Joseph Roth

Brody, 2 settembre 1896 – Parigi, 27 maggio 1939

Figlio d’un ufficiale austriaco, d’un conte polacco, d’un industriale viennese; nato in Ungheria o in Galizia, ebreo, forse cattolico, Joseph Roth sa che «non conta la realtà, ma la verità profonda» e liberati umori e bisogni del contingente varia sul tema della propria vita. Tradotto dal remoto nord polacco dell’Impero Austro-Ungarico a studiare letteratura tedesca a Vienna, inabile al servizio militare e tuttavia volontario nella Grande Guerra, Roth vivrà tra Austria, Francia e Germania d’un giornalismo oggettivo, controcorrente all’espressionismo weimariano, ma tormentato dai rapporti sempre difficili coi caporedattori, da un matrimonio disgraziato e dall’inesorabile consumarsi di gran tempo e denaro in alcol ed epilettici rapporti umani. Giudice severo della monarchia asburgica, di fronte alla minaccia nazionalsocialista Roth rifonde la propria identità nella nostalgia della patria perduta, nel mito d’un paterno Francesco Giuseppe incarnazione dell’Impero per farsi altissimo cantore del finis Austriae: nell’esilio parigino che s’infligge quando La marcia di Radetzky (1932) ammutolisce e Hitler sale al potere (1933), Roth continuerà ne La Cripta dei Capuccini (1938) a ricordare che «sopra i bicchieri dai quali spavaldamente bevevamo, la morte invisibile incrociava già le sue mani ossute», la morte invocata, leggera liberatrice, nella postuma Leggenda del santo bevitore (1939).   


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