L’Italia è una scelta

Su Matera, Nievo, Pasolini e un Paese da costruire

Nel 1948, il leader del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti visita la città di Matera: vedendo miseria, condizioni igieniche precarie e abitanti costretti a vivere in delle specie di grotte, definisce i Sassi «vergogna nazionale». Siamo nell’immediato dopoguerra e l’Italia è in macerie: la lotta di classe, se pure messa da parte nelle sue forme violente con la svolta di Salerno del 1944, non è affatto morta negli animi di una popolazione stremata dalla guerra e, prima, da un regime autoritario. L’arcaica Matera diventa dunque il simbolo di un’oppressione millenaria, da scalzare con le «magnifiche sorti e progressive» del socialismo. Non è da meno Alcide De Gasperi, leader della Democrazia Cristiana e fresco Presidente del Consiglio, che pur dall’altra parte della barricata si associa alla definizione di Togliatti e nel 17 maggio del 1952 fa approvare all’unanimità dal Parlamento la “Legge speciale per il risanamento dei Sassi” (n. 619). L’ordinanza promuove la costruzione di sette nuovi quartieri ai piedi del centro storico, dichiarato in larga parte inabitabile. Nascono così i ‘Rioni’ Serra Venerdì, La Martella, Spine Bianche, Villalongo, Piccianello, San Pardo, Lanera, Agna e Venusio, a opera di progettisti che hanno fatto la storia dell’architettura contemporanea: Carlo Aymonino, Ludovico Quaroni, Luigi Piccinato, Giancarlo De Carlo. La nuova Matera, razionalista e cementizia, innegabilmente funzionale con le sue unitè d’habitation, diventa improvvisamente una città ‘moderna’; non brutta, a differenza delle contemporanee periferie di mezza Italia, ma nemmeno bella: semplicemente anonima. Il processo continua, con qualità nettamente inferiore, negli anni Ottanta e Novanta, fino ad arrivare alla Zona 33 edificata nell’ultimo decennio, dominata dagli immancabili grattacieli, troppo bassi per essere veramente tali, ma troppo alti per inserirsi armonicamente nel tessuto cittadino.

Carlo Levi, nel romanzo Cristo si è fermato a Eboli, uscito nel 1945, fu il primo a puntare l’attenzione delle classi dirigenti sul ‘caso Matera’, descrivendo le pessime condizioni di vita dei suoi abitanti prima del risanamento. Eppure, pur nella denuncia sociale, lo scrittore non può fare a meno di esclamare: «È davvero una città bellissima, pittoresca e impressionante». Impressionante, sì, perché il colpo d’occhio sembra quello dell’Inferno dantesco, con le case che si affiancano e si sovrappongono, dove le strade sono al contempo tetti di case poste a livello inferiore. Un’edilizia medievale incomprensibile se letta con le categorie della modernità, ma perfettamente coerente con la storia italiana, fatta di sovrapposizioni senza soluzione di continuità. E Matera, da questo punto di vista, è uno dei casi di maggiore interesse, poiché le prime tracce di insediamento umano risalgono a 400.000 anni fa, al cosiddetto Paleolitico inferiore: una catena di vite umane mai spezzata, giunta di generazione in generazione fino a oggi. Qualcosa che ha del miracoloso.
Eppure, nel Paese di Togliatti e De Gasperi uscito a pezzi dalla Seconda Guerra Mondiale, ansioso di rimettersi in piedi e di guardare al futuro, Matera appariva come una colpa originaria, un peccato atavico da lavare via con l’acqua lustrale dell’edilizia nuova. Agricoltura e pastorizia, millenari mestieri dei ‘cafoni’ meridionali, dovevano cedere il passo all’industria pesante, tanto più che proprio in Basilicata l’ENI di Enrico Mattei aveva scoperto grandi giacimenti di petrolio.

Cosa resta, oggi, di quella promessa di progresso? La zona industriale di Melfi, con il noto stabilimento della FIAT, arranca in una crisi che sembra senza uscita. Il tasso di emigrazione dalla Basilicata è il più alto d’Italia, così come quello degli studenti che decidono di frequentare l’università altrove. Infine, secondo i dati Istat, la Lucania è la regione più povera del Paese. Assassinato Enrico Mattei nel 1962, le trivellazioni sono partite appena nel 1981 e oggi, nel silenzio più teso, sono in molti a denunciare un’enorme catastrofe ambientale, specie per quanto riguarda le acque del lago Pertusillo, mentre al tracoma dei vecchi Sassi, malattia dell’arcaica vita rurale, si è sostituito il postmoderno tumore, in costante crescita.
In questo quadro a tinte fosche, la primitiva, sorpassata, trogloditica Matera viene nominata Capitale europea della Cultura per il 2019. Come a dire che il mondo si è accorto (ma bisognerebbe chiedersi se abbia mai pensato il contrario) che l’Italia è la miracolosa terra della continuità storico-artistica, mentre troppi Italiani pensano ancora che l’avvenire sia legato a idee politiche, sociali ed economiche generatesi negli anni Quaranta e rimaste ferme agli anni Sessanta. Matera ha vinto per i suoi Sassi, non per i quartieri del dopoguerra; ha vinto perché le ultime amministrazioni cittadine hanno capito che il futuro si costruisce reinterpretando ciò che si è sempre stati e valorizzando la tradizione che è, etimologicamente, un tradere, un qualcosa da ‘consegnare’ a chi verrà dopo di noi, non una fossa comune da cui pescare cadaveri di un tempo perduto. Così, l’informatica d’eccellenza convive con la deliziosa gastronomia locale, e l’ingegnere torna a produrre vino salvando un territorio altrimenti condannato al degrado: una ruota che torna finalmente a girare nel verso giusto. E che questa fosse la sola strada possibile l’aveva già colto Ippolito Nievo, in una lettera al fratello Carlo datata 9 febbraio 1861:

