Immaginare la poesia

Intervista a Ferdinando Cito Filomarino, regista del film sulla poetessa Antonia Pozzi

«Penso che gli artisti siano delle figure che vanno studiate perché sono dei rappresentanti estremi dell’essere umano. Sono persone che hanno una fortissima sensibilità e non riescono a scendere a compromessi con nulla, non riescono che ad essere semplicemente e totalmente in ascolto della loro sensibilità e questo li porta a vivere delle vite fuori dalla norma».
Ferdinando Cito Filomarino, classe 1986, sta parlando del suo rapporto con l’idea di arte e di artista su una delle poltrone nere della piccola libreria Lo Spazio in via dell’Ospizio, a Pistoia, con la poetessa e scrittrice Francesca Matteoni e Michele Galardini, direttore del festival Presente Italiano che dall’8 al 16 ottobre anima i luoghi del centro della città toscana – la libreria Lo Spazio, il Cinema Roma, il Teatro Bolognini – con alcune delle opere più interessanti dell’anno cinematografico in corso e incontri con gli autori. Il suo lungometraggio d’esordio Antonia. è in concorso alla seconda edizione del festival e, come suggerisce il titolo, racconta la vita della poetessa milanese Antonia Pozzi (in un'intensa interpretazione di Linda Caridi), morta suicida a ventisei anni nel 1938, tra il difficile rapporto con il padre, gli amori negati, la passione per la montagna e la fotografia, la vocazione per la poesia, che avvolge tutto il resto. 30 anni, anche lui di Milano, Filomarino discute con lo stesso linguaggio preciso e consapevole che esprime nella sua opera prima: «Io vedevo in lei l’occasione di fare il ritratto di un’artista e della sua arte», dice, «di provare, invece che a raccontare la vita un’artista, a entrare nel merito della quotidianità di un’artista, della sua vita, della sua necessità di creare, e capire che cosa succedesse nel momento della creazione». Lo incontro la mattina del giorno dopo in un caffè di Piazza Duomo, prima che riparta per Firenze dove presenterà Antonia. nel corso di un’altra delle serate di proiezione del film, che come molte pellicole indipendenti è senza distribuzione e circola per le sale con il supporto della Rete degli spettatori.

Qual è stato il tuo percorso per arrivare a questo film?
Io mi sono laureato a Bologna in semiotica del cinema e ho cominciato a lavorare come assistente su set, e in questo modo sono arrivato sul set di Io sono l’amore, dove sono stato assistente e dove ho conosciuto Luca Guadagnino e Marco Morabito, due dei produttori di quel film. Dopodiché ho scritto il mio primo cortometraggio, gliel’ho fatto leggere e loro mi hanno detto che volevano produrlo. E così ho cominciato con il cinema. Nel frattempo facevo anche altro, delle cose per internet, per campare. Anche perché quello che ha generato il cortometraggio finora sono solo debiti… Dopo abbiamo deciso di fare insieme anche il mio primo lungometraggio, ed è nata l’idea di Antonia Pozzi. Presentava delle coordinate di materiale stupendo, che sono le sue poesie e le sue lettere, e la possibilità tramite questo materiale e tramite delle location, quelle della sua vita che sono anche della mia vita, per coincidenza, e che io conosco molto bene, di fare un ritratto d’artista con il cinema.

Mi dicevi di aver avuto delle difficoltà in fase di concepimento, in che senso?
Come condensi un’intera vita in un’ora e mezzo? Come concepisci questa sintesi e la rappresentazione dell’epoca in un film piccolo?

La tua scelta finale mi è piaciuta molto, perché non abbraccia l’artista nell’intero arco della vita, né quella parte di vita che scegli di raccontare la racconti in maniera didascalica come fanno molti biopic. In Antonia. si mette in scena la creazione poetica, e non ci sono riferimenti cronologici se non le date delle poesie
Il punto era non tanto di storicizzare, ma di rappresentare. Di cercare, come dice Herzog nei suoi documentari, non tanto la sequenza dei fatti ma la verità.

