Il carcere universale

Iper-incarcerazione e insicurezza sociale ai tempi della globalizzazione

Le visite ferragostane di esponenti del partito radicale alle patrie galere hanno riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il tema del sovraffollamento carcerario, lanciando la parola d’ordine dell’amnistia; una misura doverosa, che però difficilmente produrrà effetti duraturi, se ad essa non farà seguito una riforma organica del diritto penale, in grado di rimodulare funzione e ruolo del carcere nella repressione dei reati.
Interventi di attenuazione del rigore punitivo, tuttavia, nel così detto mondo occidentale, non sono all’ordine del giorno da almeno trent’anni. Dal 1980 circa, infatti, in Europa e America settentrionale si è registrata una crescita ipertrofica della popolazione carceraria. A fare tendenza sono gli USA, dove dal 1980 a oggi il numero dei detenuti è salito da meno di 500 mila a 2 milioni e mezzo di unità. Dimensioni da arcipelago gulag, che fanno ancora più impressione se si considera che gli USA, pur rappresentando il 5% della popolazione mondiale, ospitano il 25% del totale dei detenuti. Analogamente, salvo rare eccezioni, gli Stati dell’Europa occidentale, tra cui l’Italia, mostrano un trend analogo, seppure in proporzioni di gran lunga inferiori.

Non è sempre stato così. Senza risalire troppo nel tempo, le analisi del fenomeno carcerario, fino agli anni Settanta, mostravano un certo ottimismo. Oggi non può che far sorridere la “premonizione” del criminologo Dario Melossi, secondo cui il carcere sarebbe presto diventato del tutto obsoleto. Ovviamente questa previsione non era arbitraria, ma si basava sulla mera constatazione statistica che, dopo il secondo conflitto mondiale, la popolazione carceraria nei Paesi a capitalismo avanzato era in costante discesa.
Le cose cambiarono radicalmente intorno al 1980, quando il numero degli internati riprese a crescere in progressione geometrica. È in questo clima che a livello accademico si tornò a parlare dei diritti del detenuto e della necessità di adottare misure alternative alla detenzione; ma è sempre in questo clima che trovarono sempre più vasto consenso popolare campagne politiche securitarie, corredate da inasprimenti di pena draconiani. Tutto questo mentre, paradossalmente, il livello di criminalità “reale” nel Nord del mondo tendeva a scemare progressivamente.

Per spiegare l’inspiegabile, può essere utile leggere la “storia carceraria” occidentale degli ultimi trent’anni attraverso le lenti dell’analisi economico-sociale. In questa prospettiva, il declino del ricorso all’incarcerazione coincide in larga misura con la durata di quella che (enfaticamente) è stata definita “Età dell’oro” (1946-1973), in cui i governi occidentali sperimentarono variamente l’economia mista pubblico-privata e la redistribuzione del reddito, portando un relativo equilibrio nei rapporti tra capitale e lavoro. Il compromesso trovava il suo apice nelle istituzioni del welfare state, nella piena occupazione e nelle conquiste progressive della classe lavoratrice. Il tutto fu sostenuto da una crescita economica “miracolosa”, in cui salari e profitti sembravano riuscire a procedere gli uni senza danneggiare gli altri.
Con la crisi petrolifera dei primi anni Settanta l’equilibrio si ruppe: iniziò la controffensiva del capitale nel mondo euro-atlantico, e intorno al 1980 si aprì l’epoca della globalizzazione neoliberista. Aristocrazia finanziaria e grande capitale multinazionale ispirarono politiche dal segno ben preciso: libertà di movimento dei capitali, regressività fiscale, disarticolazione della lotta sindacale, stagnazione salariale, deregulation e smantellamento dello Stato sociale cantarono all’unisono il loro inno al profitto e, con le minacce di delocalizzazione, le gerarchie di fabbrica vennero violentemente ristabilite.  Alla concentrazione della ricchezza in poche mani si associa un inquietante incremento delle diseguaglianze sociali, con la proletarizzazione di ampi strati dei ceti medi e il loro crescente indebitamento privato.

