I binari del Cambiamento

Come la cancellazione di un treno Venezia-Trieste ci racconta l'Italia del governo Conte

È una caldissima domenica di fine luglio quella in cui saluto la mia ragazza dal binario 7 della stazione di Venezia: la vedo partire per l’Europa Centrale, diretta verso una delle più straordinarie esperienze di studio e di lavoro che due filologi come noi possano vivere, e penso che ora io debba spiegarvi di cosa si occupa precisamente un ‘filologo’. Ve la faccio semplice (anche troppo, i tecnici abbiano pietà): il compito del filologo, almeno a livello ideale, è quello di rifare il percorso di un libro a ritroso, scovando il numero maggiore di errori di trascrizione dei manoscritti per risalire ad un testo ‘corretto’ il più vicino possibile all’originale.
Se vi state chiedendo a cosa serva questo mestiere, immaginate la conoscenza come un veicolo: noi siamo l’officina meccanica, l’elettrauto e la compagnia di assicurazioni. Leggere una parola anziché un’altra negli Elementi di Euclide, fondamento della matematica occidentale, significa far precipitare un teorema, una dimostrazione, una legge aritmetica; se poi il guasto si cela in un testo sacro come la Bibbia, l’indagine diventa un campo minato. Dalle tavolette sumeriche alla Divina Commedia, l’autenticità di tutto ciò che leggiamo viene decisa da noi filologi, con ovvie divergenze che si ripercuotono sul testo e quindi sull’intero pensiero umano: la Repubblica di Platone stabilita da I. Burnet (Oxford 1902) è differente da quella dell’edizione di S. R. Slings (Oxford 2003).

Se ancora vi state chiedendo a cosa serva questo mestiere, la colpa non è solo vostra: è innanzitutto nostra, perché siamo diventati incapaci di comunicare. E proprio di questo parleremo oggi: di incomunicabilità. E di tante altre cose accadute dal momento in cui, salutata la mia ragazza non senza un groppo in gola, sono andato al binario 1 per salire sul treno diretto a Trieste. Per passare il tempo ho appena comprato un libro: Musicofilia di Oliver Sacks. Il tema è alto, altissimo: le connessioni neuronali create dalla musica. Alla stazione di Portogruaro questo incanto si rompe: l’annuncio «il treno ripartirà con 70 minuti di ritardo causa guasto agli impianti di circolazione» mi fa precipitare dall’empireo al pozzo nero dei trasporti pubblici italiani. Ormai abituato a questo genere di disagi, continuo imperturbabile la mia lettura, mentre il tempo passa senza che nessuno ci dica qualcosa: prima tappa della maratona dell’incomunicabilità che mi avrebbe coinvolto di lì a poco. Dopo 40 minuti vediamo il capotreno sul binario: ci intima di scendere. Arriva infatti l’annuncio dagli altoparlanti: «il treno è cancellato». Sento diffondersi le parole «bus navetta sostituivo» e dunque mi avvio fuori dalla stazione con tutti gli altri passeggeri; il bus in effetti c’è, ma subito qualcosa non torna. Alla mia domanda «ferma a Cervignano?» l’autista mi risponde urlando: «Cervignano? No no, mi fermo prima, a San Giorgio di Nogaro, poi prendete un treno. Ma che oh!». Non ho tempo per replicare alle pessime maniere di costui: la navetta ha un numero di posti limitato e io non ho certo intenzione di rimanere fermo a Portogruaro, come invece accadrà ai passeggeri rimasti in fondo alla coda.
 

Dopo cinque minuti di viaggio la signora seduta dietro di me compie un errore fatale: romana, si permette di fare una battuta su Virginia Raggi. Il signore in piedi di fronte a me drizza le antenne: «Bè, ma prima della Raggi allora?»


Salgo dunque sul bus, un catorcio dove l’aria condizionata è solo un rumore assordante; di lì a poco vengo raggiunto da una massa di persone così numerosa da costringere alcuni a rimanere in piedi. Poi l’autista inizia a urlare contro alcuni veicoli che sembrano ostruirgli il passaggio; l’urlo sale di frequenza fino a diventare un rombo di tuono condito da quattro-cinque bestemmie: siamo nelle mani di un esaltato. Dopo cinque minuti di viaggio la signora seduta dietro di me compie un errore fatale: romana, si permette di fare una battuta su Virginia Raggi. Il signore in piedi di fronte a me drizza le antenne: «Bè, ma prima della Raggi allora?». Mi basta un secondo per capire l’andazzo: in un attimo parte una discussione che spazia dalle buche stradali alle zanzare che negli ultimi anni avrebbero invaso la città. Replica del signore in piedi: «Intanto la Raggi ha chiuso i campi rom e anche quelli portavano zanzare!». La connessione fra rom e zanzare ancora non l’avevo sentita, ma ormai non mi stupisco più di nulla, e mentre il caldo si fa sempre più soffocante la diatriba continua e arriva inevitabilmente al governo.