Ci sono degli squarci nel film, quasi da didascalia del muto, in cui inserisci le poesie di Antonia Pozzi. Come mai hai scelto non soltanto di farle ascoltare, ma di farle leggere, vedere?
Per me la poesia di Antonia Pozzi, la matrice di quell’opera letteraria, è parola su carta. Come il quadro che è olio su tela. Come vedere un quadro sull’iPad, dove c’è il filtro della fotografia, dello schermo dell’iPad che fanno parte dell’opera. Nello stesso modo, quando c’è qualcuno che legge la poesia, c’è un filtro tra te e la poesia. Il modo in cui lei ha concepito quelle poesie è per essere lette. E quindi, dato che la premessa del film per noi era comunque entrare nel merito del mondo poetico di Antonia e del perché e come avveniva la creazione poetica, a quel punto il tentativo è stato proprio di associare il risultato finale a questo contesto, vedere come scrivesse. E quindi è venuto naturale fare così.

In Antonia. c’è un uso molto particolare della luce. La figura del padre è sempre vista attraverso una vetrata, o al buio, o in una stanza attraverso una porta in modo da mantenerla emotivamente distante da Antonia e dallo spettatore. E la vita di Antonia, soprattutto all’interno delle abitazioni in cui lei si muove, è raccontata con una scelta fotografica netta, fatta di illuminazioni opache, bui e controluce. Per quale motivo la scelta di raccontarla con queste ombre che invadono la sua quotidianità?
Perché il punto era proprio di raccontare in modo soggettivo come Antonia viveva le diverse situazioni, e le ispirazioni per questo erano le poesie, le lettere e le sue fotografie. Quindi per raccontare anche soltanto una sorta di intensità emotiva rispetto all’interazione con il padre la luce era uno degli strumenti per rappresentarlo, dal momento che il modo in cui è concepita la messinscena, i movimenti dell’attrice, è completamente soggettivo dal punto di vista di Antonia. E perciò era una porta spalancata a questo tipo di gioco, che poi cambia nel corso del film come lei cambia nel corso del film.

C’è una scena nel film a cui sei più affezionato, che ti ricordi di più per qualche motivo?
Abbiamo girato per sei giorni in montagna, per la sequenza di montagna e le altre piccole scene che ci sono nel film. E lì eravamo dodici persone, inclusa l’attrice. E io ero in sostanza a casa mia. I tempi erano dilatatissimi, perché per arrivare in una location dovevamo camminare per delle ore con l’attrezzattura per fare  un’inquadratura di… 40 secondi? E poi andarcene. C’era una sorta di trance, che in altre scene urbane del film, con comparse eccetera, non c’era. E tra l’altro la nostra esperienza coincideva perfettamente con quello che cercavamo di rappresentare, perché eravamo dodici disperati in mezzo a una montagna in silenzio assoluto con le nuvole che ci mangiavano a raccontare Antonia che sale in verticale nel silenzio. C’era qualcosa di molto bello nel fare quella scena.
 

La nostra esperienza coincideva perfettamente con quello che cercavamo di rappresentare, eravamo dodici disperati in mezzo a una montagna in silenzio assoluto con le nuvole che ci mangiavano a raccontare Antonia che sale in verticale nel silenzio


Ci sono dei riferimenti visivi di cui hai tenuto conto nell’ideazione del film?
Bè, ho studiato molto la fotografia dell’epoca, molti riferimenti di Antonia, le fotografie di Marianne Breslauer mi vengono in mente in questo momento, come sguardo femminile sulla donna degli anni Trenta, moderno. Molteplici, ma in realtà devo dire che molta ispirazione viene dagli album di famiglia di Antonia, con molte fotografie che ha scattato lei. E poi in qualche strano modo, di nuovo, dalle poesie, provando a tradurre in cinema quello che è il suo mondo poetico.

