Killing yourselfie

Cadute, annegamenti, colpi d’arma da fuoco: la mania del selfie che porta alla morte

Giovedì 27 aprile 2014, 8 e 33 del mattino. Courtney Sanford, 32 anni, sta guidando sulla Interstate 85 all’altezza di High Point, in Carolina del Nord, quando alla radio passano la canzone del momento: Happy di Pharrell Williams. Contenta di sentirla, Courtney si scatta una foto con il suo smartphone, sorridente. «The happy song makes me so HAPPY!», scrive postando la fotografia sul suo profilo Facebook. Distratta dallo smartphone, invade la corsia opposta e fa un frontale con un camion. L’auto finisce fuori strada, prende fuoco e la donna muore nell’incidente.

I fotocompulsivi si riconoscono facilmente. Sono quelli che fotografano il cibo, i monumenti, i tramonti, le macchine, i drink, il cielo dal finestrino dell’aereo, il mare ma rigorosamente con le proprie gambe in mezzo, e ovviamente, per non farci dimenticare che faccia hanno, loro stessi. E a quest’ultimo genere di fotografie, i selfie, appartengono numerose, differenti categorie: io-allo-specchio, per mostrare come sto bene con il vestito nuovo, io-con-la-mia-amica, per mostrare quanto ci vogliamo bene, io-con-la-mia-bevuta, per mostrare che come lo reggo io l’alcol nessuno, io-con-il-mio-ragazzo, io-con-il-mio-cane (questi ultimi due esempi rientrano più o meno nella stessa categoria) e, più raramente e di solito in occasioni di festa, io-con-il-parente. Anche chi ha poche nozioni matematiche si renderà conto che c’è un termine nell’equazione che si ripete più di tutti gli altri: io. Nel mondo dei social network, e in particolare di Facebook che ha eliminato i nickname e di conseguenza l’anonimità da internet, l’individualità – reale o proiettata – si è imposta prepotentemente: il selfie non è altro che una nuova declinazione del linguaggio visivo in cui l’Io diventa letteralmente il centro dell’immagine. E quale strumento migliore dell’immagine di noi stessi per dare sfogo all’esigenza, da sempre viva in ognuno, di raccontare agli altri la nostra storia? È ciò che cercava di fare Courtney.
 

Io-allo-specchio, io-con-la-mia-amica, io-con-la-mia-bevuta, io-con-il-mio-ragazzo, io-con-il-mio-cane. Anche chi ha poche nozioni matematiche si renderà conto che in tutti i selfie c’è un termine dell’equazione che si ripete più di tutti gli altri: io


Sia per la tragicità della scomparsa della donna che per la fatalità dell’evento in sé, l’episodio è stato la prima morte connessa a selfie ad avere grande risonanza mediatica, ma Courtney Sanford era già il terzo caso documentato. I due casi precedenti, uno dalla Russia e uno dalla Spagna, sono folgoranti, sia perché per primi portano la questione alla luce sia perché entrambi coinvolgono i cavi dell’alta tensione. Da una parte la 17enne Xenia Ignatyeva, caduta da un ponte ferroviario la notte del 21 aprile e fulminata dai cavi elettrici a cui aveva tentato di aggrapparsi, e dall’altra un 21enne spagnolo, salito con degli amici su un vagone fermo ai binari della stazione di Andújar per farsi una foto e ucciso dall’alta tensione dopo aver toccato un cavo che credeva non funzionante. Era il 15 marzo, e l’anonimo pioniere della morte connessa a selfie stava aprendo senza saperlo una lunga serie di decessi, uno più grottesco dell’altro, tutti causati da un unico intento fatale: scattare una fotografia di se stessi. Take a self shot, direbbero gli inglesi. E lo direbbe anche il 21enne messicano Oscar Otero Aguilar se nell’estate del 2014, prendendo la frase un po’ troppo alla lettera, non si fosse sparato un colpo in testa nel tentativo di scattarsi un selfie con una pistola puntata alla tempia. Impresa emulata di recente a Houston, Texas, da Deleon Alonso Smith, 19 anni, che il primo settembre del 2015 si spara accidentalmente in gola, uccidendosi, e a Concrete, Washington, dove il 2 marzo 2016 un 43enne di cui le autorità non hanno rivelato il nome, durante la preparazione dell’ennesimo autoscatto con pistola, dimentica un colpo in canna e si spara in pieno volto.
 