È in questo lasso temporale che si assiste al ritorno della repressione penale su larga scala, soprattutto contro i settori sociali più emarginati e derelitti (le “vite di scarto” della società liberista), con un massiccio trasferimento di risorse finanziarie dai servizi sociali al sistema penitenziario, tale che qualcuno ha parlato, non a torto, di passaggio dal welfare al prisonfare. Insomma, al massimo dispiegamento della libertà economica dei ceti più abbienti è corrisposta, verso il basso, una repressione penale della libertà personale senza precedenti.
Ebbene, autorevoli osservatori individuano un preciso legame tra le epocali trasformazioni sociali degli ultimi trent’anni e l’esplosione dell’incarcerazione di massa. Da un lato, le diverse analisi sono dell’opinione che le campagne giustizialiste rappresentano lo strumento perfetto per evitare che anche le contraddizioni sociali più evidenti risaltino in primo piano. Infatti, la popolarità delle parole d’ordine del law and order è pienamente assicurata dal fatto che esse rispondono efficacemente alle ansie dei più, lanciati verso i margini della società. E gli slogan della “tolleranza zero” contro i disgraziati rappresentano sirene irresistibili per masse di elettori insicuri e impoveriti. D’altro canto, in un contesto di generale ritirata dello Stato, la repressione penale sembra costituire l’unico modo in cui le autorità possono contenere fenomeni espressivi di povertà ed emarginazione sociale che sono, a loro volta, figlie della diseguaglianza. La repressione penale spropositata, per il “nuovo ordine”, non è solo una scelta, ma una stringente necessità.

Così possono spiegarsi, negli Stati Uniti, le leggi sulle condanne minime obbligatorie, sull’eliminazione della libertà vigilata e le 3 strike law. Così possono spiegarsi, in Italia, i pacchetti sicurezza, che hanno irragionevolmente inasprito il trattamento sanzionatorio per la criminalità di strada a colpi di aumenti di pena, nuove aggravanti e nuovi reati. Tutte queste misure, dietro le loro formulazioni generali e astratte, celano la funzione di selezionare determinati tipi d’autore. Le condotte a essere più severamente sanzionate, infatti, sono del tutto esterne rispetto ai rapporti economici centrali. Il che si riflette nella composizione sociale della popolazione carceraria: negli USA i penitenziari traboccano di neri e ispanici dei “ghetti”, condannati a pene durissime per detenzione di quantità minime di stupefacenti, mentre i loro clienti bianchi middle class se la cavano con la condizionale; analogamente, in Italia le carceri si riempiono di rubagalline, stranieri e autoctoni, mentre condotte che presuppongono un certo “rango”, come il falso in bilancio, sono valutate con estrema indulgenza dall’ordinamento.

In definitiva, il celodurismo giustizialista rappresenta, da un lato, un mezzo per alimentare un’infinita guerra fra poveri che permette ai ceti possidenti, cementando facile consenso popolare, di indirizzare l’insicurezza e la frustrazione socialmente diffuse verso il capro espiatorio della criminalità di strada; dall’altro lato, l’ultima (e forse unica) risorsa rimasta per reprimere fenomeni devianti che lo Stato ha rinunciato a prevenire socialmente.
Sarebbe fin troppo semplice esemplificare con quanta facilità la retorica giustizialista sia idonea a raccogliere ampio consenso e come, invece, vengano dai più accolte storcendo il naso proposte di prevenzione sociale della delinquenza e di misure alternative alla detenzione. Ogni seria alternativa al gulag neoliberale presuppone però l’adozione di un nuovo modello di sviluppo economico e una ridefinizione del ruolo dello Stato democratico nelle dinamiche sociali, cose che di certo i radicali non si sognano di pensare, data la loro adesione entusiastica alla globalizzazione liberista come al migliore dei mondi possibili. Intendiamoci: ben vengano amnistie e indulti; ma teniamo sempre presente che, incapaci di contrastare tendenze che non possono essere trascese da singoli provvedimenti di clemenza a ricorrenza occasionale, non si tratta altro che di timidi palliativi.
 




In collaborazione con La Clessidra


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