Le elezioni irachene e la minaccia qaidista

L’Iraq al voto nella morsa dell’ISIL per un nuovo parlamento e un nuovo premier

Dopo il voto il 27 e il 28 aprile delle forze di sicurezza e dei cittadini residenti all’estero, anche per i 20 milioni di iracheni che hanno diritto al voto sono iniziate ieri le prime elezioni politiche dal ritiro delle truppe americane. Tra le carcasse annerite delle autobomba, le esplosioni quasi quotidiane degli attentatori suicidi e  le esecuzioni sommarie delle milizie il popolo iracheno si è messo oggi in fila per continuare disperatamente la costruzione democratica del suo paese.
Sfortunatamente per i milioni che si ritroveranno con il pollice macchiato di inchiostro, nulla indica che il risultato di queste elezioni possa rappresentare l’inizio della fine. L’Iraq è oggi un paese profondamente spaccato da divisioni settarie che vengono quotidianamente scavate dall’esplosivo e dalla sete di potere dei gruppi etnici, politici e religiosi. La guerra civile è ormai a 25 km da Baghdad dove l’estremismo sunnita di matrice qaidista, in particolare il gruppo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL), da mesi ha conquistato città e strisce di territorio nelle regioni occidentali del paese spingendo quasi fino alla capitale irachena i successi sunniti nella confinante guerra civile siriana.

Ma se c’è un uomo in Iraq la cui sete di potere non è scossa dalla lotta fratricida, questi è senz’altro il premier Nouri al-Maliki. Uomo forte sciita, maggioranza religiosa del paese, al-Maliki ha perseguito con zelo la de-ba’athificazione post-Saddam della classe dirigente, fino a ricalcarne paradossalmente l’autoritarismo, accentrando su di sé i poteri di un vero e proprio stato-ombra clientelare in cui è, dal 2011, oltre che premier, anche ministro dell’interno, ministro della difesa e ministro della sicurezza nazionale. al-Maliki, in carica dal 2006 e al suo secondo mandato, punta a mantenere in queste elezioni una consistente fetta di consenso che gli permetta di restare comodamente in sella. In Iraq è il capo della coalizione che raggiunge il più alto numero di voti a diventare premier e al-Maliki al momento, nonostante appaia in calo rispetto alle stravinte elezioni provinciali dello scorso anno, sembra l’unico capo di coalizione in grado di tenere in piedi le istituzioni e il paese: è stato scelto dagli americani perché sciita ma non uomo di Teheran; ha pressato per il ritiro della presenza militare straniera; ha un programma nazionalista e sulla carta anti-settario; è riuscito a far ripartire le rendite petrolifere; ha infine dimostrato di essere un uomo di polso acquisendo il controllo delle forze di sicurezza e sguinzagliando l’esercito e i gruppi paramilitari sciiti contro l’ISIL pur con risultati non convincenti.
Ciò che però al-Maliki non è riuscito a realizzare è stata una reale condivisione del potere con gli altri gruppi, in particolare sunniti e curdi. Nonostante il presidente della repubblica sia curdo e lo speaker del parlamento sunnita, al-Maliki ha allontanato dal governo due importanti leader sunniti che ricoprivano cariche di peso, il vice premier Tariq al-Hashimi, accusato omicidio ed esule in Turchia, e il ministro delle finanze Rafi al-Issawi, scampato a vari attentati e dimessosi nel marzo 2013. Il 2013 è stato un annus horribilis per il paese, quando le proteste di piazza delle componenti politiche emarginate dal potere, tra cui anche diversi gruppi sciiti, si sono mischiate alla repressione delle forze di sicurezza e alla guerriglia terroristica delle milizie tramutandosi in un macabro e carbonizzato bagno di sangue che va oltre le 9500 morti civili.