La serietà del fenomeno è testimoniata da uno studio della Carnegie Mellon dal titolo Me, Myself and My Killfie, pubblicato nel novembre del 2016 durante la stesura di questo stesso testo, nato con l’obbiettivo di rendere le persone più coscienti del problema proponendo una metodologia che possa «aiutare gli utenti a riconoscere le situazioni pericolose prima di scattare un selfie», anche se non è chiaro di quale metodologia ci sia bisogno per capire la pericolosità di un selfie scattato in bilico su un ponte ferroviario o con una pistola puntata alla tempia. L’incoscienza delle persone, si dirà, casi fortuiti e isolati, ma basta addentrarsi un poco nell’argomento per convincersi del contrario. E non tanto per l’improbabile infografica diffusa da Mashable nel settembre del 2015, che invitava a confrontare le morti per selfie a quelle causate dagli attacchi degli squali, quanto per l’altissimo numero di incidenti legati agli autoscatti – così numerosi da meritare una pagina dedicata sulla Wikipedia inglese dal nome List of selfie-related injuries and deaths. Si registrano 36 decessi soltanto nel 2015, più di 100 negli ultimi due anni, uno più ridicolo e violento dell’altro. Colpi d’arma da fuoco, elettroshock, incidenti stradali, annegamenti. Molto più spesso di quanto si possa credere queste cose accadono e, soprattutto, cadono. Da ponti, rocce e scogliere, come la coppia polacca che nell’agosto del 2014 decide di farsi un selfie all’estremità di Cabo da Roca, sulla costa portoghese, e cade in mare da 140 metri davanti agli occhi dei due figli di 5 e 6 anni che adesso saranno costretti, oltre che a comprensibili cure psichiatriche, a vivere con la consapevolezza di aver avuto due genitori idioti.
 

Molto più spesso di quanto si possa credere queste cose accadono e, soprattutto, cadono. Da ponti, rocce e scogliere


Ma è possibile ascrivere il fenomeno soltanto alla stupidità o all’egocentrismo? In un mondo sempre più popolato di schermi è naturale che un numero sempre maggiore di persone sia portato a comunicare tramite il linguaggio delle immagini, un linguaggio vecchio di millenni che si è diffuso capillarmente soltanto negli ultimi dieci anni, grazie alla relativa accessibilità economica di smartphone e reflex digitali e all’influenza dei social network. Nella sperimentazione di questa forma linguistica, infatti, la fotografia va di pari passo con la condivisione e ne viene costantemente stimolata. Non si scatta tanto per immortalare un momento, quanto per condividere una particolare esperienza con il proprio pubblico virtuale di amici o di follower. La semplicità e la velocità di utilizzo dei meccanismi fotografici moderni, e degli smartphone in particolare, hanno creato generazioni di persone ossessionate dalla registrazione e dalla condivisione continua della propria esperienza quotidiana, che la fotografia fagocita fino a sostituirsi all’esperienza stessa secondo l’idea per cui “se non lo fotografo non è successo” – internet, da sempre il miglior sociologo di se stesso, ha persino coniato il motto Pics or it didn’t happen, che riassume in sei parole la necessità di testimonianza fotografica e l’esigenza di condivisione.
 



Le cause di morte per selfie e la loro distribuzione del mondo, dallo studio Me, Myself and My Killfie

 

 

Il problema è che, con la smania di partecipare a una nuova forma di linguaggio che ancora non capiscono, i fotocompulsivi fotografano qualunque cosa si trovino di fronte senza alcun tipo di selezione, di scelta. Non sperimentano il linguaggio, ma lo subiscono. «La maggior parte delle persone non sa che cazzo farci con le immagini», diceva il regista britannico Peter Greenaway proprio su queste pagine, «non sanno comprenderle, non sanno crearle, non sanno apprezzarle perché non hanno il vocabolario e la sintassi che permetta loro di avere la stessa sofisticatezza che tutti hanno con il testo». Questo gap linguistico, che dalla fotografia statica arriva al cinema passando per la televisione, tocca un nervo scoperto della comunicazione globale. Film, videoclip, serie tv, fotografie invadono la nostra quotidianità, ma non abbiamo gli strumenti per interpretarle. Siamo circondati da immagini di cui non conosciamo la grammatica, le osserviamo come un cieco ascolta le parole di un libro che non è capace di leggere.
 

Siamo circondati da immagini di cui non conosciamo la grammatica, le osserviamo come un cieco ascolta le parole di un libro che non è capace di leggere


