Frammenti di una donna nuova

Come cinema e serie tv rivoluzionano il concetto di “broken woman”, da Pieces of a Woman a I May Destroy You

Lo scorso gennaio su Netflix è arrivato Pieces of a Woman, film diretto da Kornél Mundruczó che vede protagonista Vanessa Kirby nel ruolo di Martha, una donna segnata dalla perdita della propria bambina che muore appena nata. La storia ruota intorno a questa tragedia e indaga il dolore, il lutto e l’elaborazione di un trauma ancora poco raccontato e spesso stigmatizzato, fino ad approdare alla difficile accettazione e guarigione della protagonista. Martha è infatti una broken woman, e si inserisce in un filone ampiamente esplorato tanto nell’audiovisivo quanto nella letteratura: da Una donna spezzata di Simone de Beauvoir a I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante, per arrivare al più recente romanzo Gusci di Livia Franchini, troviamo perlopiù donne che si disgregano perché lasciate, tradite e umiliate da un uomo. E che vivono con lo spauracchio della “poverella”, come viene definita nell’opera di Ferrante, ovvero la donna sola che si abbandona, si abbrutisce e perde il senno, venendo compatita e talvolta denigrata.
Quello proposto in Pieces of a Woman, però, è un racconto molto diverso: Martha cade a pezzi ma vive il proprio dramma in modo silenzioso, trattenuto, indifferente e distaccata da tutto, incluso il compagno che la maltratta, la tradisce e poi la lascia. Questa rappresentazione non è un casuale né isolata. Negli ultimi anni, infatti, la broken woman che perde tutto perché “non sa tenersi un uomo” ha iniziato a scomparire dalle narrazioni filmiche e seriali, sostituita da donne in frantumi ma mai del tutto annichilite, al punto da rivendicare la solitudine, l’inettitudine e la loro smarginatura. Che ormai ha poco o nulla a che fare con l’altro sesso.

Respingere il dolore
Pluripremiata ad Emmy e Golden Globe, Fleabag (in streaming su Amazon Prime) ha messo in scena l’archetipo della donna rotta per eccellenza, sovvertendolo in modo inedito. La protagonista senza nome, interpretata da Phoebe Waller-Bridge (anche creatrice della serie), è una donna che tra le tante cose si definisce “apatica” e “moralmente in bancarotta” e usa il sesso per riempire il vuoto che sente, lasciato dalla morte della madre e della migliore amica Boo. La rottura, infatti, non avviene a causa dell’abbandono di un uomo: nella prima stagione, Fleabag viene lasciata dal fidanzato e da un ragazzo con cui fa sesso occasionale ma non le importa davvero di loro, ma anzi sono solo un diversivo, un modo per respingere il dolore e nascondere l’origine del suo trauma. Come ha dichiarato Waller-Bridge, anche l’espediente della rottura della quarta parete – attraverso il quale la protagonista instaura un dialogo diretto con chi guarda – non è altro che un modo per «distrarre se stessa e il pubblico dalla sua infelicità».
Nella prima stagione Fleabag mente, finge, è in una stato di totale negazione. E solo nel finale confessa il senso di colpa che sente – per essere andata a letto con il fidanzato di Boo e averne causato indirettamente la morte –, non prima di aver toccato il fondo, mandando all’aria la mostra dell’odiata Matrigna. La seconda stagione è quella della rinascita: nel nuovo ciclo di episodi, la protagonista si innamora, ricambiata, del Prete ma alla fine viene respinta, rimanendo sola. Eppure, Fleabag non si spezza ma anzi l’ultimo episodio rappresenta il punto di arrivo del suo percorso di pacificazione e ricostruzione come persona “intera”. Dall’inizio alla fine, del resto, la protagonista incarna un’eroina moderna: una donna single inetta ma fiera e indipendente, caduta nel baratro della malinconia, la cui vera paura non è stare da sola, né il giudizio altrui, ma l’incapacità di affrontare il lutto, di accettarlo e quindi superarlo per andare avanti con la propria vita.

