14 classici odiati da scrittori famosi

Wallace contro American Psycho, Woolf contro Joyce, Twain contro Austen: a volte i grandi romanzi non piacciono a tutti

Il mondo letterario è un po’ autoreferenziale. Se abbastanza persone dicono che un libro è «bello», diventa ufficiale. Diventa un Libro Meraviglioso e sguardi d’orrore vengono lanciati a chiunque lo denigri. Questo genere di reputazione si forma anche solo per sentito dire, quando quasi nessuno ha letto il libro in questione: «Mi hanno detto che è stupendo». Ma persino quando tutti sembrano concordare, è certo che in molti casi ci sarà qualcuno in disaccordo. Magari si sta solo nascondendo.

È un peccato che al giorno d’oggi gli scrittori non si sentano liberi di esprimere pubblicamente opinioni negative nei confronti di un libro: non è un bene per i lettori che fanno affidamento sui loro autori preferiti per dei consigli; non è un bene nemmeno per l’editoria, che rischia di finire nel dimenticatoio a furia di recensioni tronfie che si rivelano una delusione per il pubblico. Capisco perché succeda, eppure non riesco ad accettarlo (ma questo è un articolo per un’altra occasione).

Tutto questo per dire che comunque è divertente vedere un gigante che viene gambizzato (soprattutto se segretamente quel gigante non ti piace poi così tanto), ed è ancora più divertente vedere tali giganti litigare tra loro, o almeno è quello che mi sembra accada ogniqualvolta dei grandi autori ne screditano altri. Tutte le leggende trattate qui di seguito difficilmente potranno venire intaccate, e questo rende il dissenso letterario (e, ammettiamolo, il commento maligno) un piacere senza rimorsi. Senza ulteriori indugi, ecco una selezione di autori che hanno odiato libri poi diventati classici, e le loro opinioni in merito. Sul fatto che abbiano ragione o meno si discute ancora.




Virginia Woolf a proposito di Ulisse

Dai suoi diari:

Mercoledì, 16 agosto 1922:
Leggerò l’Ulisse per intero e mi farò un’opinione al riguardo. Per il momento ho letto 200 pagine (nemmeno un terzo): i primi due o tre capitoli, fino alla fine della scena del cimitero, mi hanno intrattenuta, divertita, affascinata, interessata. Ma poi questo studente universitario impegnato a grattarsi i brufoli mi ha confusa, irritata, annoiata e disillusa. Tom, il brillante Tom [T.S. Elliot], crede che questo romanzo sia al livello di Guerra e Pace! A me invece pare un libro analfabeta e vile, il libro di un autodidatta della classe operaia, e sappiamo tutti quanto possano essere angoscianti, egotistici, insistenti, rozzi, impressionanti, in definitiva nauseanti. Quando uno può avere della carne ben cucinata, perché mangiarla cruda? Ma, in fondo, per gli anemici come Tom c’è gloria anche nel sangue. Essendo io stessa alquanto tradizionalista, mi sento di nuovo pronta per i classici. Forse più avanti mi dovrò ravvedere. Non voglio compromettere il mio acume critico. Lascio un segno per marcare pagina 200.

Mercoledì, 6 settembre 1922:
Ho finito l’Ulisse e penso sia un fiasco. C’è del genio, almeno credo, ma spilla da una fonte inferiore. Il libro è dispersivo. È ristagnante. È pretenzioso. È volgare, non nel senso più ovvio, ma in quello letterario. Un autore di prima classe avrebbe un rispetto talmente alto per la scrittura che non arriverebbe ad essere troppo complicato; troppo sorprendente; non farebbe tutte quelle acrobazie. Mi ha ricordato un ragazzo immaturo di una scuola privata, pieno di spirito e potere, ma troppo intento a darsi un tono e così egocentrico da perdere la testa, diventare stravagante, affettato, tumultuoso, a disagio; le persone buone si dispiacciono per lui e quelle più severe sono semplicemente seccate. Uno può solo sperare che sia solo una fase che supererà maturando, ma siccome Joyce ha 40 anni, non sembra molto probabile… Sembra quasi di venire colpiti da una miriade di piccole pallottole, ma senza ricevere la ferita mortale dritta in faccia, come con Tolstoj del resto. Ma è completamente assurdo paragonarlo a Tolstoj.




