Fagioli magici multicolore

Su Cereali al neon di Sergio Oricci, trip digitale nelle pieghe della mente

Apri Cereali al neon (effequ) e cerchi la trama. Una connessione narrativa tra i capitoli che si affollano uno sopra l’altro. Ci sarà un contesto, ti chiedi, una spiegazione d’intreccio all’esperienza gravemente distorta della realtà cui il libro ti costringe fin dall’inizio. Plexiglass, sassolini di musica elettronica, poligoni nudi. Usciremo da questo trip? è la prima domanda che ti fai dopo dieci righe. La risposta è no. Oricci, con le sue manone psichedeliche, ti inghiotte alla prima pagina e ti risputa fuori all’ultima, dopo averti glitterato per bene con una narrazione interamente descrittiva, sensoriale e sinestetica, la cui trama è soltanto, si fa per dire, la dissoluzione della materia.
E la storia di Silvano Rei, un omino perso nell’etere digitale, entità zerocellulare in costante aggiornamento (SilvanoRei01.brush, SilvanoRei09.brush, S i l v a n o r e i_Edit02.brush) attraverso i livelli di un videogame, o di una simulazione a realtà aumentata, impersonato da un io autodistruttivo e fattissimo come un pinolo. Dice che vuole raggiungere il pianeta Andromeda sopra un fascio di luce: Sergio, passala subito. Rosa shocking, esplosione elettrica, esoscheletro sonoro. È una lunga corsa per la vita dentro un trip di acidi e di funghetti pixelati; l’epica intermittente di una coscienza e di una volontà in agonia. I livelli che S i l v a n o attraversa sono le confuse stanze del suo cervello, ormai interamente digitalizzato, e in pericolo è la sua salute mentale, ovvero la sua vita e l’intero universo.
 

Ho qualche disturbo, qualcosa che nessuno riesce a diagnosticare. Ho fatto centinaia di volte il test dello spettro autistico. Aspie Quiz, sempre lo stesso risultato: non Asperger. Non ci credo fino in fondo, ma se il test dice così forse sarà vero.


Feticismo dei palloni di plastica (e di cosa sennò?), oltre che dei nei, delle imperfezioni e delle mutilazioni; sospetto autismo (non sappiamo); cupio dissolvi; dipendenza da sushi; identity disorder. Ma se a un soggetto così si consiglia, in genere, di trovarsi un buon dottore che lo aiuti a fare ordine, qui la cura è opposta: accettare il disordine e tuffarsi a candela nell’allucinazione. Scommettere la propria vita sulla convinzione di aver visto una cosa, un UFO magari, un cristallo viola, un amore cosmico, e rincorrerla fino a consumarsi. Come un eroe romantico, attraverso una serie di performance virtuali, SilvanoRei cerca la salvezza e al tempo stesso la distruzione, si sparpaglia come un’aspirina nell’acqua.

È una lunga corsa per la vita dentro un trip di acidi e di funghetti pixelati; l’epica intermittente di una coscienza e di una volontà in agonia

E proprio come un eroe romantico cerca la sua amata, sfuggente e polimorfa anche lei, costantemente lontana e distratta. Sono stati insieme, i loro corpi si sono fusi in corsa, poi si sono rapidamente consumati fino a disperdersi nel caos. Adesso le loro coscienze digitali, amanti preistoriche, si incontrano ogni tanto, in dialoghi monchi in cui quasi mai si capiscono. Lui, accettando di essere rimbalzato per l’eternità, la paragona a un alieno che è sceso da un UFO e gli ha sputato in faccia: cosa importa di uno sputo, quando hai visto un alieno? «Smettila di essere così innamorato», riesce a rispondergli lei. «Ci sto provando, ma non ci riesco». E ci credo: se avessero detto all’Ortis guarda, fatti scivolare Teresa, hai preso un abbaglio, lui avrebbe evitato di pugnalarsi sotto il cielo stellato? Improbabile, perché anche lui, come Rei, era sicuro di aver visto una cosa, l’UFO sorridente fra i denti di Teresa, e da quel momento non ha avuto scampo, avrebbe dovuto fondersi con l’immensità.
 

Siamo al centro di un mandala tridimensionale e urbano, ed è meglio di qualsiasi videogame a cui abbiamo mai giocato: la nostra proiezione, un simulacro digitale che lampeggia e si trasforma dopo ogni flash. Duro, concreto, poi malleabile al punto da essere quasi liquido. Poi ancora carne che sfrega contro il vento.
 

In Maniac, la brillantissima miniserie televisiva di Cary Fukunaga uscita a settembre di quest’anno (la trovate su Netflix), i due protagonisti, Emma Stone e Jonah Hill, soggetti psichiatrici di discreto livello, si sottopongono a un test farmaceutico giapponese che prevede l’assunzione di pasticche allucinogene sotto la stimolazione di un computer. A causa di alcuni inconvenienti (un cortocircuito e una crisi depressiva del sistema), l’esperienza si trasforma in trip estremo nei meandri della mente, capace di produrre infinite possibilità virtuali. La fantasia psichiatrica che esalta Fukunaga non è lontana da quella di Oricci: è la suggestione dell’esistenza di un complesso multiverso dentro al nostro cervello, una somma di livelli e di vite parallele, ipotetiche, mozzate che viviamo inconsciamente, da qualche parte, sepolti dalle malattie.
Il viaggio nel multiverso è qui totalmente immersivo, privo di orizzonti solidi; una traversata fra le ossessioni, le perversioni lucide, i pensieri sensoriali di un cervello che collassa. È una lunga pennellata psichedelica, una storia sentimentale estrema che mantiene una misteriosa tensione narrativa. Se l’intento di Cereali al neon, come dichiarato a pag. 114, era di piantarci in gola “fagioli magici multicolore”, io lo dico: ho fatto un ruttino arcobaleno.


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