La teoria del coltello nell’acqua

L'isolamento a tre e il cul de sac polanskiano

Un’auto percorre un deserto viale alberato, le fronde si riflettono sul vetro. Una donna alla guida, alla destra il marito che le dà continue indicazioni, inudito. La donna, annoiata, ferma la macchina, scende e lo lascia guidare. Qualche altro metro e anche il marito è costretto a fermarsi, bruscamente, per non investire un giovane che fa l’autostop in mezzo alla strada. I coniugi, benestanti, stanno andando al lago per una gita domenicale in barca; il giovane, umile, si unisce a loro con nient’altro che la sua sacca e un lungo coltello, che gli è particolarmente caro. Non c’è nessun altro per strada, nessun altro alla banchina del porto, nessun altro a navigare nelle placide acque dei Laghi Masuri. I coniugi e il giovane salpano, e lontani dalla terraferma si isolano in un rapporto a tre.
Nóż w wodzie fu l’esordio alla regia del giovane Polanski, al tempo neanche trentenne. Solo tre anni prima, il regista si era diplomato alla Scuola di Cinema di Łódź, dove conobbe l’allora poeta Jerzy Skolimowski, poi co-autore dei raffinati e aerei dialoghi del film. Con uno stile fresco e una tessitura jazz tipici del nuovo cinema francese, che pure il regista rifiutava per il suo dilettantismo – «I film della Nouvelle Vague sono spesso inguardabili», disse una volta intervistato da Nanni Moretti, «A parte forse Truffaut» –, Polanski colpì le coscienze internazionali vincendo a Venezia il FIPRESCI, il premio della Fédération Internationale de la Presse Cinématographique, e ricevendo la candidatura all’Oscar; ma venne rifiutato in Polonia, dove la stampa sovietica tacciò il film di irrilevanza. A una tale reazione, forte del riconoscimento estero, il regista lasciò il suo paese. Per rivedere una sua pellicola filmata in Polonia bisognerà attendere Il pianista, girato a quarant’anni esatti dal suo esordio.

L’isolamento dei protagonisti è un tema classico del cinema di Polanski, che farà del cinema da camera un punto forte del suo repertorio – da La morte e la fanciulla a Venere in pelliccia passando per Carnage –, ma è in quest’opera prima e nell’analogo Cul de sac che si trovano gli aspetti più interessanti. Come il gangster Dickie si inseriva nelle dinamiche della ricca coppia, il giovane senza nome de Il coltello nell'acqua colpisce da agente esterno, esterno come l'approccio di Polanski negli schemi del cinema polacco degli anni Sessanta, forza e spezza i legami della coppia benestante, nell'inevitabile scontro sociale il cui ring è la barca. L’isolamento, in entrambi i casi, avviene all’aria aperta e per via dell’acqua che, su una barca da una parte e in un castello dall’altra, rinchiude i personaggi in un cul de sac, destinandoli al conflitto. Alla sensazione alienante dell’ambientazione de Il coltello nell’acqua, che porta con sé echi de L'avventura di Antonioni di due anni precedente, contribuiscono, oltre alla scrittura, le scelte fotografiche. I morbidi grigi degli esterni disegnano un’atmosfera vellutata, levigando le acque dolci del lago e i volti dei protagonisti, bagnati dalle luci argentee di Jerzy Lipman, già direttore della fotografia di Andrzej Wajda, regista di Generazione, dove Polanski aveva recitato. Lo stesso Wajda una volta ebbe a dire a un suo intervistatore: «Non può sapere che esperienza liberatoria fu Il coltello nell’acqua per tutti noi, per il cinema polacco. Per la prima volta dopo la guerra c’era un film che non aveva niente a che fare con la guerra… [Roman] stava ricominciando da capo… Sono sicuro che questo contribuì a determinarne il successo all’estero – il premio della critica al Festival di Venezia, la copertina del Time, la nomination all’Oscar», che non riuscì a conquistare, sconfitto nella cinquina finale da un insuperabile firmato Federico Fellini.

Aria aperta, navigazione tranquilla, qualche battibecco. La gita in barca procede senza troppi intoppi, almeno fino a metà della pellicola. All’improvviso, una pioggia fitta costringe i protagonisti sottocoperta, dove finalmente Krystyna, moglie silenziosa nascosta dietro il paio di occhiali scuri, si toglie i panni di spettatrice della disputa e diventa parte attiva nel triangolo con i due uomini. In una delle scene più intense di un film scabro, Krystyna canta per il ragazzo mentre il marito ascolta imperterrito il commento di un incontro di boxe. Nell’ambigua intimità che si crea, il ragazzo senza nome, che prima vediamo prendere il sole con le forme di un Cristo con l’aureola e poi camminare sulle acque dei Masuri, le recita una poesia – con la voce di Polanski che scrisse il personaggio per se stesso e, per l’insoddisfacente interpretazione e la cattiva presa diretta, decise di doppiarlo personalmente.
Ma la mattina qualcosa si rompe, il marito passa da comandante della nave a despota. Deride il ragazzo, gli fa pulire la barca, come un mozzo, e gli ruba il prezioso coltello. “Vieni a prendertelo”, gli dice. Lo solleva in alto con la mano, dove il ragazzo non può arrivare, e lo lancia alle sue spalle. Il coltello sbatte contro l’albero, poi contro la schiena del giovane, che non riesce ad afferrarlo, e infine cade nell’acqua. L’offesa è troppo grande e il giovane reagisce, colpendo al volto il marito che si fa beffe di lui. Il pugno in risposta lo fa cadere in acqua dove, incapace di nuotare, il giovane sembra affogare. Nel finale, tornati a riva, marito e moglie fermano la macchina davanti ad un segnale che indica il posto di polizia più vicino, indecisi se denunciare o no l’accaduto. Feriti e scardinati nel loro piatto rapporto di coppia dal giovane, come il coltello che increspa le acque placide del lago, i due vivono un distacco rarefatto. Di fronte al cartello, l’auto, immobile.

 

 


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