Che bella gente, e che vino! Luca Vendruscolo e Matteo Oleotto

Intervista ai registi di "Boris" e "Zoran", autori e immaginari friulani nella commedia italiana

Quando ci si trova a presentare un incontro con più ospiti c’è sempre il timore di dover imbastire il discorso, collegare le loro risposte, trovare una connessione tra i temi che emergeranno; il timore insomma di dover parlare troppo, mentre il compito di ogni buon intervistatore è fare domande brevi e stare in silenzio. Nella serata sulla commedia italiana organizzata dal Cervignano Film Festival, una piccola e vivace realtà festivaliera del Friuli-Venezia Giulia, non ho corso questo rischio, anzi a malapena ho preso in mano il microfono. D’altronde "Devi stare muto!" è la frase ricorrente di due dei personaggi più celebri dei lavori di Matteo Oleotto, regista di Zoran – Il mio nipote scemo, e Luca Vendruscolo, regista e co-autore della serie Boris, cult televisivo degli anni duemila. Lo dice Paolo Bressan a suo nipote Zoran, lo dice (ovviamente) Biascica al suo stagista schiavo. Oltre alla passione per i titoli bizzarri, i due registi hanno in comune l’origine friulana – Luca udinese, Matteo goriziano – e una brillante carriera a cavallo tra cinema e televisione, passata per entrambi da Udine e dal teatro di Claudio De Maglio. Sia Oleotto che Vendruscolo, nonostante i diversi percorsi artistici, devono molto a lui e alla loro esperienza teatrale, un debito che va al di là di un’audizione in un immaginario sexy shop di Amsterdam e di un cortometraggio che mette in scena la penetrazione di una lavatrice da parte di un vivace frullino. Di che stai parlando?, vi chiederete. Ce lo raccontano direttamente i due registi friulani.

Luca Vendruscolo Non so cosa esattamente a metà degli anni Settanta fa innamorare un ragazzo di provincia, di Udine, del cinema, probabilmente la visione del Nuovo cinema americano di quegli anni: Spielberg, Lucas… e forse una visione un po’ troppo precoce, a cinque anni, di 2001: Odissea nello spazio, però visto in quest’ordine: prima l’avventura spaziale e poi gli scimmioni alla fine, perché negli anni Settanta si entrava al cinema quando ci pareva.
Mi innamoro di una cosa che sembra impossibile, improbabile, partendo da Udine. Non conoscevo nessuno che lo facesse, non sapevo come iniziare, quindi l’incontro con la compagnia teatrale del Teatro all’Aria di Claudio De Maglio, che adesso è direttore dell’Accademia Teatrale d’Arte Drammatica di Udine, è il primo incontro con qualcuno che mangia di quel lavoro, mentre nell’atmosfera udinese viene visto come un lavoro che o fai al massimo livello o è qualcosa da disperati (e in qualche modo poi non è così tanto diversa la realtà). Ho la fortuna di entrare in contatto con queste persone, di fare un po’ di teatro al livello che le mie competenze di adolescente permettevano, cioè io ero praticamente un aiutante factotum dietro le quinte e ogni tanto apparivo a cercare di rovinare le scene anche sul palco. In quel territorio cominciamo a fare delle prime sperimentazioni, a supporto di alcuni spettacoli facciamo dei brevi filmati.
 

All'inizio ero praticamente un aiutante factotum dietro le quinte e ogni tanto apparivo a cercare di rovinare le scene anche sul palco


Vado a Roma, entro al Centro Sperimentale, cerco di esordire in anni bui in cui si produceva pochissimo, poi c’è la rivoluzione della fiction, che parte con una legge voluta da Walter Veltroni in cui nel ’96 le reti vengono costrette a reinvestire tantissima parte del loro budget nella produzione di una fiction nazionale, e nasce la fiction come la conosciamo: questi monumenti, questi strani mostri che spesso sono state serie come Incantesimo, figlie del melodramma peggiore, tirate avanti senza grandi tecniche. Era veramente una tv  che non studiava: i modelli americani non sono stati studiati, recepiti e tradotti ma si è proceduto come si sapeva sulla tradizione degli sceneggiati.

