I compiti a casa

L’Italia avrebbe del potenziale, ma non si applica

La saggezza popolare insegna che al peggio non c’è mai fine. Così accade con la decisione dell’agenzia Standard and Poor’s, che ha ritenuto di dover abbassare ulteriormente il rating dell’Italia. Il già poco lusinghiero BBB si trasforma nel volgere di un giorno in un ancor più ignominioso e disonorevole BBB-. In sostanza, un avvertimento tranchant: il Paese si trova ad un passo dall’eloquente livello junk, dalla spazzatura, dall’area di non investimento per fondi ed enti il cui statuto limiti la capacità di investire al di sotto della soglia di rischio.
Alla notizia di un ennesimo inglorioso declassamento, c’è chi reagisce con il solito affettato stupore. C’è davvero chi si sente oltraggiato in virtù di un imprecisato misero progresso nel rilancio dell’economia interna che avrebbe trovato realizzazione nell’ultimo anno. C’è chi grida con prontezza al complotto e ai poteri forti, e rimpiange una qualche sovranità violata e ormai perduta, e confida nei poteri della Procura di Trani. Poi, immancabilmente, c’è chi fraintende e lo legge candidamente come «un invito ad andare ancora più veloce sulle riforme». Senza dimenticare quelli che ancora pensano che, in fondo, i giudizi delle agenzie di rating non sono poi così importanti.

Si riscopre un certo deleterio provincialismo in cui l’Italia langue da decenni. Anni di torpore, inerzia, e di poca oculatezza. È così che si accumula un insostenibile ritardo, uno scarto evidente nell’Eurozona delle due velocità. Ma puntualmente il nostro Paese cerca di assolversi dai propri errori materiali e delle proprie mancanze con le parole più studiate. L’attenuante è subito pronta, perché «allo spread che in nove mesi è sceso di ottanta punti i media dedicano solo qualche trafiletto», come commenta il presidente del Consiglio. Ma il problema non è esclusivamente il valore dello spread, che non è altro che un riflesso superficiale della fragilità strutturale. La temporanea benevolenza dei mercati nei confronti dell’Italia non è che una fase finanziaria volubile, che può mutare improvvisamente e che, per questa ragione, è imprevedibile nel lungo periodo.
A Standard and Poor’s «sono sinceramente convinti che la direzione delle riforme sia giusta, ma che sia troppo lenta. In Parlamento sono invece convinti che sia troppo veloce e che dovremmo rallentare», dichiara Renzi. È vero: non si contano le indecisioni, le attese, i rinvii. Il Jobs Act, pur con tutte le sue imperfezioni, è un primo passo verso una maggior dinamicità di un Paese sempre più affondato nel passato. Ma la strada fino all’esecutività del Jobs Act è insidiosa. La maggioranza non è troppo salda. Si assiste inevitabilmente al solito scontro di interessi di parte che ostacolano qualsiasi tentativo di modernizzazione, e tentano di preservare lo statu quo di privilegi e guarentigie di un mercato del lavoro che la stessa agenzia definisce come poco flessibile, caratterizzato da profonde sperequazioni di genere e di anzianità, da scarsa competitività.

Mentre si spreca tempo prezioso, la valutazione sull’Italia scende a BBB-. Allo stesso livello del rating della Romania o della Bulgaria. Ma non basta, perché non è l’unico giudizio negativo che il nostro Paese condivide con la Romania e la Bulgaria. Stando all’elaborazione per il 2014 di Transparency International sul livello di corruzione percepita, l’Italia, a pari demerito con i due Paesi dell’Est Europa e la Grecia, si colloca miseramente al sessantanovesimo posto. Peggio del Lesotho, ma anche del Rwanda, del Sud Africa, del Cile e del Ghana. Le inchieste romane dell’ultima settimana non sono che l’ennesima prova della scarsa legalità con cui il Paese ormai è assuefatto a fare i conti, con cui convive per abitudine.
Se la situazione è critica, e l’Italia è sul bordo della deflazione, la colpa è soprattutto – per non dire solamente – nostra. Prima di pretendere di portare i nostri inutili cahiers de doléances in Europa, è forse meglio pensare a quello che davvero bisogna fare. È opportuno chiedersi se la crisi che stritola imprese e lavoratori sia l’algido frutto del rigore tedesco e di quella «banda di burocrati» di Bruxelles oppure il prodotto della miopia e della negligenza della nostra amministrazione. È bene anche domandarsi se i vincoli che i Paesi dell’Unione si sono imposti, una volta che siano stati ritenuti  inadeguati all’occorrenza, possano essere aggirati da pochi eletti assai poco virtuosi. 

Non è certo da mettersi in dubbio l’esigenza di una maggiore flessibilità e di una nuova calibrazione dei parametri finanziari. Sono necessarie misure di sollievo per l’economia, e progetti di crescita efficaci che consentano l’avvio della ripresa in tutta l’area Euro. Ma maggior flessibilità non può significare tornare a spendere incontrollatamente, senza rispettare più alcun criterio di stabilità nei conti pubblici. A perderci sarebbe tutta l’Unione. Rispettare vincoli di bilancio e accordi di programma un tempo condivisi non significa essere privati della sovranità statuale. È piuttosto far parte di un mercato comune e di un’unione doganale che ha necessità di imporsi criteri comuni per limitare le incertezze e favorire investimenti, occupazione e sviluppo.
Prima ancora che presentare le proprie ingenue lagnanze ai partner europei, è opportuno avere appigli concreti. Progetti di risanamento strutturali, a lungo termine, che incidano profondamente sull’atavica rigidità del nostro Paese. È irrinunciabile fornire la certezza di un cambiamento che non sia solo superficiale. Si può ottenere solo a costo di ulteriori sacrifici, di decisioni senza compromessi edulcoranti. Sta a noi cercare di recuperare il divario.


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