I giorni del virus | Diario di un'editrice italiana in tempi di quarantena

L'isolamento forzato e la quarantena da coronavirus raccontata da una casa fiorentina

«Restate a casa, se potete», ci hanno detto all’inizio. E io potevo. Gestisco una casa editrice da casa, e in casa ho sempre trascorso la maggior parte del mio tempo. Non ero spaventata. Posso farcela, mi dicevo. Non cambia niente. Poi il consiglio è diventato un imperativo. «Restate a casa!», ci hanno detto. E tutto è cambiato.

Viviamo come se fuori si aggirasse un predatore. E nessuno sa quando si stancherà di cercare e se ne andrà. Le strade di Firenze, solitamente affollate di turisti, sono deserte. Piccioni, tortore e cornacchie si scambiano sguardi increduli. La primavera è alle porte, ma non possiamo goderne. Cose che fino a poco tempo fa davamo per scontate, come una passeggiata al parco o una visita a un amico, ora sono un lusso che non possiamo permetterci. Questo era il tempo degli assembramenti; ora ci viene chiesto di mantenere le distanze, di diffidare di chiunque si avvicini troppo. Quando tutto questo sarà finito, quanto impiegheremo a ritrovare il coraggio di salutarci con un bacio sulla guancia? E dove andrà chi non ha una casa, mentre il resto del mondo è troppo occupato a lamentarsi di come passare il tempo?

Noi almeno un rifugio ce l’abbiamo, comincia a starci stretto ma ce l’abbiamo, mi dico mentre raziono il cibo per la settimana (meno frequentiamo luoghi affollati, come i supermercati, meglio è, e in ogni caso per fare la spesa può uscire solo un membro della famiglia alla volta e deve portare con sé un foglio in cui dichiara perché è uscito – se la dichiarazione non corrisponde a verità, scatta la denuncia). Non è in corso una guerra, qui abbiamo tutto ciò che ci serve, cibo e distrazioni in abbondanza, libri, musica e tecnologia per comunicare col resto del mondo. Ma da qualche giorno mi sveglio con un ronzio nelle orecchie. Mi alzo, bevo il caffè, mi siedo al computer, parlo e sdrammatizzo con mio marito, preparo il pranzo, lavoro ancora, preparo la cena e il ronzio è sempre lì, un velo sottile che mi separa da quel poco che posso ancora vedere e toccare. Sono un robot, compio le azioni per cui sono stata programmata. La mente tenta di stabilire un contatto con un corpo nuovo, statico – per adesso possiamo uscire a fare una passeggiata, ma da soli e nei dintorni di casa – un corpo che non fa le stesse cose di prima. È l’isolamento, mi dico. L’incertezza del domani. La mancanza di ossigeno.
 

Mi alzo, bevo il caffè, mi siedo al computer, parlo e sdrammatizzo con mio marito, preparo il pranzo, lavoro ancora, preparo la cena e il ronzio è sempre lì


La verità è che in questo silenzio lugubre – i rumori della città sono svaniti, solo le campane di Santa Croce scandiscono le mie giornate – ora sentiamo bene i nostri pensieri. E in fondo ai miei c’è una voce che dice, Non ho avuto scelta, dovevo fermarvi. Passerà, ma non dimenticare. Per questo non muoio di paura – della malattia, della crisi economica, della perdita di punti di riferimento. Perché so che quella voce ha ragione, che questo sacrificio è necessario e porterà anche buone cose, su più livelli, se solo, quando tutto sarà finito, non ci scorderemo che siamo fondamentalmente vulnerabili e che le nostre azioni hanno delle conseguenze.

Forse parlo così perché sono fortunata: una casa innanzitutto ce l’ho e per tutto il giorno, seduta alla scrivania, valuto e traduco storie da pubblicare, è il mio lavoro. Le storie. Il virus ha già contagiato il mio modo di leggerle e mi ha indicato quali pubblicare nell’anno venturo, quando i miei lettori avranno bisogno di riprendersi da questo trauma e guardare avanti. Non è la fine del mondo, mi dico piegando la biancheria pulita con una cura e un’attenzione mai usate prima. Perché questo è un altro risvolto inaspettato: ogni gesto, anche il più insignificante, ha acquistato peso, ogni carezza al gatto è una carezza che do a me stessa, ogni “buonanotte” è pronunciato con la sincera speranza che la notte non porti incubi peggiori di quello che già stiamo vivendo.

A volte, all’alba, con gli occhi ancora chiusi, il corpo rilassato e la mente già stanca, penso che è bella questa nuova lentezza cui il virus ci sta educando, questa educazione alla pazienza è sana. Era sbagliata la frenesia di prima, che non ci faceva godere niente, che ci toglieva il respiro, quella frenesia che ora si è riversata sui social traducendosi in smania di dire, consigliare, mostrarsi solidali. Ci stiamo incartando su noi stessi. Facciamo rumore perché questo silenzio rischia di tramutarsi in uno specchio. Se il virus ci voleva soli, un motivo c’è. Perché non proviamo ad abbracciarlo, il silenzio, per riflettere una buona volta su cosa va cambiato nel nostro stile di vita?
 

È bella questa nuova lentezza cui il virus ci sta educando, questa educazione alla pazienza è sana. Era sbagliata la frenesia di prima, che non ci faceva godere niente, che ci toglieva il respiro


Resta a casa, leggi un libro!, urlano tutti, ma come faccio a capire di quale libro ho bisogno in questo chiasso di suggerimenti che spesso sembrano solo l’ennesimo tentativo di imporre agli altri la propria identità e i propri gusti? Questa volta forse i libri non sono sufficienti, e lo dico con stupore, considerato il mestiere che faccio. Concentrarsi sulla lettura non è semplice se intorno tutto trema. Quando ci saremo abituati al cambiamento, allora forse riacquisteremo la calma necessaria, ma ora è presto, ora serve la musica, per calmare i nervi.

L’egoismo ancora dilaga, ma anche in questo campo il virus ci sta dando una lezione. Chi esce senza un motivo valido ora rischia di uccidere il prossimo con un semplice starnuto. Qualcuno si è spaventato, è rinsavito – o semplicemente teme che arrivi la punizione dall’alto. Qualcuno no, ma l’uomo è l’uomo, e questa è un’altra storia.
Non vedo i miei genitori da mesi – vivono ancora nella città in cui sono cresciuta, Pesaro, nelle Marche, una delle regioni con il maggior numero di contagi – ma non ci siamo mai sentiti così tante volte al giorno. Hanno settant’anni e non immaginavano di vivere anche questo. «Non ho paura», mi ha detto mia madre ieri sera, «mi sento come un’ape muta, ma non ho paura». Un’ape muta. Ecco cos’è questo ronzio che ho nella testa, ho pensato. È la vecchia me che si dibatte, che non si capacita di doversi fermare. E se invece ci provassi?



In copertina Firenze durante la quarantena in una fotografia di Francesco Spighi
 

Sara Reggiani è traduttrice e editrice di Edizioni Black Coffee. Questo articolo è stato pubblicato originariamente su LiteraryHub il 16/03/2020  Stay Home, They Told Us... Diary of an Italian Editor


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