La grande occasione è stata Piovono mucche, il mio primo filmstoria di un obiettore di coscienza in una comunità di disabiliche hanno visto solo i parenti e gli amici e Matteo, che infatti custodisce una medaglietta che do a tutti quelli che l’hanno visto, e poi l’esperienza della serie Boris: tre stagioni fatte con Fox, che per noi, Giacomo Ciarrapico Mattia Torre e me, rappresentavano un premio del tutto inaspettato. Avevamo lavorato a un livello talmente basso nella fabbrica della fiction che mai ci saremmo aspettati di diventare i demiurghi di una serie fatta in grande autonomia espressiva, senza censure, e questo c’ha cambiato il percorso professionale, artistico e tutto quello che abbiamo fatto dopo discende un po’ da quell’esperienza lì.
Non ho mai fatto commedia ambientata in Friuli, anche se è la mia prima ambizione – come l’ambizione di tanti, vedi Tornatore. Tanti esordi nascono raccontando il proprio vissuto, l’orgoglio del proprio vissuto, io c’ho provato e ho trovato una difficoltà a raccontare l’anima della mia regione per come la vedevo io, e invidio moltissimo Matteo che invece secondo me c’è riuscito, o almeno è riuscito a dare la sua visione della sua terra d’origine a cui credo sia legato da centomila fili come me.

Matteo Oleotto Vacanze di Natale, il primo, è stato il mio primo ingresso al cinema, con mio zio, e m’incuriosiva vedere le cose così in grande. Credo di aver scelto di fare cinema per manie di grandezza, perché mi piaceva vedere queste facce grandi, queste immagini. Andavo spesso il cinema a vedere cose di nascosto, mi piacevano le storie, il raccontarle e il farmele raccontare. Da giovane sono sempre stato attratto da chi raccontava le storie, avevo una nonna che aveva vissuto una vita molto particolare quindi aveva molto da raccontare.
Decido di frequentare l’Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe di Udine, che è stata per me una vera svolta: è un’accademia molto seria a cui ai miei tempi c’era solo il corso come attore e io in quel percorso lì ho scoperto che l’unica cosa che non avrei voluto fare in vita mia è l’attore. Ero incapace ma avevo una gioia nel farlo che a quell’epoca mi sembrava sufficiente e necessaria; Giuseppe Battiston, che venne a fare un corso in accademia e quindi era mio insegnante, diceva di me: “Bravo, ma si muove strano”. Non ho mai ben capito cosa volesse dire.
 

All’Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe di Udine c’era solo il corso come attore e io in quel percorso lì ho scoperto che l’unica cosa che non avrei voluto fare in vita mia è l’attore


È stata un’accademia formidabile, lo dico sempre, perché ha un direttore illuminato – Claudio De Maglio – che ha dato la possibilità a tutti gli studenti di portare avanti la propria passione: era un’accademia che non voleva formare 12 attori o attrici tutti uguali ma voleva aiutare a far uscire l’anima artistica e artigianale di noi tutti. Avevo una classe molto particolare: c’era un musicista che studiava da attore e adesso fa il musicista e ogni volte che facevamo uno spettacolo lui curava le musiche, a me che piaceva fare la regia e il coordinamento quando c’era modo li facevano curare. E così sono arrivato alla fine dei tre anni. All’esame d’ingresso – io sono sempre stato sovrappeso fin dalla più tenera età – il direttore Claudio De Maglio a cui voglio molto bene mi disse, per la parte d’improvvisazione: “Sei in una vetrina di un sexy shop ad Amsterdam e devi invogliare le tue persone ad entrare usando sensualmente il tuo corpo”. Immaginate quattro persone che vi guardano con una penna in bocca e tu sei lì e cominci a dimenarti, credo che abbiano premiato il mio spirito di commedia, credo dissi a Claudio De Maglio: “Più che un sexy shop mi sembra una macelleria”.