Abbiamo bisogno di grandi scosse per mescolarci bene e costituire l’unità - e tu hai un po’ torto quando giudichi tutte le Province meridionali da quei pochi contadini-briganti che hai veduto -. Intelligenza ve n’ha, sobrietà non manca. Manca il lavoro e questo si insegnerà coll’assicurarne il profitto e coll’attivare l’industria. Rinnova le condizioni di questo paese dal lato comunicazioni e sicurezza e vedrai i miracoli.

La questione meridionale risolta in poche righe: parole da scolpire sui muri.

Nel 1963, anche Pier Paolo Pasolini aveva capito tutto. Dopo un viaggio in Palestina per visionare i luoghi che avrebbero dovuto fungere da sfondo alla pellicola Il Vangelo secondo Matteo, l’intellettuale friulano ritorna in patria deluso: il progresso tecnologico, infatti, ha dato il via a una selvaggia espansione edilizia proprio nei luoghi della vita di Cristo come Betlemme e Nazareth, riducendo il mondo biblico a un «rottame». Ricchezza in cambio di bellezza, come sottolinea Pasolini in un commento: «Per me spirituale corrisponde a estetico, non religioso. La mia idea che le cose quanto più sono piccole e umili, tanto più sono grandi e belle nella loro miseria, ha trovato uno scossone estetico, un’ulteriore conferma». Così, nel 1964, sceglie proprio Matera, la «vergogna nazionale», per girare il suo film: l’effetto è potente, grandioso, «impressionante» nel senso che aveva dato al termine Carlo Levi.
Esattamente dieci anni dopo, in un documentario meraviglioso intitolato La forma della città, Pasolini filma l’evoluzione di un luogo simile alla città lucana: il borgo laziale di Orte, con la sua geometria perfetta scolpita da millenni di sudore umano e deturpata in un solo anno da un misero condominio che oggi, quarant’anni più tardi, nemmeno si riconosce più, tanto è immerso nel caos urbanistico dei quartieri nuovi. Ai piedi del borgo, una strada medievale passa ancora intatta con i suoi ciottoli: Pasolini, camminandovi, dichiara che «questo selciato non è poco più di niente, è un’umile cosa, non si può nemmeno confrontare con certe opere d’arte d’autore della tradizione italiana. Eppure io penso che questa stradina sia da difendere con lo stesso accanimento, con la stessa buona volontà, con lo stesso rigore di come si difende un’opera d’arte di un pittore».

Mentre sto scrivendo questo articolo, corre il trentanovesimo anniversario dell’assassinio di Pier Paolo Pasolini. Qualcuno, a cui dobbiamo ancora dare un volto e un nome, ha deciso di zittire per sempre una voce scomoda, un’opposizione tenace al conformismo e all’appiattimento, alle false dottrine, alle eterne ipocrisie di un Paese che ha giocato a inseguire il futuro rimanendo arretrato nel pensiero e nella morale. Talvolta ha compiuto gesti estremi, difficili da condividere, ma per ottenere dieci bisogna chiedere cento e per avere cento bisogna domandare mille. Soprattutto se a combattere questa battaglia si è in totale solitudine:

Gli uomini sono soli. Quando pensano profondamente si distaccano profondamente dagli altri. Scendere nel fondo della vita, la propria e altrui, separa dalla sensibilità corrente, crea il vuoto intorno. Invadere le emozioni degli altri nelle ansie d’origine è arduo. Il cervello posseduto tende coscientemente a respingere fin che può l’intromissione. È una legge fisiologica a protezione del meccanismo che fa di noi altrettanti individui con una loro integrità, un proprio ritmo. Ma esistono altre vie. Chi avendo la capacità di sondare la sensibilità umana rimane cauto, attende, traveste il pensiero senza perderlo, può comunicare meglio. Ma anche allora chi agisce per rinnovare qualcosa nell’umanità rimane solo. Il suo sforzo è violenza biologica, differenziazione. La comunicazione della verità profonda è un processo sconvolgente. Isola chi lo invia. Il suo successo è affidato a cause oscure e lente. Spesso giunge tanto tempo dopo, quando la vita ha eliminato dal suo arco l’uomo che ha inviato il messaggio.

Sono parole di Stanislao Nievo, pronipote di Ippolito, dal romanzo Il prato in fondo al mare, dedicato alla morte oscura del suo illustre antenato, tesoriere dei Mille, sul cui naufragio aleggia il sospetto di un sabotaggio. Una morte, come quella di Pasolini, figlia di misteri inconfessabili in una nazione che, nel marzo 1861, era al suo primo vagito: quasi un sinistro avvertimento per un’Italia che poteva nascere repubblicana – come voleva Ippolito – e invece si ritrovò monarchica, ossia suddita e deresponsabilizzata.
In questo nuovo millennio, confuso e disgregato, dobbiamo capire che Paese vogliamo essere. Perché l’Italia non sia, come diceva Metternich, solamente «un’espressione geografica», occorre riportare al centro del dibattito il valore della nostra cultura. Il Risorgimento non è ancora finito: l’Italia, oggi più che mai, è una scelta.


Pier Paolo Pasolini, La forma della città


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