Giovanni Papini

Firenze, 9 gennaio 1881 – Ivi, 8 luglio 1956

Figlio d’artigiani, più che nella scuola che lo diplomerà maestro Papini s’avvezza ai libri nella misera solitudine dell’adolescenza: è su una cultura aggressiva, tipicamente d’autodidatta, che fonda – con gli amici Giovanni Vailati e nientemeno che Giuseppe Prezzolini – una rivista incendiaria, «Leonardo» (1903-7), per smantellare l’architettura positivista degli studi filosofici e dell’attività letteraria in Italia divulgando le dirompenti novità dell’intuizionismo bergsoniano, del pragmatismo di Peirce e James che allora egli abbraccia: rifusa infatti la letteratura nell’«azione» di vivaci saggi demolitori (Stroncature, 1916), ma ancora e soprattutto nelle riviste – dal «Regno» di Corradini, alla «Voce» prezzoliniana, all’interventista «Lacerba» del futurista Soffici – che avanti la guerra, invocata e poi amaramente sprezzata, davvero scuotono con Firenze l’Italia, Giovanni Papini sceglie proprio l’attivismo, il volontarismo come unica costante nel vortice della sua personalità, tanto da farsi cattolico sì (fortunatissima la Vita di Cristo, 1921), ma come «atleta di Dio»; e se l’oratoria decadente gl’invecchia addosso, gonfiandosi, quando s’accomoda nel regime che in gioventù, come tanti altri del gruppo, ha (forse) inavvertitamente nutrito, Papini non si negherà la malinconia, l’intimità del ricordo che gli dettano le pagine più belle delle opere migliori, dall’autobiografia di Un uomo finito (1912) alle prose liriche di Giorni di festa (1918).  

 

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