Durante l’Accademia scadeva il bando per il Centro Sperimentale, l’ultimo anno a cui avrei potuto partecipare, avevo già girato due cortometraggi e senza avere tanta speranza li mandai e fui preso. Ho studiato per tre anni in una Roma che all’epoca mi entusiasmava molto, un po’ perché ero giovane un po’ perché venivo da Gorizia un po’ perché probabilmente erano anni diversi, e ho cercato di essere presente a Roma in maniera viva e fare tutto quello che c’era da fare, chiamavo gli amici alle tre di mattina e gli dicevo “Oh, c’è traffico sul lungotevere!”. Venendo da Gorizia sembrava tutto incredibile, tutto strano, sembravo tipo Ragazzo di campagna con Pozzetto, però avevo capito bene che la mia identità era la mia unica forza. Dopo aver finito la scuola avevo la sensazione di essermi messo in una fila veramente lunga per il debutto, c’era laggiù quello che dava i soldi per il progetto e io mi sentivo milleseicentesimo, perché a Roma avrei raccontato una storia come tanti altri e continuavano a superarmi delle persone che raccontavano delle storie che erano connaturate con il territorio. Ho capito che era necessario per me ritornare a casa perché le mie storie e la mia formazione adolescenziale, che secondo me è il fuoco primordiale, arrivava da qua. E allora un giorno me ne sono tornato a Gorizia e c’era un mio vecchio amico, un uomo che aveva coprodotto tante cose, e mi dice “Sono diventato produttore” e io “Ah pensa, io son regista. Ci mettiamo a fare questo film?”. E in soli sette anni siamo riusciti a debuttare con Zoran.

Luca Vendruscolo In che hanno sei arrivato a Roma?

Matteo Oleotto Sono arrivato a Roma nel 2000, ma mi ricordo che vidi Piovono mucche al vecchio Ferroviario di Udine. Vidi questo film e mi piacque veramente tanto, era uno di quei film piccoli che si andavano a vedere con l’entusiasmo di vedere un film che non tutti vedevano – che adesso è una congiura per noi ma all’epoca mi sembrava una roba positiva – e venendo qui con mia moglie le parlavo di Luca e lei mi fa: “Sai che io feci un provino per fare quel film?”.

Luca Vendruscolo Noooo…

Per quale ruolo?

Matteo Oleotto
Al provino doveva fare uno spogliarello su una sedia a rotelle.

In famiglia tutti provini così comunque, non so che cosa avete fatto di male… Hai accennato ai tuoi primi lavori, che cosa raccontavano?

Matteo Oleotto Il mio primo cortometraggio La Luna ci guarda era tratto da un’antica storia di streghe, una tematica su cui avevamo lavorato in accademia e che mi affascinava molto. Lo girai addirittura in pellicola, perché si girava in pellicola a quei tempi: pensa te, che matti. Lo girai in Super16 e lo stampai in 35mm. Andavo già a Roma ogni tanto, e supplicai un mio carissimo amico, Agostino Ferrente – che ora fa il documentarista (il suo film più recente è Selfie) – che faceva un film in pellicola all’epoca. Andai al laboratorio con tutte le mie pizze con scritto sopra “Il film di Mario”: era il suo film, il produttore non sapeva niente e lui me le faceva stampare e sviluppare di nascosto, perché non avevamo soldi.
Il secondo cortometraggio fu Passeranno anche stanotte, che parlava di migranti. Era l’epoca in cui a Gorizia passavano un sacco di migranti che dalla ex Jugoslavia arrivavano in Italia a causa della guerra. La cosa che mi aveva sempre inquietato era che si vedevano passare questi gruppi di venti, trenta persone e tutti facevano finta di niente: nessuno li vedeva, erano una specie di fantasmi. Con degli amici avevamo prima messo insieme una piccola cooperativa, li aiutavamo, gli davamo da mangiare e prima assistenza, e poi abbiamo fatto questo corto un po’ provocatorio in cui facevo abbracciare un fucile a una signora anziana che a un certo punto si affacciava alla finestra e cominciava a sparare dicendo “Almeno faccio qualcosa”. Ricevetti chiamate di giubilo da parte di una parte politica che non è la mia, creando un po’ di imbarazzo in me, perché pensavano che avessi fatto una sorta di spot progresso. Ho dovuto spiegargli che il discorso era un po’ diverso.

