lucia De Angelis, «la musa parla attraverso il poeta, invasandolo per il tempo di composizione o esecuzione di un canto; una metafora che associa l’autore a un vaso vuoto da riempire». Che ricevano il meritato credito o meno, infatti, si tratta pur sempre di soggetti mai del tutto autonomi, perché ogni loro gesto e azione è in funzione di qualcos’altro e qualcun altro, ovvero del talento maschile. E mettere in discussione questo paradigma – come avviene precisamente in Malcolm & Marie – significa rompere «l’incantesimo dell’idealizzazione», proseguono Carvisiglia e De Angelis. «Una musa sconfortante è anzitutto una musa che non sorride, laddove il sorriso rappresenta la massima espressione di disponibilità e sostegno. Una musa col muso è allora un essere contraddittorio e, infatti, solo i soggetti pieni hanno accesso alla contraddizione».

La coprotagonista di Storia di un matrimonio, Nicole, interpretata da Scarlett Johansson, ne è un altro esempio. Scritto e diretto da Noah Baumbach, il film ha molto in comune con quello di Levinson: anche qui, si mette in scena il racconto di una coppia che litiga e va in frantumi – e in questo caso, pronta al divorzio – la cui miccia è ancora una volta la frustrazione di lei, ingabbiata nel ruolo di moglie, madre e attrice musa del marito Charlie (Adam Driver), acclamato regista di teatro. «Ho capito di non esser mai stata viva per me stessa. Stavo solo alimentando la sua vita», racconta Nicole all’avvocata divorzista. «Io non appartenevo più a me stessa. […] Tutti i mobili di casa nostra erano di suo gusto. Non sapevo neanche più quale fosse il mio perché non mi aveva mai chiesto di usarlo». Proprio come Marie, Nicole è una donna stanca di vivere all’ombra di un uomo troppo preso da se stesso e incapace di capire i suoi bisogni: essere solo una musa non le basta più, anche lei vuole essere un’artista ed esprimere appieno il proprio talento. Per questo si trasferisce da New York a Los Angeles, accetta un nuovo ingaggio come attrice per la tv e diventa persino regista, senza curarsi delle aspettative e dei giudizi di Charlie, il quale non potrà far altro che riadattare la propria vita e accettare le conseguenze del divorzio.

Artiste derubate
Seppur meno malsana rispetto alla relazione messa in scena in Malcolm & Marie, è interessante notare come anche in Storia di un matrimonio ritornino certe dinamiche tipiche di una coppia di artisti, e certi automatismi che qualificano il genio come esclusivamente maschile: «Era un rispettato regista avant-garde in ascesa. Lei era famosa solo per essersi tolta la maglietta in quel filmetto spinto sul collage», dice l’avvocato di Charlie, sminuendo la carriera di Nicole. Del resto per diversi anni l’attrice, sceneggiatrice e regista Greta Gerwig è stata definita solo la musa di Baumbach (perché sua compagna) da parte della stampa, invece che la co-autrice dei film Frances Ha e Mistress America: «Ricordo di essermi sentita molto frustrata per questo e che avrei voluto correggerlo», ha raccontato in un’intervista a Vogue. Ora Gerwig è considerata una delle cineaste più influenti del panorama contemporaneo, ma ci sono voluti diversi film – su tutti Lady Bird e Piccole donne – e nomination agli Oscar per riuscire a scrollarsi di dosso l’etichetta di compagna e musa. Un’immagine stereotipata che alla fine diventa un fardello, uno scotto da pagare quando si ha una relazione con un artista.