Il grillino scopre le sue carte e inanella tutti, dico TUTTI i luoghi comuni possibili e immaginabili: lo stato svenduto alle multinazionali, Berlusconi che ha ceduto le industrie pubbliche ai privati, il Pd che ha tradito i lavoratori come lui (che negli anni Settanta lottava «contro i padroni»), la TAV inutile, le case popolari che vengono date agli «Abdul Aziz di turno», l’Italia che potrebbe vivere con la propria agricoltura e invece è costretta dall’Europa a comperare prodotti stranieri, i 5 Stelle puliti e onesti a differenza degli altri, l’alleanza con Salvini come unica via possibile. Fino a quando, arrivato alla fatidica questione dell’aereo presidenziale «comperato da Renzi», una ragazza seduta davanti a me sbotta: «Ma smettetela di credere a queste fake news! Mi faccia vedere una foto di questo aereo! Non esiste, è un’invenzione! Io lavoro con Matteo e lo so». Il baricentro della discussione si sposta: accantonata la romana anti-Raggi, il grillino si rivolge contro la ragazza che lavora «con Matteo». Senza farmi udire dal pentastellato, sussurro che in realtà qualunque paese serio dovrebbe dotarsi di un aereo presidenziale, ma il grillinus furens sottolinea che tutti i premier del mondo viaggiano su aerei di linea. Ed ecco che mi si staglia, potentissima, l’immagine di Macron al gate di Raynair, felice di aver trovato un buon volo per Roma su Expedia.it, ma preoccupato di non superare i 10 kg con il suo bagaglio a mano: tutto molto credibile.

La discussione sembra fermarsi. Ne approfitto per chiedere alla ragazza: «Conosci la mia amica (***)?». La risposta è secca: «Ma lei è con Maurizio Martina». Mentre aggiungo una nuova gaffe al mio vastissimo curriculum, provo a immaginare quali profonde controversie ideologiche dividano Renzi e Martina, ma al di là dello scontro personale non riesco a trovare una sola differenza politica: a ben guardare, non trovo nemmeno la politica. Come d’incanto, eccomi proiettato nella leggendaria «crisi della sinistra», divenuta ormai un genere letterario con le sue regole e i suoi canoni di cui pure mi scopro invidioso: per i liberali come me, privi di un partito in parlamento, vivere una crisi almeno significherebbe esistere.
Il movimentista riprende la sua arringa: il tema stavolta è quello degli immigrati. Mazzini e Garibaldi hanno fatto l’Italia: finalmente Di Maio e Salvini potranno restituirla agli Italiani, ponendo un argine a tutti questi stranieri. Per fortuna siamo arrivati a San Giorgio di Nogaro, dove al binario 3 ci attende un treno. Torno a godermi Musicofilia, ma l’odissea non è finita: dopo 20 minuti di attesa ci dicono di scendere e prendere un altro treno «che partirà prima». Facciamo appena in tempo a precipitarci al binario 2: a sorpresa, come in una commedia dell’assurdo, riappare lo stesso treno che avevamo lasciato a Portogruaro.
 

Il movimentista riprende la sua arringa: il tema stavolta è quello degli immigrati. Mazzini e Garibaldi hanno fatto l’Italia: finalmente Di Maio e Salvini potranno restituirla agli Italiani, ponendo un argine a tutti questi stranieri