Luca Vendruscolo L'ironia non sapevano proprio che cos'era. Anch’io all’inizio ho partecipato a dei corti, anche se non in regia. Uno in particolare partiva da uno spettacolo teatrale di Sergio De Maglio con Claudio De Maglio. Nello spettacolo entravano in scena due attori nudi, partiva una musica e loro si vestivano in gran tiro, lui con uno smoking lei con un abito da sera, sembrava la storia di un incontro sentimentale e romantico, invece si confrontavano al centro del palco, poi si giravano, uscivano e portavano due avatar di se stessi: l’elemento maschile era rappresentato da un vivace frullino che veniva posato per terra, l’elemento femminile era rappresentato da una lavatrice. Dopodiché uscivano di scena e tutto veniva demandato agli elettrodomestici: generosamente la lavatrice si spalancava, il frullino cominciava a partire e sparava grani di caffè in giro, con un meraviglioso effetto speciale veniva tirato su, si sollevava verticalmente, si girava orizzontalmente, entrava dentro la lavatrice, la lavatrice si chiudeva e si chiudeva il sipario. Da qui è nata una sorta di poetica degli oggetti e dell’elettrodomestica, con un altro spettacolo sull’evoluzionismo con quattro lavatrici in scena, molto suggestivo.

Mentre racconta e ricorda, guardando di fronte a sé Sergio De Maglio seduto tra il pubblico, Luca Vendruscolo non può che ridere delle spettacolari ideazioni teatrali della sua gioventù, in cui l’atto sessuale tra un frullino e una lavatrice rimanda niente meno che a Kubrick.

Di questo spettacolo è stata fatta una versione filmata e io mi sono occupato degli effetti speciali. E in effetti è congruo con i film che ho citato: Spielberg, Lucas, 2001: Odissea nello spazio era la principale citazione della sequenza di effetti speciali, perché nel cortometraggio succedeva la stessa cosa ma quando cominciavano ad agire i due elettrodomestici per conto loro l’atmosfera si faceva spaziale, cosmica, questi oggetti fluttuavano nello spazio assoluto, si congiungevano un po’ come la danza dell’astronave e della nave spaziale con la musica di Strauss e poi l’azione era la stessa. Ci siamo divertiti un mondo a fare questi effetti speciali alla buona, divertentissimi. Lì il nostro approccio era a rovescio, credo, noi sognavamo di essere da un’altra parte, in una capitale, in una New York in una Parigi in una Londra. Anche se poi Claudio ha cominciato a scrivere teatro in friulano, nonostante Claudio nasca da una famiglia di origine pugliese. Credo che la forza del territorio sia grandissima, tu hai detto “Mi sono trovato a Roma e ho capito che la mia identità poteva essere la mia arma”. Quello che hai descritto è assolutamente vero: lì c’è chi dà i soldi e tu sei in fila e sai che ci sono tanti altri che hanno discorsi più forti, se raccontano la storia di un ragazzo della periferia di Roma passano prima perché sono comprensibili. Ultimamente durante un brainstorming ho detto: “Ah, in questa serie potremmo mettere tutto quel coté, quella Udine degli anni Settanta!”. Vengo ancora preso in giro. Andrea giustamente, che è toscano, ride, perché la tipica atmosfera della Udine degli anni Settanta…

…è un po’ la tipica atmosfera della Festa del Grazie.

Esatto, è un’impossibilità, e invece per me era chiarissimo. Probabilmente mio fratello e mia sorella sanno di cosa sto parlando, ma non posso comunicare al mondo l’atmosfera di Udine degli anni Settanta.

Secondo te, Matteo, Gorizia ha qualcosa da raccontare più di Udine? E come hai deciso di raccontarla con Zoran?

Matteo Oleotto
Ne parlavamo prima con Luca. Secondo me Gorizia, a causa e per fortuna della presenza del confine, ha un’identità in cui alcuni caratteri sono diventati più forti, più radicati, più essenziali, più urgenti nei rapporti tra le persone. E questa cosa mi ha dato la possibilità di raccontare un film che potevo fare solo ed esclusivamente lì. Quando porto qualche amico che viene da fuori a fare un giro a Gorizia è sempre molto attratto da questa cosa del confine; adesso c’è una strada – siamo in Italia siamo in Slovenia non ci si rende nemmeno conto – ma una volta c’erano delle frontiere o alcune parti di Gorizia con dei campi dove non c’era la rete ma c’erano dei graniciari, uomini dell’esercito sloveno con il fucile e dei pastori tedeschi che camminavano tutto il giorno e tutta la notte lungo i campi. I genitori avevano vita facile nel non farci fare i capricci, qalunque cosa facevi ti dicevano: “Guarda, li vedi?”.

