Fuga dalla pandemia

Un numero collettivo per raccontare l’anno del Covid-19 con le voci delle riviste italiane da Trieste a Roma

Parlare in modo analitico del passato recente, delle vasche in cui si sta ancora immersi e che ancora tessono le nostre vite, è impresa divertente quanto impossibile: è come voler estrarre il cervello dalla propria scatola cranica per analizzarne il funzionamento – una contraddizione, perché del resto sarebbe il cervello stesso a consentire una tale analisi –, eppure, malgrado il paradosso, dipanare le analisi del nostro presente è utile non tanto a svegliare la memoria, quanto a costruirla. L’urgenza di dettare una linea alla memoria sembra farsi di anno in anno più appuntita, l’esigenza di interpretazione si va facendo via via più pressante, forse perché si percepisce che quell’urgenza, se raccontata bene, contribuirà a dare una forma al tempo che si vive, o forse solo perché si è sottesamente affermato il messaggio che chi azzecca l’interpretazione giusta si assicura il futuro. [...] È qui che il 2020 fa capolino a ribaltare il tavolo, è qui che il numero che stringete fra le mani cerca di tracciare indagini e raccontare un tavolo tuttora per aria, raccontarlo con la forza delle riviste.

Io faccio l’editore, editore di libri di varia, anch’io in ultima analisi faccio della scommessa il perno su cui far ruotare il mio lavoro e probabilmente il mio futuro. Le riviste invece, secondo me, no. Le riviste sono fuori dalla logica della scommessa. Le riviste il futuro lo vogliono costruire, non indovinare. In questi anni ho sentito reiterare in variopinte maniere il valore delle riviste, quasi tutte compiute con il distacco di chi non deve preoccuparsi di capire o addirittura agire una redazione di rivista. Le riviste, nelle parole di chi scommette, vengono spesso a essere valorizzate come una ‘roba da ragazzi’: qui è quando schiere di quarantenni, provati da lustri di lavoro in redazione e alla ricerca di costruzioni di festival e identità culturali, invece di piangere sorridono, consapevoli che quella ‘roba da ragazzi’ resterà loro attaccata per sempre, rendendoli simpaticamente più giovani e disperatamente ricacciati in una categoria inscalfibile. Lo stereotipo che si impadronisce dell’idea di rivista la derubrica immediatamente a valore velatamente accessorio, sotterraneo, transeunte: diventano presto le palestre, il mondo colorato, l’underground, quell’adorabile buontempone che stai volentieri ad ascoltare per un quarto d’ora prima di andare a fare l’aperitivo coi colleghi. Ci si chiedesse, o vivaddio si realizzasse la quantità di inventiva, di dedizione e soprattutto di incrollabile forza di volontà che sperimenta chi tiene in vita una rivista, probabilmente la si penserebbe diversamente. Forse si dovrebbe, tuttə quantə, cominciare a prendere sul serio un simile lavoro.

In questo numero de L’Eco del Nulla trovate storie e analisi del pazzesco anno appena trascorso esplorate dalle voci di alcune riviste. Il tentativo, riuscito, è di fornire anche solo l’intuizione della varietà e consistenza di realtà che popolano l’universo che accomuniamo al nome di rivista. Intorno a L’Eco del Nulla, negli ultimi anni, si è edificato Firenze RiVista, un festival che proprio su questa compagine, e sulla sua capacità di costruire il presente e il futuro, voleva accendere i riflettori. La meraviglia che si arriva a percepire, nei giorni di quel festival, è quella della moltitudine esplosa, delle idee che si affiancano per pura curiosità, ma allo stesso tempo l’ammirazione per tenere dritto il timone di una nave del tutto autonoma e indipendente che troppo raramente sarà considerata, in particolare dalle istituzioni, qualcosa di maturo e indispensabile. Da editore, quel che invidio alle riviste è, l’ho già detto, la capacità di non entrare nella logica della scommessa. Quel che ritengo, invece, che accomuni la piccola editoria (l’editoria indipendente, l’editoria di progetto, l’editoria autonoma, chiamatela come credete tanto ci siamo capitə) e le riviste non è la libertà, non è la visionarietà, non è il dar voce a chi è in ombra, ma è l’incertezza. Se guardo al mondo editoriale (passatemi lo squallido termine ombrello) questa dicotomia la percepisco in modo chiarissimo: la certezza vs l’incertezza. Chi è certo dei propri mezzi, del proprio presente e futuro, chi se lo può permettere, chi magari riceve fondi pubblici con incrollabile cadenza per il proprio progetto culturale, mira giustamente a mantenere saldo lo stato di cose in cui è immerso: inutile dire che, in questo modo, chi è certo, raramente produce o diffonde qualcosa che non sia innocuo. La fame dell’incertezza, la stessa incertezza che ci porta a dubitare di aver compreso del tutto il tempo che stiamo vivendo, e la conseguente necessità vivificante di veder interpretare il mondo in tante e disparate maniere, la fame dell’incertezza dicevo è qualcosa di propulsivo, che rende le storie autentiche, e le fa uscire da una consunta retorica utile solo al mantenimento e alla conservazione di chissà quale glorioso presente, è qualcosa che dà davvero voce all’urgenza.

Francesco Quatraro, direttore editoriale di effequ

 

Questo testo è un estratto dalla prefazione di Duemilaventuno - Fuga dalla pandemia, che raccoglie i contributi di 18 riviste italiane selezionate fra i partecipanti dell’edizione 2019 del festival Firenze RiVista. Le storie autentiche contenute nel libro sono di:

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La Chiave di Sophia
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In fuga dalla bocciofila
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