Ed è a questo punto, in questo preciso momento, che mi rendo conto di aver avuto uno spaccato perfetto sul paese reale: altro che la filologia, la Repubblica di Platone e l’esperienza straordinaria della mia ragazza. L’Italia di oggi è tutta concentrata nella miseria di questo viaggio Venezia-Trieste, di cui il «governo del cambiamento» certamente non è colpevole (ci mancherebbe altro), ma lo stesso garantismo non è mai stato applicato da coloro che adesso urlano «lasciateci lavorare». L’Italia di oggi mi fa salire su un treno da Venezia a Portogruaro, recuperare un bus sostitutivo da Portogruaro a San Giorgio, sostare a San Giorgio su un treno sostitutivo del bus sostitutivo e acciuffare al volo un treno sostitutivo del treno sostitutivo del bus sostitutivo, ma in realtà lo stesso treno partito da Venezia e fermatosi a Portogruaro. Per fortuna è arrivata, proprio in questi giorni, l’intelligente dichiarazione del ministro Danilo Toninelli (tre parole che incredibilmente non sono una formazione ossimorica), felice di annunciare che il governo sta pensando di rinunciare alla TAV Torino-Lione per destinare maggiori risorse al trasporto locale: in effetti non vedo l’ora di andare da un capo all’altro d’Europa cambiando una decina di regionali. Magari accompagnato dall’Avvocato degli Italiani, quel Giuseppe Conte che infatti ha rinunciato all’aereo presidenziale, commuovendo al tal punto Marco Travaglio da indurre quest’ultimo a raccontare il grande evento in prima pagina, con titolo principale, sul Fatto Quotidiano.

Sul Venezia-Trieste di domenica ho visto l’elettorato che tiene in piedi questo governo: grandi lavoratori, onesti e coriacei, soffocati dalle tasse e da una crisi economica dalla quale saremo anche usciti, ma con un cumulo di macerie alle spalle. Persone stremate alle quali lo storytelling renziano fa venire l’orticaria, padri di famiglia che fino a pochi anni fa nemmeno andavano a votare (il tema ricorrente è «sono sempre stato apolitico, ma ora…») e che adesso vedono i loro nemici in Abdul Aziz e nei rom che portano le zanzare. Gente senza più speranza che trova conforto nel nuovo in quanto tale, sempre capaci di sfoderare la fatidica domanda «e allora gli altri?». E del resto come può il Pd, diviso in tremila correnti (i renziani, gli orlandiani, i martiniani, i venusiani e i saturnini), pensare di recuperare questi elettori quando vive l’opposizione in casa propria? Con quale faccia di bronzo Matteo Renzi non si è ancora tolto dalle palle, dopo la peggiore sconfitta nella storia della politica italiana? Quante Leopolde e quante Ubalde tutte belle e tutte calde dobbiamo ancora sciropparci? Ma anche quanti poteri al popolo, quanti liberi e uguali, quante sinistre possibili, critiche e stitiche dobbiamo ancora contare nel cimitero dei progressisti? Del centrodestra eviterei di parlare per pura pietà cristiana: davvero non saprei cosa dire pensando che esistono ancora degli ultimi samurai pronti a combattere per un Maurizio Gasparri.
 

In una situazione politica così agghiacciante, personaggi in cerca d’autore come Di Maio e Salvini possono andare ancora più lontano


In una situazione politica così agghiacciante, personaggi in cerca d’autore come Di Maio e Salvini possono andare ancora più lontano: i sondaggi parlano di un indice di gradimento al 60%. Perché se ti trovi a guidare un Paese allo sfascio, puoi anche veder annegare persone in mare: ci sarà sempre qualcuno che parlerà di misure drastiche ma necessarie per contenere una immigrazione incontrollata, voluta da Soros, dalle banche e dalla culona della Merkel. Potrai parlare impunemente di crociera e di pacchia, perché tanto si saranno tutti dimenticati dell’assassinio di Mamadou, in Calabria, e del senegalese Idy Diene, a Firenze, marito di Rokhaya Kene Mbengue, già moglie di Samb Modo, a sua volta ucciso nel dicembre del 2011 da un simpatizzante di Casapound. Potrai dire che il gesto di Luca Traini, a Macerata, è colpa della sinistra e che comunque Pamela Mastropietro è stata ammazzata da un immigrato: nell’Italia del 2018 la morte di un bianco dev’essere vendicata da quella di un nero, per par condicio. Potrai creare la realtà in laboratorio e darla in pasto ai social: ci sarà sempre un Putin che ti strizzerà l’occhio, un Trump che ti dirà quanto sei figo e un Orban che ti manderà un bacino. Potrai occupare militarmente la Rai e le istituzioni, ma tutti diranno che lo hanno fatto anche gli altri, dimenticandosi di averli votati per rappresentare la discontinuità.

E in una domenica di fine luglio potrà persino accadere che riusciranno a convincere pure me, vittima di Trenitalia, della necessità di questo «governo del cambiamento»: ma sarà solo un secondo, un brevissimo e fugace secondo dopo il quale mi risveglierò, mi asciugherò le labbra schiumanti rabbia e riprenderò a pensare che la pancia non può essere l’organo con cui si va a votare. Sperando che non sia troppo tardi.


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