L’avventura

La trilogia dell’incomunicabilità di Michelangelo Antonioni

Vive uno sguardo che, minaccioso e delegittimante, ci rende oggetti; oggetti tra gli altri, prigionieri di una soggettività che intrinsecamente e per natura ci appartiene, ma che non può prescindere dalla soggettività altrui: brutale e inesorabilmente presente, per la quale, giustappunto, noi siamo meramente un ‘oggetto-visto’.
Senza troppo uscir fuori dalle suggestioni dell’esistenzialismo sartriano accade pressoché allo stesso modo nello spazio filmico in cui Antonioni – l’esistenzialista del cinema – dispone i suoi personaggi, raccontando gli anni di un’Italia borghese, trionfante ma infelice, che sopravvive alla deriva di legami affettivi confusi dentro un contesto urbano che muta inesorabile sovrastando chi lo abita. Sono gli anni del miracolo economico e delle grandi speculazioni edilizie, gli anni dei ferventi designers; gli anni in cui muta il volto di un Paese che nel profondo si adagia pigro sugli albori cigolanti di una bellezza di sola facciata. «Questa villa sarà soffocata tra poco. E pensare che c’era un bosco qui» – «Lì ci verranno tutte case» – «E già, non ci si salva più».

Durante una gita in barca tra amici – per lo più, coppie annoiate dell’alta borghesia – Anna, una giovane donna insoddisfatta della propria relazione amorosa con Sandro, architetto disilluso, scompare misteriosamente. Tra paura e paradossale indifferenza il fidanzato inizia a cercarla in compagnia dell’amica della ragazza (Claudia), ma a distanza di pochi giorni – forse ore – s’istaura tra i due un legame ambiguo che li porterà, pur nel prosieguo dell’anti-ricerca messa in atto, a stare insieme come due ‘innamorati’, nell’auspicio sofferto di non ritrovare Anna. «Non è possibile che basti tanto poco a cambiare, a dimenticare […] è triste, è triste da morire. […] Pochi giorni fa all’idea che Anna fosse morta mi sentivo morire anch’io. Adesso non piango nemmeno, ho paura che sia viva. Tutto sta diventando maledettamente facile, persino privarsi di un dolore» - dice Claudia.

Linutilità della ricerca si manifesta pian piano lungo le trame di una struttura narrativa atipica che volta le spalle, dimenticandosene, alle premesse da cui parte. Non è un caso poi che il “giallo alla rovescia”, nei termini in cui ne parla lo stesso Antonioni, si consumi proprio tra le strade deserte di Noto, cittadina siciliana e barocca le cui meraviglie artistiche suggeriscono, più che velare, l’amarezza del saper che dietro ogni grandezza si nasconde sempre un profondo vuoto.
Si assiste così a uno spettacolo in cui i personaggi si guardano e con ciò si annientano vicendevolmente, non riuscendo a penetrare gli uni gli altri, e se stessi prima di tutto: nella riduzione scarna di uno spazio estraneo, vuoto e incolmabile, privo di affetti chiari, in cui persone e sentimenti diventano oggetti come la materia che tutt’intorno li domina anziché prestar loro servizio. «Io le isole non le ho mai capite. Con tutto questo mare intorno. Poverine».
In questo (soprav)vivere, alla ricerca dei significati più nascosti del reciproco sentirsi, ciò che realmente accade è rimandato ‘altrove’, nel fuori-campo non-visibile e inafferrabile. E nel luogo dell’interrogazione, se null’altro è lecito, nella stasi delle molteplici risposte vaghe e superficiali che spesso s’infrangono contro le pareti dell’indifferenza, ai personaggi non rimane che consolarsi nella triste condivisione delle proprie incapacità.
«Dimmi che mi ami» – «Ti amo» – «Dimmelo ancora» – «Non ti amo» – «Me lo merito» – «Non è vero, ti amo».

Le linee si muovono nel quadro in un gioco di perfetta simmetria ed eleganza; e una carezza è il segno del perdono sofferto e crudele di una donna che si trova al fianco dell’uomo che ama ma che non conosce: immersi entrambi dentro a uno spazio vuoto e scarno, nel grigio di un’alba priva di significato. Resta all’uscio a osservare lo spettatore, spiazzato davanti allo schermo: terzo ‘soggetto’ che, tirato brutalmente, dal di-fuori, fin dentro a quel quadro da cui debitamente si poneva a distanza, si mischia tra gli ‘oggetti’ di cui ha seguito il viaggio e – meglio ancora –  è costretto a interrogarsi su cosa ha visto e, primariamente, su chi è.


Parte della serie La trilogia dell'incomunicabilità di Michelangelo Antonioni

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