Nel panopticon digitale

Lo scontro tra reale e virtuale in Searching, thriller tecnologico di Aneesh Chaganty

Quando Cesare Zavattini formulava, contro la dittatura dell’intreccio nel cinema classico americano, la sua celebre “teoria del pedinamento”, invitava i cineasti a (in)seguire la realtà nel suo divenire, anche e soprattutto quella dell’uomo della strada alla ricerca, attraverso “la pazienza dello sguardo”, di un gesto improvviso, di uno scarto inaudito e non prevedibile del reale: «il tempo è maturo per buttare via i copioni e per pedinare gli uomini con la macchina da presa».
A distanza di 70 anni da Ladri di Biciclette il confine tra la supposta realtà e le sue rappresentazioni si è fatto decisamente più sfumato: il continuum esperienziale tra la vita cosiddetta “reale” e i regimi dell’illusione è totale e non solo perché i film, le serie tv o i videogame assomigliano alla vita (anche perché vale soprattutto il viceversa), ma più originariamente, perché i linguaggi audiovisivi contemporanei sono spesso così subdoli e sofisticati sotto il profilo cognitivo, percettivo ed emozionale da finire per far dimenticare di essere dei linguaggi, e cioè degli strumenti di mediazione e di rappresentazione. Verrebbe da dire, parafrasando Nietzsche (e Baudrillard) che, ucciso il mondo vero e quindi anche quello apparente, non rimangono che immagini che si sono completamente emancipate da qualsiasi referente reale: «non è più il soggetto che rappresenta il mondo ma è l’oggetto che rifrange il soggetto e che sottilmente, attraverso l’intera nostra tecnologia, gli impone la sua presenza e la sua forma aleatoria».
 

Ucciso il mondo vero e quindi anche quello apparente, non rimangono che immagini che si sono completamente emancipate da qualsiasi referente reale


D’altra parte uno spettatore del 2018 fruisce un prodotto cinematografico a partire dall’orizzonte mediatico-ermeneutico proprio della sua epoca, così come un autore/sceneggiatore/regista contemporaneo elabora forme narrative più o meno consapevolmente influenzate dalla temperie linguistica, sociale e culturale del mondo in cui opera. Il report annuale della Digital Global Overview riferisce che negli ultimi due anni siamo stati mediamente dalle 4 alle 6 ore al giorno davanti al monitor di un computer o a compulsare il display del nostro smartphone, con un aumento già di molto significativo rispetto al biennio precedente. Ed è evidente a chiunque che la mutazione tecnico/antropologica in atto produca degli effetti non soltanto sulle nostre abitudini ma anche sull’immaginario che provoca una contestuale messa in crisi dei regimi scopici invalsi nel cinema novecentesco, determinando uno scollamento del legame ontologico tra immagine filmica e realtà. E allora non dobbiamo stupirci che un pulsante di Facebook possa diventare più narrativo di un tramonto montano o l’interfaccia di una story di Instagram finisca per rivestire un significato esistenziale più emozionale di un rendez vous amoroso in carne e ossa.

Guardare Searching sul monitor del proprio computer domestico, con le mail e messaggi che si confondono con quelli intradiegetici del film, produce un effetto di mise en abyme abbastanza vertiginoso. Siamo a San José, in California. L’incipit di Searching ci fa entrare sin da subito nel cuore di tenebra cibernetica del film: la prima sequenza ci mostra infatti la creazione da parte di Kim del primo profilo informatico della figlia Margot all’interno di un vetusto computer in cui gira ancora Windows XP. Quindi, attraverso una serie di filmati, di fotografie e di varie tipologie di programmi e interfacce che vengono lanciati sul monitor del computer, assistiamo al percorso di sviluppo della ragazza (che crescendo abiurerà Bill Gates per passare ai più stilosi devices della Apple). Siamo all’inizio del terzo millennio e i passaggi esistenziali della crescita di Margot vengono fatti corrispondere ad altrettanti siti/brand/servizi che scandiscono i diversi momenti della sua giovane vita. Da eBay a Youtube, da Skype a Facebook: i ricordi di Margot sono la celebrazione dei regimi di sorveglianza del panopticon interattivo del quale siamo tutti prigionieri e che partecipano inesorabilmente alla costruzione della nostra memoria e del nostro immaginario.
 