L’esasperazione per la perdita di diversi centri nelle mani dei terroristi sunniti dell’ISIL, come buona parte di Fallujah, e la palese insoddisfazione verso l’operato del governo nel ristabilire la sovranità statale e nel continuare il processo di costruzione istituzionale dello stato iracheno, senza menzionare le condizioni economiche del paese, ha contribuito alla formazione di diverse coalizioni di opposizione che raggruppano una costellazione notevole di partiti e candidati: ufficialmente per i 328 seggi del parlamento concorrono 9032 candidati. L’avversario più temibile per al-Maliki è senz’altro la Lista dei Cittadini, una coalizione sciita che racchiude due partiti, vecchi rivali del premier: il Supremo Consiglio Islamico Iracheno e il Movimento Sadrista, entrambi con forte presenza nelle regioni del sud a maggioranza sciita. Le liste curde sono tradizionalmente radicate nel Kurdistan iracheno a nord del paese ma si presentano per la prima volta al di fuori di un’unica coalizione, probabilmente a causa delle tensioni politiche sulla formazione del governo regionale in stallo dal settembre 2013. Sul fronte centrista, sunnita e secolare, le principali e più affermate liste che si presentano sono Iraqiyya e Arabiyya, che tuttavia, come riportano alcuni analisti, appaiono in calo e potrebbero dar spazio a partiti minori più vicini alle posizioni della piazza come Karama di Khamis Khanjar. Tuttavia per i sunniti queste elezioni saranno sicuramente segnate da risultati particolarmente negativi a causa dell’occupazione di molti loro centri urbani nella vasta regione di al-Anbar da parte dei terroristi qaidisti dell’ISIL i quali hanno minacciano di morte i sunniti che parteciperanno alle elezioni. Già il 28 aprile durante le votazioni dei membri delle forze di sicurezza, gli attentatori suicidi dell’ISIL hanno fatto esplodere 6 seggi elettorali uccidendo almeno 27 persone. Certo è possibile sostenere che, più dei marginali successi contro i qaidisti sunniti, sarà l’incapacità del governo Maliki di sradicarli che garantirà in definitiva la formazione di un governo di maggioranza sciita. Potrebbe sembrare un calcolo elettorale piuttosto macabro, ma forse non stona poi tanto nella realtà dello stato iracheno, nella sua gravissima crisi di sicurezza e nella sua spirale di violenza settaria, dove un consigliere di al-Maliki è arrivato a suggerire di bombardare Fallujah in caso di voto sfavorevole, un ottimo impiego per i missili Hellfire forniti dagli Stati Uniti.

Qualsiasi risultato esca dalle urne non c’è dubbio che porre un argine al cancro qaidista sarà una delle priorità del nuovo governo. L’ISIL ha morso con violenza il paese, nell’ultimo anno più di un migliaio di soldati sciiti sono state uccisi e un numero maggiore ha disertato, mentre le prime stime parlano di 2700 vittime civili solo nel gennaio 2014. Inoltre a fianco della difficile lotta per la sicurezza nazionale il futuro esecutivo dovrà necessariamente tentare quei passi imprescindibili per garantire un minimo di stabilità politica e sociale al paese e avviare una stagione di riforme. Fondamentale sarà la riapertura del dibattito nazionale sulla costruzione istituzionale dello stato; d’altronde l’ipotesi di una struttura federalista a tutela delle differenze religiose e regionali è stata già dibattuta con discreto successo durante la campagna elettorale. Auspicabilmente dovrebbe poi essere ridiscussa ed implementata una spartizione dei poteri che alimenti uno spirito di unità nazionale e che accontenti tutte le fazioni: lo spirito autoritario e accentratore di al-Maliki riecheggia cupamente della dittatura di Saddam Hussein e non può trovare spazio in un paese che vuole superare lo stato di emergenza e ricostruirsi veramente democratico. Senza un vero processo di riconciliazione difficilmente sarà possibile superare le feroci divisioni settarie del paese, nella cui memoria sono ancora vivide le ferite del regime.


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