Altro che uomo nero.

L’uomo nero io lo vedevo ogni giorno che andavo a casa. Gorizia questa identità qui ce l’ha e forse Udine meno, perché è più al centro.

Luca Vendruscolo Udine non ha un’immagine forte. L’udinese ha una forte identità locale, si riconosce come uomo onesto e lavoratore, ma quando esci dai confini non siamo riconosciuti per niente in particolare. Mancano quelle maschere sociali condivise che sono il primo scalino su cui si può costruire la commedia, che è sempre una costruzione e una decostruzione di maschere. A Gorizia l’identità locale ha il confine e ha il vino, la cultura del vino a Udine è altrettanto forte, ma non abbiamo un marchio come il Collio, quindi è un’identità anche in quello un po’ più sfumata. Prima di fare il lavoro della commedia bisognerebbe fare il lavoro del dramma, cioè della scrittura drammatica, e poi passare attraverso la parodia, oppure seguire la strada della comicità che fa la cultura egemone sulla cultura subalterna. Vista da Roma Udine è solo un luogo di provincia generico, non ha nessun marchio, nessuna etichettatura. Qual è il problema di questo? Che se vai da un produttore e dici “Ho una commedia eccezionale” – “Lo sfondo?” – “La tipica Udine degli anni Settanta”. Lui ti accompagna alla porta, perché non sa di cosa si sta parlando, proprio non lo capisce. E chi propone sembra solo un bislacco. Era molto difficile fare commedia e anche narrazione in assoluto per mancanza di monumenti letterari, di archetipi già fondati. Noi avevamo dei monumenti: Pasolini, friuliano a metà, Caterina Percoto, Ippolito Nievo. E non so se su questi monumenti si potrebbe costruire gran che. Manca il punto di partenza. Io orgogliosamente avrei voluto riuscirci, non dispero un giorno di poterci riuscire. Matteo c’è riuscito.

Non a caso Matteo ha detto “confine” e “vino”, e sono due delle colonne portanti di Zoran.

Matteo Oleotto
Anche della mia vita!

Il film racconta la storia di Paolo Bressan, quarantenne alla deriva interpretato da Giuseppe Battiston, la cui vita cambia quando è costretto dalla morte di una zia sconosciuta ad occuparsi del nipote sloveno Zoran Spazapan, campione di freccette. Com’è stato arrivare a girare questo film?

Matteo Oleotto
Zoran è un film che dovevo fare a un certo punto: sentivo che le idee si stavano fermando in un imbuto, se non fossi riuscito a metterle in questa storia qua. Il 90% di quello che abbiamo messo nel film è successo a me o a persone a me vicine. L’abbiamo prodotto in maniera abbastanza bizzarra. La prima cosa che ho fatto è stata andare da un produttore di vino e gli ho chiesto se mi dava 5000 bottiglie dicendo “Poi te le pago, però vorrei usarle per far sapere a tutti che sto per fare questo film”. Lui giustamente, pur essendo un vignaiolo open minded, ha pensato “Che cazzo dice questo?”; non stava capendo. Anche perché nemmeno io capivo bene che cosa stavo facendo. Siamo andati a otto, nove festival in giro per il mondo – Cannes, Berlino, Sarajevo, Venezia – che potevamo raggiungere con la macchina. Prendevamo un appartamento con il produttore Igor Princic, di Gorizia, un genio, e andavamo in giro per tutto il giorno al festival a conoscere persone e dicevamo a tutti “Venite verso le sei a casa nostra, beviamo un bicchiere e facciamo due chiacchiere”. Ad accoglierli eravamo sempre noi, che dismettevamo i panni di regista e produttore e mettevano dei grembiuli, e lì uova sode, vino e si parlava. Finiva il festival, tornavamo in macchina e ci dicevamo: “Com’è andata?” – “Boh”. 
 

Sono andato da un produttore di vino e gli ho chiesto 5000 bottiglie dicendo “Vorrei usarle per far sapere a tutti che sto per fare questo film”. Lui giustamente ha pensato “Che cazzo dice questo?”