Eppure, a volte, senza preavviso e senza che ne comprendiamo le ragioni, c’è qualcosa che ci colpisce. Qualcosa che ci fa dire che quel film, quel video, quell’immagine vale più delle altre. Quando nel suo saggio sulla fotografia La camera chiara Roland Barthes parla per la prima volta del punctum, quel preciso particolare di un’immagine che punge l’occhio dello spettatore, scrive: «Io sento che la sua sola presenza modifica la mia lettura, che quella che sto guardando è una nuova foto, contrassegnata ai miei occhi da un valore superiore». Perché? Non solo per la reazione emotiva che quel particolare induce, ma perché il punctum, in conflitto e dialogo con l’aspetto meramente documentario proprio di ogni immagine, produce significato. È l’incapacità di trovare quel punctum che dà un senso alla fotografia a spingere migliaia di persone visivamente illetterate a scattare in maniera febbrile e ripetitiva, ad aggiungere cornici, tagli, filtri per dare spessore a fotografie che sotto tutti gli strati di effetti restano senza significato, insignificanti. Scatti che affogano nel mare di immagini di cui la rete è invasa, e che fuggono allo sguardo e alla memoria delle stesse persone che le hanno create. Insoddisfatti della qualità e della popolarità delle proprie istantanee i fotocompulsivi – e siamo tutti fotocompulsivi nel momento in cui lasciamo che sia il dito e non l’occhio cosciente a guidare l’azione dello scatto – cercano di colmare l’assenza di significato, non compresa ma percepita, con la spettacolarità. E allora salgono su ponti e scogliere, si avvicinano ad animali pericolosi, aspettano l’arrivo del treno sulle rotaie per il selfie del secolo finendo inevitabilmente travolti – un morto in Pakistan, addirittura 6 in India, che registra il più alto numero di decessi. Si rischia la morte in cerca di quella foto che acquisisca senso per via della sua stessa eccezionalità. L’amica di Anna Ursu, 18enne romena uccisa da una scarica da 27mila volt per un cavo dell’alta tensione, sfiorato con una gamba dopo che le ragazze erano salite sopra il vagone di un treno per scattarsi delle foto, l’ha definito ultimate selfie. Il selfie definitivo, l’ultimo.

Il circolo vizioso di scatto-condivisione-popolarità si autoalimenta e coinvolge sempre più persone – come il russo Andrey Retrovsky, 17 anni, discretamente popolare su Instagram per le foto che lo ritraevano sui tetti di Vologda finché non è caduto dal nono piano di un palazzo. Persone che non sapendo come convogliare l’attenzione sulla propria storia la rendono straordinaria quanto vuota (la storia che raccontano è quella che si creano artificialmente, non quella che vivono in realtà) e, ovviamente, pericolosa. Persone che, non essendo in grado di partecipare attivamente alla creazione di immagini che abbiano un significato, le collezionano in serie sulle proprie bacheche lasciando alla somma di quelle immagini la responsabilità di creare in autonomia un percorso linguistico che parli al posto loro una lingua che non comprendono, una sequenza di scatti che racconti la loro storia. Rimettere ad una serie di fotografie la responsabilità di parlare al posto nostro, però, non risolve la questione, perché la successione in sé non basta a garantire la significanza di un discorso. Non è la sequenzialità, ma la consequenzialità degli eventi a creare narrazione, e se i nodi stessi dell’intreccio (le fotografie) si limitano a documentare la realtà (il pranzo, la vacanza, la serata, il lavoro) e non producono significato, allora il risultato della loro successione sarà a sua volta un testo sconnesso e privo di significato. Roè chipiù avi, ad esempio. Se invece ogni nodo dice qualcosa, la somma di quei nodi comincerà ad acquistare un senso – più è chiaro vi? E agli occhi dello spettatore attento quella sequenzialità di immagini diventerà consequenzialità, un testo leggibile e comprensibile in grado a quel punto di raccontare una storia – vi è più chiaro?
 

Il fotografo, prima di essere fotografo, è anch’egli spettatore di un avvenimento, anch’egli vede un punctum che lo spinge a scattare in quel momento esatto in quel dato luogo


Il fotografo, prima di essere fotografo, è anch’egli spettatore di un avvenimento, anch’egli vede un punctum che lo spinge a scattare in quel momento esatto in quel dato luogo. In un periodo storico in cui, nel senso puramente tecnico del termine, siamo tutti fotografi, dobbiamo allenare questo linguaggio imparando a distaccarci dalla fotografia come semplice documento, una visione che non ci soddisfa perché non dice niente di noi, per arrivare ad una dimensione più intima e significativa che ci permetta finalmente di parlare attraverso le immagini. Forse dovremmo dosare le fotografie come dosiamo le parole in modo da riuscire più spesso a dire qualcosa, perché pesando gli scatti – e pesare è pensare, come ricorda l’etimologia stessa del termine – avremmo più tempo per vivere, guardarci intorno e trovare nella realtà i nostri significati, attraverso quel punctum che racconta chi siamo e il nostro modo di vedere il mondo. Così, riconoscendo con occhio cosciente i nodi, quei punti in cui si incrociano le rette della nostra esistenza, potremo finalmente soddisfare in maniera più consapevole e completa l’urgenza di raccontarci, senza cercare vuoti e letali sensazionalismi. Dietro agli schermi degli smartphone e agli obbiettivi fotografici è la vita – non quella fotografata, ma quella vissuta – la nostra unica vera fotografia.
 

Pubblicato su L'Eco del Nulla N.5, "Rete e tecnologie", Primavera 2017
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