In un lungo articolo uscito qualche anno fa sull’Huffington Post dal titolo What It’s Really Like To Be An Artist’s Muse, la performer e artista concettuale Elyse Poppers, meglio nota come la musa dello scultore e pittore Paul McCarthy, racconta di aver sempre rigettato con fastidio il termine: «L’idea della musa umana è una fantasia, e un’idea che spesso depotenzia una giovane artista e collaboratrice». La storia dell’arte visuale del resto è piena di artiste che sono state cancellate, dimenticate e discriminate a differenza dei loro compagni – si pensi a Gabriele Münter e Lee Krasner e ai loro rispettivi partner Vasilij Kandinskij e Jackson Pollock. La pittrice Margaret Keane, al centro del film Big Eyes di Tim Burton, è stata persino costretta a denunciare il marito per averla derubata della propria arte, come racconta Yasmin Riyahi, dottoranda di ricerca in Storia dell’Arte Contemporanea presso La Sapienza, «molte artiste, consapevoli di questo problema, hanno giocato sul dualismo uomo/donna, trasformando quello che è una criticità del sistema dell’arte nella loro forza creativa. Su tutte, mi viene in mente Tomaso Binga, pseudonimo di Bianca Menna». Per secoli, infatti, alle donne non era consentito essere artiste ma solo modelle, oggetto del lavoro altrui e dunque muse: «La grandezza dell’artista era un canone declinato al maschile», prosegue Riyahi. «Una tradizione che si è trascinata per lungo tempo, anche quando le donne hanno guadagnato sempre più spazio nel sistema dell’arte. Motivo per cui, ancora nel 1989, le Guerrilla Girls si chiedevano: “Do women have to be naked to get into the Met. Museum?”».

Restituire potere
A fronte di tutte queste storie, è evidente come nella finzione quanto nella realtà, manchi l’aspetto collaborativo nell’arte, il riconoscimento di un’influenza che non è mai unilaterale ma reciproca, come racconta invece la pellicola Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma. Ambientato nella Francia del 18° secolo, il film è una storia d’amore tra Héloïse, una nobildonna promessa in sposa suo malgrado a un nobile di Milano, e la pittrice Marianne, ingaggiata per ritrarla di nascosto. Quest’ultima è stata chiamata dalla madre di Héloïse, dopo aver tentato invano di convincere la figlia a posare per altri pittori. In questo senso, la giovane incarna una perfetta musa col muso: una donna tutt’altro che inerte, docile o sottomessa, che prova ad autodeterminarsi sabotando come può il matrimonio imminente e molte delle convenzioni dell’epoca. Come quando accetta di mettersi in posa per Marianne, dopo aver scoperto la verità: «Siamo allo stesso livello», dice Héloïse mentre si fa ritrarre. «Se tu mi guardi, io chi guardo?», chiede ancora, iniziando a elencare tratti e peculiarità che ha notato nella pittrice. Si tratta infatti di un continuo scambio di sguardi, osservazioni e studio reciproco, che smantellano l’idea della musa-oggetto e dell’artista-soggetto e creano una nuova relazione, amorosa e non solo, assolutamente paritaria.

Come ha scritto Hannah Giorgis su The Atlantic, Ritratto della giovane in fiamme «si unisce ad altre produzioni recenti che restituiscono potere a figure femminili tradizionalmente relegate al ruolo della cosiddetta musa», che non subisce passivamente ma diventa parte attiva del processo di realizzazione, capace di influenzare il lavoro della pittrice stessa. Musa «è una bella parola che in realtà nasconde la partecipazione delle donne nella storia dell’arte», ha dichiarato la regista Sciamma all’Indipendent. «Sebbene per lungo tempo l’opportunità per le donne era di essere modelle, quelle modelle erano presenti, partecipavano alla creazione artistica, erano uno dei cervelli nella stanza». La stessa Marianne, del resto, è una figura di rottura: non solo perché ha una relazione con un’altra donna ma anche perché la dipinge nuda, ne studia il viso, il corpo, trasgredendo le regole vigenti dell’epoca: «È soprattutto per impedirci di fare grande arte. Senza alcuna nozione di anatomia maschile, i grandi soggetti ci sfuggono», racconta a Héloïse.
 

Musa è una bella parola che in realtà nasconde la partecipazione delle donne nella storia dell’arte, ha dichiarato Celine Sciamma


Ma non a caso sono proprio i presunti “grandi soggetti” a sparire dal film, relegati a comparse brevi, inquadrati solo di spalle e mai in primo piano. Per lasciare ampio spazio alle protagoniste e al loro female gaze, troppo a lungo ignorato, sminuito, screditato e cancellato. Il recente backlash intorno al film Malcolm & Marie ne è l’ultimo esempio, ma come afferma l’artista Elyse Poppers la rappresentazione sessista della musa ha le ore contate: «In questo momento, nella cultura visuale, l’idea retrograda di una donna giovane e bella, ammaliante e indifesa mentre viene modellata nel suo splendore dallo sguardo maschile sta morendo una morte lenta ma certa».


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