E ai festival ci aspettavano! Mi chiamavano e mi dicevano “Ma a Cannes ci siete anche quest’anno? Sono venuto a Cannes, dove siete?”. A Cannes l’ultimo anno, Zoran era già pronto, vivevamo in un appartamento al sesto piano, il secondo produttore lo prese come a dire “Viene su solamente chi vuole davvero venire a bere un bicchiere, non la gente che passa per strada, così”. E arrivò persino Barbera, il direttore della Mostra. Ho giocato a freccette con un bel po’ di produttori e registi importanti da tutta Europa. Facevamo proprio orario osmiza il locale tipico delle zone del Carso che i produttori di vino, formaggi e salumi ospitano direttamente nelle proprie cantine rappresentato nel film –, dalle sei alle nove e alle nove si chiudeva. E quindi piano piano siamo riusciti a tirare su il budget per questo film, prendendo un po’ di soldi da tutta Europa. Abbiamo preso i soldi da EurImage, e secondo me li abbiamo presi perché la gente sapeva che c’eravamo: qualcuno ci aveva incontrato a qualche festival, qualcun altro aveva sentito parlare di noi.

Finché, mentre stavo facendo lezione al Centro Sperimentale, mi chiama il selezionatore della Mostra del cinema di Venezia con un numero che non avevo in memoria, per cui finisco la lezione e lo richiamo. E lui mi fa: “Ciao, sono xy, sei seduto?” – “Perché, in che senso?” – “Ti vorremmo in concorso ufficiale alla Settimana della Critica”, io stavo cominciando a tremare, “però non puoi dirlo a nessuno per i prossimi sette giorni, perché non è ancora chiusa la selezione, ma ci siamo innamorati del tuo film” – “Sei un pazzo?! Ma come faccio a non dirlo a nessuno! Al produttore lo posso dire?” – “Sì, solo ed esclusivamente al produttore”.
Ho chiamato il produttore, che è quasi svenuto, torno a casa e lo dico a mia moglie. Mia moglie peggio di me, non resisteva e allora le ho detto vai di là e chiamami, chiamami dall’altra stanza e me lo racconti. E per due volte abbiamo fatto questo giochetto. Perché poi in base alla fatica che uno fa si misura la gioia, e dopo sette anni… io lo dico sempre: con Zoran ho guadagnato 22mila euro per lavorare sette anni. Lordi. Mio padre c’ha un negozio di orologi, fate due conti. Ho dovuto fare un sacco di cose in mezzo per uscirne vivo.
La storia di Zoran si conclude a Venezia, un’emozione che nemmeno racconto perché era fuori scala. E lì ho chiesto al produttore: “Stavolta però non mi rompere le balle, non mi far tagliare il prosciutto, andare a prender le uova sode, cucinare. Fammi fare la star, fammi andare a Venezia con l’albergo, con mia moglie…”. Neanche per sogno. Prendiamo una villa, prendiamo decine e decine di litri di vino, prosciutti crudi e la apriamo ogni giorno dalle sei alle nove al Lido. C’era gente che aveva visto Zoran e gente che non ha mai visto Zoran ma che veniva a bere lì.
 

Con Zoran ho guadagnato 22mila euro per lavorare sette anni. Lordi. Mio padre c’ha un negozio di orologi, fate due conti


Ho capito e scoperto dopo che non sarà mai più così. Sto portando avanti altri progetti: adesso vado a pranzo col produttore, parliamo col produttore, una noia mortale. Per cui questa parte così bella e ricca me la tengo stretta stretta nel cuore. L’idea era: “Vengono fatti decine e decine di film all’anno, per quale motivo la gente deve scegliere il nostro?”. E il produttore diceva “Perché noi raccontiamo una storia che non è solamente il film: il film fa parte del progetto Zoran. E nel progetto Zoran c’è l’osmiza, c’è “Casa Zoran” a Venezia, c’è tutto”. Un’idea che mi è parsa geniale fin da subito. Non si possono fare tutti i film così, soprattutto io adesso che ho una famiglia: è stato un progetto matto partito da delle idee matte, un meraviglioso modo di cominciare.