Le fasi del lutto
Ben diversa è invece l’origine della frattura della protagonista della dramedy I Hate Suzie (andata in onda su Sky Atlantic nel Regno Unito e ancora inedita in Italia): interpretata e co-ideata da Billie Piper, la serie segue le vicende dell’attrice Suzie Pickles, la cui vita precipita all’improvviso nel caos quando trapelano online alcune sue foto intime in cui fa sesso con un uomo che non è il marito. Compromettendo così tanto la carriera quanto il suo matrimonio. Ogni episodio mette in scena (fin dal titolo) un momento preciso di questo suo deragliamento, di un crollo che inizia con lo “Shock”, passa per la “Vergogna” per approdare infine all’“Accettazione”, come nelle diverse fasi del lutto. Quello dedicato alla vergogna, in particolar modo, è un episodio chiave: seppur vittima di un reato, la protagonista viene colpevolizzata, subendo il giudizio morale di chi le sta intorno al punto da sentirsi una “puttana”. Come spiega Valeria Finocchiaro su Le parole e le cose viviamo in una società bigotta e misogina, basata sull’«idea che il corpo femminile abbia un valore spirituale che viene intaccato dalla sua eccessiva esposizione o dall’uso libertino che se ne fa». Ma proprio in Shame, Suzie inizia la sua risalita e presa di coscienza, tentando di decolonizzare il proprio desiderio sessuale, anch’esso modellato da una cultura etero-patriarcale.
I Hate Suzie è il ritratto di una donna in crisi, che casca a pezzi ma che impara a ricostruirsi come soggetto autonomo: «Penso di aver passato così tanto tempo vivendo secondo la visione delle altre persone che credo di dover smettere di farlo». In questo senso, è sintomatico il rapporto con il marito Cob: un uomo opprimente, meschino e aggressivo, che solo alla fine Suzie ha il coraggio di lasciare, perché si rende conto che l’unico modo per iniziare a riprendere il controllo della propria vita ed essere felice è mettere se stessa al primo posto. Ne I giorni dell’abbandono scrive Elena Ferrante: «Tu sei di oggi, aggràppati all’oggi, non regredire, non perderti, tieniti stretta. Soprattutto non ti abbandonare a monologhi svagati o maldicenti o rabbiosi. Cancella i punti esclamativi. Lui è andato, tu resti». E così fa anche Suzie, andando avanti per la propria strada, noncurante di tutto, anche delle minacce del marito di rovinarle la vita.

Crisi esistenziale
Nel 1948 nel suo saggio Discorso sulle donne Natalia Ginzburg scriveva che «Tutte cascano nel pozzo ogni tanto» e raccontava di un «gran pozzo oscuro» nel quale le donne spesso si perdono, affogando nella propria malinconia, nella solitudine, nei sogni infranti. Nell’«assoluta incapacità di comunicare con gli altri e di combinare qualcosa di serio» a causa di secoli di sudditanza e di dominio maschile, che le ha rese una «stirpe disgraziata e infelice». Secondo Ginzburg, insomma, non c’è donna che non abbia provato questo senso di inadeguatezza, questa insofferenza che porta all’inevitabile frana e allo smarrimento dell’io. Ed è precisamente quello che sperimenta anche la protagonista della dark comedy Search Party (la prima stagione è disponibile su Tim Vision). Dory è una millennial insicura e insoddisfatta della propria vita, ha un lavoro che definisce temporaneo come assistente di una donna ricca e un fidanzato inetto e immaturo. Il pozzo di Dory è quello della frustrazione, della rabbia, dell’incapacità di trovare il proprio posto nel mondo, come giovane newyorkese privilegiata ma precaria, disposta a tutto pur di ottenere un fugace momento di gloria.
 

Dory è una millennial insicura e insoddisfatta della propria vita. Il pozzo di Dory è quello della frustrazione, della rabbia, dell’incapacità di trovare il proprio posto nel mondo