In questo senso, dicevi giustamente ieri durante l’incontro, il cinema è uno dei mezzi che più si avvicina alla poesia.
Questo è quello che sento io

Filomarino sa bene che il cinema dà la possibilità, come la sua parente cartacea, di aprire degli squarci poetici che esulano dalla pura narrazione, e lo sfrutta a pieno creando un mondo visivo dove l’immagine poetica si unisce all’immagine cinematografica e la contamina, vi si confonde. Con la sua regia spezza il tempo, sbriciola le sue frasi visive, cambia paragrafo a piacimento, a volte sussurra, altre canta. Come Antonia, compone. E lo fa mettendo in scena l’ineffabilità del verso, riscrivendo il tempo in base alla sua soggettività e a quella della sua protagonista.

C’è un inquadratura nel film che mi ha colpito molto, in uno degli ultimi momenti di Antonia, in cui lei va verso il prato e si vede il viale e si sente il suono dei suoi passi, dei suoi tacchi, ma non si vede Antonia camminare. Soltanto dopo uno stacco la macchina da presa arriva su di lei. È stata una scelta di regia avvenuta sul set o successiva, in fase di montaggio?
L’ho girata vuota apposta. Non sapevo ancora che volevo fare quella cosa lì, ma m’interessava già dematerializzarla. Poi in montaggio abbiamo capito come utilizzare quell’inquadratura, perché è un tipo di linguaggio che abbiamo usato in altri momenti del film, quindi a quel punto era diventato organico. E questo è ispirato di nuovo a un tipo di salto ellittico che c’è nei versi di Antonia.

Se c’è una cosa che dimostra la libertà registica in Antonia. è la tua capacità di gestire temporalmente le sequenze, di frammentare i momenti cruciali senza tener conto dell’effettiva cronologia, ma spezzandoli. Posponendo o anteponendo le immagini a tuo piacimento
È proprio il movimento emotivo e anche mentale che lei descrive in delle poesie e anche in delle lettere, e entrambe tra l’altro sono anche nel film. Per esempio all’inizio lei scrive che la sua paura più grande è quella del tempo che passa e che lei non riesca a tenerne traccia e poi è già troppo tardi. E questa è una cosa che noi abbiamo provato a raccontare, ci sono delle ellissi e la scena è già avanti. C’è una poesia nel film che si chiama Convegno in cui lei descrive il suo amico che la guarda e il piacere di questa cosa, ma immediatamente già si proietta nel futuro a quando ricorderà con malinconia che lui la guardava. E quindi già il presente non c’è più. Questi erano tutti spunti per giocare al montaggio con questo tipo di racconto. La necessità era di raccontare come lei viveva, non soltanto raccontare semplicemente le cose della sua vita.


Nell’aria della stanza
non te
guardo
ma già il ricordo del tuo viso
come mi nascerà
nel vuoto
ed i tuoi occhi
come si fermarono
ora – in lontani istanti –
sul mio volto.

Convegno, 29 maggio 1935


E il tuo legame con i luoghi di Antonia?
Io sono nato e cresciuto a Milano come lei, andando intorno alla Valsassina anche io come le, e negli ultimi anni, ancora prima di lavorare al film, in particolare nelle montagne dove andava lei. Quindi quando ho letto la sua poesia e ho avuto le sue fotografie il modo in cui lei parlava di minimi dettagli, di luoghi, colori, erano dei riferimenti che avevo già dentro, e ho sentito una sorta di legame a scorciatoia con lei. Appunto, ma per una semplicissima ragione anagrafica. I luoghi dell’anima, non lo so, in particolare la montagna vorrei dire. È proprio il significato di andare in quelle montagne, che sono così vicine a Milano, è una cosa che non mi sono dovuto sforzare gran che a capire, perché io stesso già la vivevo. Sono montagne in cui si arriva, sia all’epoca che oggi, in un’ora e venti di macchina, ma anche meno. Ci sono mille modi di arrivare in vetta, facili, difficili, e là sopra sei su un altro pianeta, lunare quasi. Silenzio totale, e vedi tutta la pianura padana, Milano, vedi anche le Alpi liguri, il confine con la Francia. E non sei lì, sei da un’altra parte, però li vedi. C’è quindi questa stranissima dimensione di sguardo sul mondo pur essendo da un’altra parte, che è evidentemente una dimensione nella quale lei si sentiva a casa, finalmente tranquilla. E che io condivido.