Luca Vendruscolo Quando ho visto Zoran ho capito che c’era una marcia in più perché l’udinese, il friulano che definisce se stesso come “onesto e lavoratore”, ha la debolezza di definirsi unicamente attraverso questa cosa, invece la commedia ha bisogno di un personaggio che faccia delle bastardate. E il tuo protagonista è un bastardo. Quella è stata una scelta vincente. Forse per te non è stato superare una barriera, ma dal mio punto di vista sì.

Matteo Oleotto Lo è stato, lo è stato. Nelle varie versioni Paolo Bressan non era così, e con il produttore ci dicevamo sempre: “Dev’essere più stronzo, dobbiamo portarlo più in basso, dobbiamo sporcarlo di più, dobbiamo renderlo più nemico”.

Luca Vendruscolo E hai mantenuto comunque un’ispirazione, perché hai detto “La maggior parte delle cose son successe o a me o ad amici”. Avevi in mente un preciso bastardo che conoscevi?

Matteo Oleotto Sì sì, vive ancora tranquillo e non sa di essere protagonista di un film.

Luca Vendruscolo Geniale, geniale. E poi serve anche l’interprete, finché non c’è un Giuseppe Battiston, un volto riconoscibile e proponibile al cinema intorno a cui raccogliere altri attori come Teco Celio, Paolo Citran, è difficile rappresentare fino in fondo una terra.

Matteo Oleotto Giuseppe era forse l’unico attore capace di raccontare la friulanità, perché per quanto si rifiuti di ammetterlo lui è l’uomo friulano. Una volta andai a casa sua a mangiare a pranzo, era il 25 aprile o il 1° maggio, e la sua compagna faceva una festa parallela con i suoi amici su in terrazzo. Un amico scese per chiedere dei bicchieri, io e lui stavamo mangiando al buio, in silenzio, come solo i friulani, c’era un caldo pazzesco, questo viene lì, apre due cassetti, “Oh, Giuse’, dove stanno i bicchieri”, prende due cose e torna su. Giuseppe mi guarda e fa: “Questi non sanno che a ora di pranzo non si va in giro per le case della gente”.

E in questo è un perfetto Paolo Bressan, protagonista di commedia e anche bastardo, come Michele Venturi, protagonista della nuova serie di Luca. Che storia è quella di Michele Venturi?

Luca Vendruscolo
Con Giacomo Ciarrapico abbiamo scritto 12 puntate da mezz’ora incentrate su un bastardello, un furbacchione stavolta tipicamente romano interpretato da Giorgio Tirabassi, un avvocato d’affari e un faccendiere, che viene beccato con le mani nella marmellata: gli trovano 25 milioni di euro in contanti nel bagagliaio nella macchina. Viene mandato agli arresti domiciliari in una sorta di co-housing, una comunità laica dove famiglie e coppie vivono insieme condividendo degli spazi comuni, prendendo decisioni comuni, in una sorta di utopia senza però quel radicalismo che aveva caratterizzato le esperienze di comunità degli anni Sessanta e Settanta. Non condividono un’ideologia politica, ma un’ideologia laica, ecologista.

Chiaramente il nostro furbacchione rappresenta l’egoismo, il narcisismo, il mondo moderno che passa sopra tutti gli altri e loro esattamente l’opposto. Come succede sempre in questi casi le due culture avranno da scambiarsi qualche cosa, da aiutarsi reciprocamente in un momento di difficoltà. In tutto ciò, il nostro protagonista è intercettato sistematicamente da una pm che vuole risalire all’intero disegno tangentistico che è convinta che quest’uomo stia gestendo, e l’ha messo in quel luogo proprio perché è facilmente permeabile. Non sappiamo ancora il titolo, non sappiamo ancora l’uscita.

Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico il titolo l’hanno trovato, e adesso sanno anche la data di uscita. La serie si chiama Liberi tutti e dopo l'anteprima su RaiPlay andrà in onda da sabato 9 maggio alle 22.00 su Rai Tre – forse la collocazione migliore possibile dato che a chi gli chiedeva “Ma Boris funzionerebbe in chiaro?”, in un'intervista ai tre autori uscita ormai dieci anni fa, lo stesso Ciarrapico  rispondeva “Magari in seconda serata su Rai Tre”. Per Luca Vendruscolo è un passo ulteriore nella commedia calata nella realtà romana, mentre Matteo Oleotto, fedele a se stesso, ha girato proprio a Gorizia e Udine il suo ultimo film tv Mai scherzare con le stelle, andato in onda a febbraio su Rai Uno. Ancora una volta Gorizia, dove Oleotto aveva ambientato anche la sua serie uscita su Rai Due tra ottobre e novembre 2019, pochi giorni dopo questa intervista.

