Fermare il declino (del partito)

Scandalo: la cultura economica di Giannino non è confermata da una laurea

Lui afferma che ci sia un aspetto molto “funambolico-dadaista” nel farsi vanto di titoli di studio mai conseguiti. Ma forse anche un po’ naïf, e un po’ barocco. Oscar Giannino è costretto a togliersi la maschera di insigne economista dal cofondatore del suo movimento, Luigi Zingales, che rassegna le proprie dimissioni in segno di protesta, dopo avere appurato che di titoli accademici Giannino non ne possiede nemmeno uno. Zero. Un diploma di maturità classica col massimo dei voti, ma niente di più. L’intenzione di attendere l’università c’era, a suo dire, e anche una borsa di studio. Ma poi Giannino ha deciso di fare da sé, mentre apportava il proprio contributo nel Partito Repubblicano Italiano, e coltivava la passione per l’economia.
Sorpresa. L’incredulità coglie impreparati i simpatizzanti del movimento, quegli elettori che finalmente avevano trovato una risposta alle loro istanze di liberismo e liberalismo così lungamente disattese negli anni. Il master a Chicago presso la Booth University e le due laure non esistono. E Giannino stesso non può fare altro che ammettere di aver millantato titoli inesistenti fino a pochi giorni fa, quando è stato messo dinanzi alla realtà. Mea culpa. Confessa, e a propria volta si dimette da presidente di Fare per fermare il declino, pur rimanendo candidato premier, se non altro per il suo mezzo busto ormai affisso sui pannelli elettorali.

Eppure, Giannino pareva essere la risposta all’istanza liberale: il dandy eccentrico, cosmopolita, filantropo, con il pregio di una cultura raffinata, pronto a rendersi la personificazione del liberalismo di élite italiano. Di eloquio forbito e ricco di incidentali, dai microfoni di Radio 24 infiammava gli animi di radioascoltatori del famoso ceto medio stanchi di subire inique vessazioni da parte di uno Stato invadente che impedisce di riscattarsi economicamente. E propugnava la trasparenza e il merito, la nobile causa in nome della quale era stato proposto come candidato premier dal proprio partito, e sotto il cui peso è caduto.
Lo scandalo che travolge Giannino affascina la platea. Un piacevole divertissement, che dona nuova vita alla banalità della campagna elettorale. E l’Italia pare riscoprire adesso la gravità della menzogna. Qualcuno si indigna, qualcuno si indigna e pensa ad un altro partito cui conferire il proprio voto, qualcuno scade nel sono tutti uguali, qualcuno pensa che, be’, Zingales avrebbe anche potuto aspettare, qualcun altro si dimostra indulgente, e si mette a paragonare il caso con altri. Con quello della nipote di Mubarak, per esempio. E propende per delle attenuanti, piuttosto vane. Perché la gravità dell’aver lungamente millantato titoli di studio inesistenti resta. Intanto, il centrodestra, tramite la carta stampata, coglie l’occasione, e assale Giannino con spirito vendicativo, tentando di condurre qualche voto al Cavaliere, soprattutto in Lombardia. Monti, professore, si dimostra più comprensivo. Il centrosinistra si esprime variamente. Nemmeno su questo tema riesce a trovare un accordo.
Il partito diafano si scopre offuscato. E si trova a dover fermare un declino non preventivato, che ha a che fare con cifre che non sono quelle dell’economia, ma quelle delle urne. I candidati si scambiano rassicurazioni vicendevoli, pur sapendo che se prima dello scandalo c’era qualche possibilità di entrare alla camera, superando lo sbarramento, adesso queste possibilità si fanno ben più remote. Non resta altro da fare che elogiare la decisione di non inerpicarsi su di una difesa inutile, e celebrare le dimissioni presentate con tempestività. A questo punto, però, la credibilità personale è compromessa. E anche quella del partito, improvvisamente colpito da un affaire inaspettato, determinante, seppur di modeste dimensioni.

Quasi venti anni di berlusconismo hanno inciso anche sul modo di guardare alla politica. Hanno apportato alla competizione politica un influsso personalistico non marginale, che inevitabilmente acuirà le conseguenze della disfatta di Giannino. Fare per fermare il declino, infatti, da appena due mesi si identificava in lui, come era inevitabile. La scelta della sua candidatura era stata motivata dalla necessità di proporre un volto noto in mezzo a candidati pressoché sconosciuti ai più, per cercare di guadagnare più ampi consensi. Si è rivelata una scelta controproducente, alla fine.
Le idee in ogni caso restano. Permane lo spirito di cambiamento, nonostante tutto in nome della trasparenza e del merito. Del liberismo e del liberalismo ragionato, moderato. È indubbio che questo giovane partito si regga sulla motivazione dei propri aderenti, e rappresenti un hapax, che non ha per adesso eguali. Pur con ciò che ha coinvolto Giannino, continua a distinguersi in maniera netta all’interno del panorama politico.
Fare per fermare il declino probabilmente sconterà interamente lo scandalo alle urne domenica prossima. Ma forse, nel piccolo, potrà andare a costituire un precedente, se mai qualcuno ne conserverà memoria. Il progetto piuttosto ambizioso di dare espressione anche ai liberali pare sopito, per adesso. I risultati sarebbero comunque stati modesti. Ora pare intuibile che lo saranno un po’ di più. Una volta superato il periodo sicuramente transitorio di Silvia Enrico, è necessario un nuovo leader. Piuttosto giovane, magari. Ma con discreta esperienza. Un po’ meno eccentrico. Senza barba. Spigliato, concreto. Che dia l’impressione di essere – e che, magari, al contempo sia anche – veritiero. Forse, proveniente anche da un altro partito, in cui si sente stretto. E che sia disposto a guidare una giovane formazione politica. Anche a costo di cambiare presto il nome al partito, se serve. Forse sarà questa la strada. Ormai per la prossima legislatura.


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