Lo sguardo sulle statue

Il mistero delle sculture nel cinema tra Antonioni e De Oliveira, Resnais e Rossellini

Molti film contengono sequenze in cui la macchina da presa dialoga con delle sculture. L’occhio cinematografico diventa metafora di uno sguardo che va oltre il semplice marmo: guardarlo significa indagare sul passato dell’umanità, sul senso della storia tout court scoprendo così un limite dello sguardo umano e, conseguentemente, di quello cinematografico. Entrambi si rivelano poco efficaci e non risolutori, mostrandosi nella loro vulnerabilità: un occhio che non vede tutto e che non può vedere tutto. La macchina da presa nel guardare le statue ricerca verità, storicità, sapienza e cultura, ma alla fine ne comprende l’impossibilità facendo così dell’atto di interpellazione un mistero sull’uomo e sull’umanità stessa.
 

Il cinema guarda le statue alla ricerca di verità, storicità, sapienza e cultura, ma alla fine ne comprende l’impossibilità facendo così dell’atto un mistero sull’uomo e sull’umanità stessa


Una prima riflessione sull’impossibilità di varcare il confine della vita degli altri ci è offerta dall’ultimo film di Michelangelo Antonioni, nel quale è lui stesso protagonista. L’opera è una sintesi della poetica registica – il titolo, Lo sguardo di Michelangelo (2004), non è affatto casuale. Il film mostra Antonioni che entra nella cattedrale di Sant’Angelo in Laterano e osserva il Mosè di Michelangelo, una statua che diventa una porta verso il mistero dell’arte e della creazione. Il titolo del film contiene in sé lo sguardo di due persone, quello del regista e quello di Michelangelo Buonarroti che vanno, irrimediabilmente, a sovrapporsi. Il gioco di parole del titolo si accompagna al tema dello sguardo che si fa ambiguo, con l’intenzione di oltrepassare certi limiti, con la volontà di arrivare a delle spiegazioni che, alla fin dei conti, sono interpretazioni soggettive e personali. È come se Antonioni ci comunicasse che tutto ha carattere interpretativo. Il film si rivela un concentrato di quell’atteggiamento registico verso un profondo rispetto dell’opera d’arte, intesa sia come sintesi di quella michelangiolesca che dell'intero mondo artistico. La macchina da presa elabora complessi giochi di sguardi, campi e controcampi, con l’intento di porre in relazione quello di Antonioni e quello delle statue. La mano del regista che si alza simboleggia un limite non oltrepassabile, mentre il dito sulla bocca intima al silenzio non tanto verbale, ma piuttosto intellettuale: ammonimenti sull’impossibilità umana d’interpretazione e, soprattutto, di sguardo.  

Anche in Un film parlato (2003) di Manoel de Oliveira ritroviamo la tendenza all’interpellazione del marmo. In particolare nella sequenza di ambientazione greca in cui vediamo madre e figlia intente a visitare i monumenti dell’Acropoli di Atene, la macchina da presa decide di abbandonare la narrazione filmica orientandosi, piuttosto, verso lo sguardo distratto della bambina producendo così qualcosa di diverso: la ragazzina ci introduce in un’incertezza fra reale e fantastico portandoci in una dimensione temporale sospesa. La bambina è, infatti, attratta visivamente dalla scultura di un sileno della quale non viene detto nulla, almeno sotto il profilo storico. Subito dopo avviene uno scavalcamento di campo, infatti il sacerdote appare spostato di 180 gradi rispetto al punto di vista precedente, facendo così sparire i personaggi femminili. La macchina da presa pare comunicarci, attraverso un cambio di stile, che le donne tramite lo sguardo del sileno, siano scomparse per un effetto quasi magico. 

