Giuseppe Gioacchino Belli

Roma, 7 settembre 1791 – Ivi, 21 dicembre 1863

Al giovane Belli squattrinato, ma già membro dell’Accademoia Tiberina il matrimonio con l’agiata vedova Conti permette i viaggi durante i quali, nella Milano restaurata (1827), gli capita d’imbattersi nella poesia dialettale di Carlo Porta: sommata agli echi del già grande realismo italiano – dal Boccaccio al Sacchetti fino all’Aretino e al Berni – essa lo spingerà a calarsi lingua e morale nella plebaglia di Roma per farne sonetti a migliaia (1830-7; 1843-9). Operazione vitale per il Giuseppe Gioacchino Belli poeta, che nel ritrarre col popolino pregno d’istinti l’unica verità sopravvissuta all’ipocrisia retriva dello Stato pontificio, teocrazia anacronistica, oppone all’eleganza vana dell’Arcadia il romanticismo elevato d’una tappa fondamentale del realismo italiano tra il Manzoni e il successivo verismo; ma anche dolorosa per il Belli uomo, il «probo cittadino» nervoso e bigotto sostenitore dello stesso governo papale di cui scruta imperterrito le macchie. Di qui un conflitto capace di suscitare una rappresentazione omogenea eppure articolata in mille scene e figure, infusa d’un amore scontroso per la Città e ancora percorsa da una visione triste della società e della vita, entrambe concepite romanticamente come nemiche ora da subire con amara rassegnazione, ora da demolire con spregiudicata inclemente satira. 


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