Ieri, durante l’incontro, hai detto che in Antonia c’era questa coincidenza tra sguardo e riflessione, mi chiedevo se le due cose coincidessero anche in te, nel tuo modo di fare cinema
Per me è inevitabile che un’immagine, consciamente o inconsciamente, sia piena di significati, anche un’immagine presa a caso da Avengers. Al di là del fatto che sono tutte calcolate o no, è una cosa che succede, poi dipende da cosa uno vuole raccontare.

C’è un film o un regista a cui hai guardato scrivendo e girando Antonia.?
Un film in particolare che abbiamo guardato con Carlo Salsa, con cui ho scritto la sceneggiatura, prima di scrivere, pensando specificamente a come concepire questo film, è Andrej Rublëv. Per quanto riguarda i ritratti d’artista probabilmente non c’è niente di più perfetto di quel film, perché pensare di parlare del senso dell’arte di un pittore di icone russo di tutta un’altra epoca e iniziare a farlo con due uomini che provano a far volare una mongolfiera ci sembrava la cosa più figa del mondo. E anche se poi il film l’abbiamo fatto in modo diverso, senza inutilmente inseguire Tarkovskij, quel tipo di pensiero astratto ci ha molto ispirato. 
La cosa che ci divertiva è che al cinema i poeti quasi non ci sono, o se ci sono sono spesso a servizio di film e storie che sono in realtà tutt’altro. Ci sono dei personaggi che sono poeti, ma film sui poeti e sulla poesia com’è concepita dai poeti quasi non ci sono. Quindi ci divertiva anche semplicemente il fatto di poterci sbizzarrire.

E anche molte delle scene, dicevi, sono state proprio ispirate dalle poesie
Certo, quasi tutte. Le poesie, le lettere e le fotografie hanno ispirato gran parte delle scene. Quasi tutte. E altre sono venute come conseguenza dell’ispirazione.

Un’ispirazione che non viene mai meno nel corso del film. In equilibrio leggero tra la forza dei sentimenti della protagonista e la fragilità del suo corpo e dei suoi componimenti – a cui il professore rimprovera la mancanza di fondamenta e di studio proprie invece della prosa –, la regia di Filomarino si muove con garbato contrappunto mantenendo una rara delicatezza, come Antonia che danza in modo buffo eppure elegante sulle note di un pizzicato, in una delle scene più belle del film.

Spesso il cinema meraviglia per le strane relazioni tra immaginazione e realtà, come quello che è successo tra scrittura e riprese della scena dell’albero che vediamo nel film, in cui Antonia si riposa all’ombra e incrocia lo sguardo di una volpe. Vuoi raccontare cos’è successo?
Ho scritto la scena che introduceva l’argomento di Antonia da sola che si addentra nella montagna, che si allontana dal mondo civile. Per una serie di ragioni ho pensato a lei che in un prato aperto completamente vuoto in mezzo alle montagne trovasse un albero e che andasse a mettersi proprio lì all’ombra. Poi entrava in gioco una poesia che parlava di un incontro animale, e ho pensato che quello potesse essere il modo migliore per raccontare quella poesia e quella cosa. Il gruppo di montagne dove lei andava, dove abbiamo girato il film, è composto da due montagne: una è la Grignetta, che conoscevo molto bene, una è il Grignone, dove non ero mai stato, o comunque non c’ero mai stato salendo da Pasturo, che è il paese dove loro avevano la casa. Quando sono andato a Pasturo, in quel periodo chiaramente giravo tutto intorno per cercare le location, ho preso un sentiero che partiva da casa sua e andava in vetta, e dopo un terzo del percorso c’era davvero questo spiazzo con un albero, da solo, un albero tra l’altro abbastanza vecchio che sarebbe potuto esserci negli anni Trenta.

Ed è lì che poi l’avete girata?
E poi l’abbiamo girata esattamente sotto quell’albero lì, portando una volpe dalla Francia fino all’albero sopra Pasturo.


Commenta