Dio non ha salvato la Regina

Come la serie The Crown ha superato il confine tra presente e memoria storica

Il mio episodio preferito della terza stagione di The Crown, serie drammatica in costume prodotta da Netflix, si intitola Polvere di Luna. L’episodio ritrae il principe Filippo (Tobias Menzies) in preda a una crisi di mezza età che lo porta a sviluppare un grande passione per la missione Apollo 11 e per i suoi astronauti, di cui invidia il coraggio e i memorabili traguardi. Alla fine, Filippo trova un nuovo scopo nella vita e fonda la St. George’s House, centro per l’esplorazione della fede e della filosofia. Mentre l’ultima scena dissolve al nero, un testo sullo schermo spiega che «il successo del centro è uno dei risultati di cui Filippo è più orgoglioso». Ho trovato strano leggere questa frase l’ultima volta che ho guardato l’episodio, il giorno dopo la morte di Filippo, avvenuta il 9 aprile 2021 all’età di 99 anni. L’uso del presente, che crea un ponte tra gli eventi del 1969 e la nostra epoca tramite una catena ininterrotta di giorni nella vita di un uomo, era improvvisamente obsoleto. La sua morte aveva relegato quegli eventi ancora di più nel passato. Un’altra persona che li aveva vissuti non c’era più.
 

La serie ritrae la regina come una donna che non tanto risolve i suoi problemi, quanto piuttosto li sopporta e li supera



Quando la quinta stagione di The Crown ha debuttato il 9 novembre, la regina Elisabetta II, ispiratrice e fulcro della serie, era morta da poco più di due mesi. Come la morte di Filippo, ma molto di più, la sua scomparsa altera non solo la nostra percezione del dramma storico, ma anche la possibilità, attraverso il mutevole mezzo del tempo, di trovare dei legami con il nostro passato collettivo. In un certo senso, The Crown perde di significato con la morte di Elisabetta, o quantomeno ne assume uno diverso. Nel corso delle prime quattro stagioni, la serie ritrae la regina come una donna che non tanto risolve i suoi problemi, quanto piuttosto li sopporta e li supera. Se la capacità di sopravvivere è senz’altro una caratteristica appropriata da attribuire alla monarca più longeva della Gran Bretagna, il creatore della serie Peter Morgan mostra tale qualità in una triplice declinazione: diritto di nascita, tratto caratteriale e strategia politica.

 

Più volte nel corso dei decenni Elisabetta, interpretata da Claire Foy o Olivia Colman (Imelda Staunton ne veste il ruolo nell’ultima stagione), impara e reimpara che i reali, a differenza dei politici, dei rivoluzionari o della gente comune, attingono al loro potere divino nel non fare nulla. Anche quando circostanze straordinarie costringono la regina ad agire (ballare con il presidente ghanese Kwame Nkrumah nella seconda stagione, prendere le distanze dalla posizione di Margaret Thatcher sull’apartheid nella quarta stagione), alla fine torna sempre alla sua solita condizione di irreale e risoluta immobilità. «Non fare nulla è la tua soluzione a tutto?», chiede la principessa Anna a sua madre nella quarta stagione. La regina, in maniera fin troppo opportuna, non risponde. Mentre la vera Elisabetta era viva, la straordinaria resilienza mostrata della sua controparte romanzata assumeva quasi una valenza metanarrativa: ora come allora, la regina vive per resistere e aspettare un altro giorno. Con la sua morte, questo messaggio si perde per sempre e la serie involontariamente cambia di senso, l’ironia non è più nel fatto che la protagonista rimane forte e in vita, ma nel fatto che, dopo tutto, nulla duri per sempre.
 