Da eBay a Youtube, da Skype a Facebook: i ricordi di Margot sono la celebrazione dei regimi di sorveglianza del panopticon interattivo del quale siamo tutti prigionieri


Il tranquillo menage familiare viene spezzato dalla malattia della madre e, a seguito della sua morte, il rapporto tra padre e figlia entra in crisi. Da questo momento in poi Searching si tramuta in un classico vanishing, con la misteriosa sparizione della ragazza che innesca il percorso di detection del padre, che segue le regole classiche del genere, ma utilizzando uno stile di messa in scena rigorosissimo che impone di far vedere allo spettatore soltanto ciò che è inquadrabile in monitor e interfacce cibernetiche.
Si chiamano Screen Life Movies – da Open Windows e Unfriended  (2014) ai recentissimi Profile e Searching (2018) – e presentano una varietà di declinazioni di genere già abbastanza codificate. Il tratto distintivo degli Screen Life Movies è che ogni inquadratura riproduce una porzione del monitor/display di un device digitale, come se si trattasse di un screenshot ininterrotto di un’ora e mezza, con un repertorio di situazioni (cartelle che contengono foto osé e documenti segreti, pop up di misteriosi siti che si aprono all’improvviso, telefonate su Skype di mittenti anonimi, una telecamera di sorveglianza che spia qualcuno) con cui tutti, volenti o nolenti, abbiamo ormai acquisito una certa confidenza.

L’esordio del giovanissimo Aneesh Chaganty, non a caso ex dipendente di Google, con il suo estremismo teorico e narrativo, segna un punto di svolta nel cinema commerciale contemporaneo, anche dal punto di vista giuridico/legale e del product placement (come ha fatto una produzione indipendente – anche se specializzata in questo genere di film – a ottenere i permessi e le liberatorie per utilizzare interfacce, app e apparecchiature dei colossi della digital economy? E qual è stato il do ut des?). E il finale un po’ buttato lì non pregiudica l’operazione, così come la recitazione convenzionale e anodina dei tre interpreti principali sembra quasi una scelta voluta. Le sequenze meglio costruite sono quelle in cui vediamo cursori che si muovono, pagine web che si aprono, immagini di volti in primo piano nei quali la cifra recitativa è ridotta ai minimi termini. In fondo, il percorso di detection del film è costruito proprio intorno al problema dell'identità, con l’indagine del padre che si focalizza sulla banalissima foto di profilo di un’amica di chat di Margot che, va da sé, come in ogni social network che si rispetti, potrebbe non essere chi dice di essere.
 

Viviamo nell’epoca dei social network in cui vige l’imperativo della connessione permanente e in cui la complessità del mondo è ridotta alle due macrocategorie di mipiace/nonmipiace


Viviamo nell’epoca dei social network in cui vige l’imperativo della connessione permanente e in cui la complessità del mondo è ridotta alle due macrocategorie di mipiace/nonmipiace. L’etica è diventata un database di opzioni preimpostate e gli affetti/sentimenti si cancellano in tempo reale con un semplice refresh. La radicalità di messa in scena del film di Chaganty ci dice quanto la dimensione cibernetico-informatica sia diventata pervasiva e costituisca l’orizzonte intrascendibile all’interno del quale tutti ci troviamo a vivere. Agli apocalittici però sarà forse il caso di ricordare che lo stesso Alfred Hitchcock vagheggiava sulla possibilità di trasformare lo spettatore in uno strumento musical/cibernetico che il regista avrebbe potuto manovrare a suo piacimento. In fondo, ieri come oggi, il cinema è solo e sempre una questione (di) tecnica.

Piero Tomaselli

Su Searching ha scritto anche Alessia Ronge qui
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