In L’anno scorso a Marienbad (1961) Alain Resnais apre un interessante dialogo con delle sculture. Il viaggio della memoria che il film avvia è contraddistinto da numerosi flashback dei due protagonisti; in uno di questi ultimi, la narrazione del ricordo si arresta per avviare poi, ancora una volta, un dialogo con l’inanimato. La voice over esclama: «per dire qualcosa parlai della statua, vi raccontai che l’uomo voleva impedire alla donna di allontanarsi… aveva visto qualcosa; certo un pericolo e tratteneva con un gesto la sua compagna. Mi rispondeste che era lei, invece, che sembrava aver visto qualcosa, una cosa al contrario meravigliosa che stava indicando con la mano tesa. Le due versioni però non si contraddicevano. L’uomo e la donna avevano lasciato la loro casa camminando di giorni in giorni, ed erano arrivati ora in cima ad una grotta a picco, lui tratteneva la sua compagna perché lei le mostrava il mare ai loro piedi fino all’orizzonte. Poi mi chiedeste i nomi di quei personaggi. Risposi che non aveva importanza; non eravate di questa opinione… tentaste di dar loro dei nomi, un po’ a caso credo. Dissi allora che poteva trattarsi anche di noi due; o di chiunque altro. Non dategli un nome, potrebbero aver avuto tante altre avventure». La voice over cede ora il passo a un botta e risposta fra i due personaggi. La donna: «dimenticate il cane, perché hanno un cane con loro? – il cane non è con loro, passava di lì per caso – ma si vede bene che si stringe vicino alla sua padrona – ma non è la sua padrona, si stringe contro perché il piedistallo è troppo stretto; guardate laggiù sono gli stessi e il cane non è più con loro. Si stanno guardando adesso, lei protende la mano verso le labbra del suo amico, ma da vicino vedrete che lei guarda altrove». Un’ellisse temporale ci presenta un terzo soggetto con un’ulteriore spiegazione del significato della statua che è totalmente diverso (e opposto) ai precedenti. Vediamo come anche per il regista francese l’interpellazione della statua sia del tutto relativa e frammentaria.  
 

In Viaggio in Italia la protagonista avvia un confronto con il passato tramite l’incontro con le statue greche: il fauno ubriaco, le danzatrici misteriose, il maestoso Ercole Farnese che appoggiato alla sua clava scruta il mondo


In Viaggio in Italia (1954) di Roberto Rossellini, la protagonista Katherine, interpretata da Ingrid Bergman, avvia un confronto con il passato nella sua visita al Museo Nazionale di Napoli tramite l’incontro con le statue greche: dal fauno ubriaco, alle danzatrici misteriose che sembrano osservarci con uno sguardo che pare contenere un intero mondo, al maestoso Ercole Farnese che appoggiato alla sua clava scruta il mondo, ai mezzi busti di Caracalla e Nerone. Sguardi di marmo irrompono sulla protagonista e sullo stesso spettatore con tutta la furia di un occhio che contiene secoli di conoscenza; il più grande avvertimento dell’efferatezza e della brevità dell’esistenza, della pochezza dell’uomo di fronte allo scorrere del tempo. La stessa Katherine affermerà: «Pensare che quegli uomini vissero migliaia di anni fa, eppure senti che sono uguali alla gente d’oggi». La cinepresa che segue la Bergman come un segugio, guarda da straniera a quel mondo passato in cui oggettività e soggettività, vivi e morti entrano in un turbinio infinito. La macchina da presa e di conseguenza noi spettatori, impariamo a guardare a quella complessità del mondo. Lo sguardo sul passato delle statue consente alla protagonista di capire e imparare a vedere per la prima volta. E il cinema guarda e impara con lei.   

Questi film paiono avere quindi quel denominatore comune dell’interpellazione del marmo. Il dialogo fra macchina da presa e le statue si conclude, nel nostro excursus, con un’inquadratura tratta da La notte (1961) di Michelangelo Antonioni. Durante la festa serale la protagonista viene presa in disparte dalla padrona di casa; il dialogo fra le donne prosegue con una curiosa inquadratura di un gatto intento a guadare un viso di statua. La battuta della padrona, che precede questa momento della pellicola, ha molte somiglianze con quanto detto finora: «è da stamattina che lo guarda e lo guarda proprio negli occhi. Chissà cosa gli è preso? Forse trova qualche rassomiglianza, oppure aspetta che si svegli. Valli a capire i gatti». L’unica soluzione al mistero dello sguardo che la macchina da presa rivolge al marmo potrebbe essere quella proposta dallo sguardo felino. È possibile, a questo punto, chiederci se anche il felino veda qualcosa nel marmo. E se ciò accade, cosa vede? Può interrogarsi anche lui sul mistero della statua? Ancora una volta non è possibile dare una risposta, l’unica cosa certa è che anche lo sguardo non umano può contenere a sua volta possibili spiegazioni e ulteriori misteri.

Lo sguardo verso la statua racchiude tutto il mistero del mondo e della storia. L’interpellazione dell’inanimato diventa qualcosa di oscuro e misterioso che non potrà mai essere del tutto indagato: guardare la scultura è allusione di scoperta del passato che essa custodisce e, allo stesso tempo, scoperta di sé stessi. La macchina da presa rimane attratta, ma comunque rispettosa nei confronti di un passato indecifrabile, impenetrabile e inspiegabile. La cinepresa affascinata e allo stesso tempo “impaurita”, comprende come le statue e ciò che queste rappresentano, contengano in loro mille e mille storie, talvolta simili alle nostre, talvolta distanti. Un sapere talmente grande che nessun occhio, nemmeno quello cinematografico, può o potrà mai comprendere. 


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