L’ironia non è più nel fatto che la protagonista rimane forte e in vita, ma nel fatto che, dopo tutto, nulla duri per sempre


I romanzi storici plasmano da lungo tempo il nostro rapporto con la storia e con lo scorrere del tempo. Quando Walter Scott pubblicò il primo grande romanzo storico inglese, Waverley, nel 1805, fu chiaro perché decise di ambientare la storia nel 1745: collocando il suo racconto «a sessant’anni di distanza», o appena oltre la soglia della memoria vivente, Scott poteva evocare un mondo diverso dal suo, eppure non del tutto irriconoscibile. I suoi romanzi successivi, come ad esempio Ivanhoe, si spingono oltre, portandoci indietro di sette o otto secoli e immergendoci nell’alterità di tradizioni e costumi dell’epoca. Più tardi nel XIX secolo, scrittori vittoriani come Charles Dickens e William Makepeace Thackeray varcarono questa linea di confine ambientando i loro romanzi storici non più di quarant’anni prima della stesura, in un regno che lo studioso Nicholas Dames ha definito «passato recente». Per questi scrittori, afferma Dames, fissarsi sul passato recente era «un modo per creare un realismo che sentisse il peso del tempo: un realismo fatto di cambiamenti graduali, ambiguo e inquieto, collocato in una dimensione intermedia in cui il passato non si è ancora cristallizato nel mito e in cui le sue cuciture sono ancora visibili».



The Crown è a metà strada tra le due tipologie di narrativa storica. La prima stagione è ambientata nel territorio di Scott, infatti gli eventi dell’episodio finale si svolgono esattamente sessant’anni prima la data di uscita del 2016; la quinta stagione inizia nel 1992, ovvero trent’anni fa, nel passato recente prediletto da Dickens. Dunque, la serie si pone al di là della soglia che divide la memoria vivente da quella storica. Qual è l’effetto di una tale dilatazione temporale? Innanzitutto, gli spettatori sono costretti a leggere gli eventi storici di cui hanno memoria attraverso la lente di quelli che non ricordano, a rendersi conto che il segmento di storia a loro familiare è influenzato almeno in parte da echi e richiami provenienti da un’epoca più lontana. La lotta della principessa Diana per affermare la propria individualità all’interno della famiglia reale appare ancora più infausta se presentata come la continuazione di quella della principessa Margaret.
 

La serie si pone al di là della soglia che divide la memoria vivente da quella storica


A un livello più profondo, tuttavia, questo tipo di narrazione storica trasgressiva offusca la linea che scavalca. La serie si è sempre tenuta in equilibrio fra sentimentalismo e umorismo pungente, ed entrambi gli ingredienti hanno il potere di modificare la nostra percezione del passato. Le prime stagioni spesso ci fanno sentire molto vicini a vite ed epoche che non abbiamo mai conosciuto direttamente, mentre le stagioni successive spesso ci allontanano da quelle che abbiamo vissuto. I giovani Filippo ed Elisabetta che si sdraiano a letto dopo una lunga giornata ci sono tanto familiari quanto non lo è Diana che pattina a Buckingham Palace al ritmo di Girls on Film. Partendo da tali destabilizzanti premesse, la contrapposizione tra passato recente e lontano svanisce gradualmente, ed entrambi vengono inglobati in una categoria più vaga: il passato continuo. Si scopre che tutto, a prescindere dal numero di anni che ci separano dal momento attuale, è ancora in divenire.


Questo effetto di sfocatura può spiegare in parte perché The Crown abbia stimolato un dibattito particolarmente intenso, a tratti frenetico, tra vita e arte. Si pensi ad esempio alla recente lettera aperta di Judi Dench pubblicata sul Times, in cui l’attrice chiede allo show di riconoscere il proprio carattere finzionale. «Più la storia si avvicina ai giorni nostri», dice Dench, «più diventa facile confondere i confini tra accuratezza storica e crudo sensazionalismo». I creatori dello show l’hanno ascoltata e su YouTube il trailer della quinta stagione contiene un disclaimer. Nel frattempo, è diventato di moda scrivere su Twitter come ogni nuova polemica riguardante il principe Harry e Meghan Markle possa costituire materiale per la «settima stagione di The Crown». Niente di tutto ciò dovrebbe stupirci. Questa narrativa storica non del tutto accurata dà vita a un passato che sembra più presente che mai, mentre lascia il presente in attesa di diventare passato.

 

 

Matthew Redmond è un autore, critico e ricercatore americano. Questo articolo è stato pubblicato su Literary Hub il 07/11/2022 ► What’s The Crown Without a Living Queen Elizabeth II? | Traduzione di Serena Mannucci


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