Matteo, la tua serie si chiama Volevo fare la rockstar, con Valentina Bellè e Giuseppe Battiston. Ce la racconti?

Matteo Oleotto
È stato un bellissimo lavoro su commissione in cui ho lavorato alla stesura dei soggetti, non delle sceneggiature, che è tratto da un blog. La ragazza autrice del blog è romagnola, di un piccolo paese della Romagna, quindi quando la produttrice mi chiamò per darmi da leggere queste cose le dissi “Sì, mi piace tutto, l’unico problema è che io della Romagna conosco poco. Se vogliamo fare una storia innervata nel territorio, se vogliamo che i personaggi abbiano corpo, e che non siano solamente delle pedine appoggiate senza nessuna radice che le tenga a terra, dobbiamo portarlo su”. Su che è la provincia che io conosco. Dove? A Gorizia. E dov’è Gorizia?, mi chiedevano. E io rispondevo, Come il bagno, in fondo a destra.

È la storia di una ragazza madre con due figlie, che da giovane voleva fare la rockstar e adesso lo è: perché avere 24 anni, due figlie, un fratello a carico, la mamma con un po’ di casini con un padre che c’è e non c’è, arrivare a fine mese con dei lavori precari è essere una rockstar. Spero sia un inno bello a tutte le persone che con grande fatica arrivano a fine mese fottendosene un po’ di tutto quello che sta succedendo perché l’obbiettivo è nutrire le creature e provare a capire “Chi sono io?” e “Cosa vorrei nella vita?”. Ho scoperto che mi piace proprio girare e mi è piaciuta l’esperienza serie: ieri ero a camminare in Slovenia sul monte Sabotino, è arrivato un signore, ci siamo incrociati “Salve” – “Salve” – “Ma lei è Oleotto?” – “Sì” – “Ma quando va in onda lo sceneggiato?”, mi è sembrato meraviglioso. Noi sempre a rivendicare che “non è una fiction, è una serie”, ma scendendo dal monte con le bacchette ho pensato “Be’, sceneggiato è nobile”.

Luca Vendruscolo Un’altra barriera da rompere quando giri in Friuli è la lingua. Ci sono alcuni dialetti che sono sdoganati, che fanno simpatia, altri che suscitano associazioni diverse. L’identità friulana nel cinema è raccontata da Stefania Sandrelli che dice di essere di “Trasaghis, vicino a Peonis”, con accento veneto improbabile. Questo dà l’idea di come il Friuli è conosciuto nel resto d’Italia, non ha un’immagine forte e utilizzabile che può essere utilizzata come sfondo. Però il tuo lavoro dimostra che invece si può, uno non deve fermarsi al primo ostacolo: deve girare per l’Europa, spacciare vino gratuito e a poco a poco ci si arriva.

Matteo Oleotto Più preciso diventi e più diventi universale. Per esempio il film è andato benissimo in Scozia: siamo andati a presentarlo in Scozia e il distributore ci diceva “Piace molto perché qui la gente beve, è rancorosa, gioca a freccette, è silenziosa, non c’è mai il sole”. Ci sono degli archetipi che se li becchi e riesci a rappresentarli funzionano universalmente – per me è stato un po’ un caso, ce l’avevo in testa tutto ma non è che sapevo che…

Luca Vendruscolo No, dillo che puntavi al mercato scozzese. Furbacchione.

Matteo Oleotto Esatto. Ho trovato che essere precisi paga, perché riuscire a scendere nello specifico ti dà la possibilità di raccontare un carattere universale. Infatti per me i registi dovrebbero raccontare questo, non dico che ognuno dovrebbe stare a casa sua…

però sfruttarla sì.

Luca Vendruscolo
Aiutiamoli a fare cinema a casa loro!



Volevo fare la rockstar e Liberi tutti sono disponibili su RaiPlay


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