Nel corso delle stagioni, vediamo la protagonista cambiare, fare una serie di scelte sempre più cattive e sconsiderate, al punto da mentire, ingannare e persino uccidere. «Siamo brave persone rimaste vittime di una situazione davvero sfortunata», dice Dory agli amici complici del misfatto, dopo aver sotterrato il cadavere. Inizia così un processo di rimozione e cancellazione di pezzi di sé, in primis del senso di colpa, che provocano la spaccatura dell’io. Nella seconda stagione diventa centrale il tema del doppio, tra allucinazioni, sguardi in macchina e allo specchio (spesso rotto), a simboleggiare la moltiplicazione e la frattura dell’identità. Frutto di una crisi esistenziale la cui miccia ancora una volta non riguarda un uomo, né tanto meno un singolo evento, ma una condizione di malessere personale e generazionale insieme.
Quella di Search Party, alla fine, è una vera e propria discesa negli inferi, un’involuzione morale vista di rado nella serialità televisiva – il paragone più vicino è Walter White di Breaking Bad – per egoismo, troppa ambizione e voglia di rivalsa. «Non assumendosi la responsabilità, il resto della sua vita va in pezzi», spiega l’attrice protagonista Alia Shawkat. «E tutto ciò che servirebbe è essere onesta con se stessa, ma continua a evitarlo». Solo nel finale della quarta stagione, e a seguito di numerose peripezie, Dory prende coscienza della realtà distorta che si è costruita, ammettendo ciò che ha fatto. Inizia così anche la sua fatidica e agognata rinascita.

Lasciare andare il trauma
Da Fleabag a Search Party è evidente come tutte queste storie siano imperniate su una caduta rovinosa, a cui segue un’altrettanto difficile risalita. Quel ritornare a galla, che come scrisse Alba De Céspedes in risposta a Ginzburg coincide con l’acquisizione di una maggiore consapevolezza di sé e del mondo, tanto da definire “il pozzo” non un guaio ma una forza, una virtù. Ma è davvero necessario spezzarsi, accartocciarsi e abbandonarsi totalmente per raggiungere un nuovo livello di conoscenza e maturità? La creatrice e attrice Michaela Coel con la serie I May Destroy You ha dimostrato l’esistenza di un’altra via, esplorando una femminilità complessa, mutevole e scomoda, mai vista nella serialità televisiva. La serie racconta la storia di Arabella, scrittrice millennial che durante una sera come tante viene drogata e stuprata in un bar; affrontando con un punto di vista originale e inclusivo temi come il razzismo, il consenso, la rape culture, nonché il trauma. Eppure il percorso di Arabella non assomiglia mai a una spirale discendente ma più a una strada tortuosa, in salita, fatta di alti e bassi, fermate e ripartenze.
Come in I Hate Suzie, anche qui si mette in scena la presa di coscienza di una donna, vittima di un sistema che si basa sul controllo dei corpi femminili, ma senza aderire mai del tutto alla broken woman che si disintegra per ritrovarsi, né alla vittima senza macchia né colpa.
 

Come in I Hate Suzie, in I May Destroy You si mette in scena la presa di coscienza di una donna, vittima di un sistema che si basa sul controllo dei corpi femminili


Nel corso della stagione vediamo Arabella intraprendere un percorso psicoterapeutico, partecipare a un gruppo di sostegno per vittime di violenza sessuale, ma anche non riuscire a scrivere il proprio libro e fare scelte impulsive come prendere un volo per l’Italia, facendo irruzione nella casa del suo ex. «Tutti commettiamo degli errori. Ma i nostri errori sono ingannevoli, devastanti, narcisisti ed egoisti?», si chiede a un certo punto la protagonista, rendendosi conto di essere anche lei una persona capace di ferire e violare il consenso altrui.
Durante l’Edinburgh International Television Festival, nel 2018, Michaela Coel ha rivelato di aver subito una violenza sessuale mentre stava lavorando alla serie tv Chewing Gum. E in una lunga intervista a Vulture ha spiegato che per lei è importante non essere definita da quell’evento traumatico: «Il trauma pulsa, ed è ovunque, e non sto cercando di dettare le regole per nessuno, ma parlando per Arabella, il trauma diventa la cosa che la nutre, e a volte l’idea di lei e di me di lasciarlo andare è spaventoso semplicemente perché non sai cos’è la vita senza». I May Destroy You, del resto, mette in scena un personaggio che annaspa ma non affoga, che potrebbe distruggere, essere distrutta o autodistruggersi, come suggerisce il criptico titolo della serie, ma in realtà sceglie sin dal principio di mettere al centro la propria salute mentale. Aggiungendo un inedito tassello in questa riscrittura del paradigma della broken woman che può finalmente disgregarsi, perdersi o anche solo incespicare per autodeterminarsi, slegata da convenzioni, pregiudizi e desideri altrui. 


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