Dorothy Parker a proposito di La strada di Winnie Puh

Nella colonna “Constant Reader” del The New Yorker, 20 ottobre 1928:
La poesia qui sotto è tratta dalla quinta pagina del nuovo libro del signor A.A. Milne, La strada di Winnie Puh, poiché, nonostante il lavoro sia in prosa, si incorre spesso in queste cadenzate stravaganze. Questa è chiamata «Canzoncina», che e salta alla mente di Winnie Puh mentre attende nella neve fuori dalla casa di Pimpi, saltando su e giù per tenersi caldo. «Sembrava proprio una Bella Canzoncina, tale da poterla canticchiare a tutti». Questa Canzoncina sembra talmente bella che Puh e Pimpi cominciano a canticchiarla nella neve diretti da Ih-Ho. Oh caspita, vi ho appena rivelato la trama. Mi dovrei proprio mordere la lingua.
 

Mentre saltellano tra i fiocchi di neve, Pimpi comincia a rallentare.
«Puh», disse infine un po’ timidamente, perché non voleva che Puh pensasse che si stesse arrendendo, «Stavo pensando. Cosa ne pensi di andare a casa ora a provare la tua canzone e poi cantarla a Ih-Oh domani, o… o il giorno dopo, appena lo incontriamo».
«Ma che bella idea, Pimpi», disse Puh. «Possiamo provarla ora mentre andiamo. Ma non possiamo provarla a casa, perché è una canzone fatta per l’aria aperta che va cantata nella neve».
«Ne sei sicuro?» chiese Pimpi preoccupato.
«Be’, Pimpi, appena la senti lo capirai anche tu. Comincia proprio così: Più scende la neve, piccina picciò…».
«Piccina cosa?» disse Pimpi. (Come si suol dire, ti ha proprio tolto le parole di bocca).
«Picciò» disse Puh. «Ce l’ho messo per renderla più canticchiosa».


Ed è proprio quella parola «canticchiosa», miei cari, che contraddistingue La strada di Winnie Puh e fa colluciale la flonte del lettole.




Charlotte Brontë a proposito di Orgoglio e pregiudizio

In una lettera a G.H. Lewes (amante di George Eliot), 12 gennaio 1848:
Non capisco perché Miss Austen vi piaccia così tanto. Sono molto confusa. Cosa vi induce a dire che avreste voluto scrivere Orgoglio e pregiudizio o Tom Jones piuttosto che uno qualsiasi dei romanzi di Scott? Non avevo mai letto Orgoglio e pregiudizio fin quando non mi sono imbattuta nella vostra dichiarazione. Ho dunque preso e studiato il romanzo e cosa vi ho trovato? Un preciso dagherrotipo di un volto banale, un giardino attentamente recintato e ben coltivato, con fini intagli e fiori delicati, ma nemmeno la vista di una fisionomia luminosa e vivida, nessuno spazio aperto, niente aria fresca, nessuna collina azzurra, nessun torrente impetuoso. Non mi piacerebbe affatto vivere con le sue damigelle e i suoi gentiluomini nelle loro case isolate ed eleganti. Questo mio pensiero probabilmente vi irriterà, ma correrò il rischio.
Posso capire l’ammirazione per George Sand, pur non avendo letto i suoi lavori l’ho sempre ammirata (…anche se non comprendo del tutto il suo modo di vedere la mente, non ho altro che rispetto nei suoi confronti). Lei è sagace e profonda, Miss Austen è solo scaltra e osservatrice. Mi sto sbagliando o avete dato un giudizio affrettato?




Charlotte Brontë a proposito di Emma

In una lettera a W.S. Williams, 12 aprile 1850:
Anche io ho letto uno dei lavori di Miss Austen (Emma), con interesse e proprio con il grado di ammirazione che lei stessa avrebbe ritenuto ragionevole e accettabile. Calore ed entusiasmo, qualsiasi cosa che sia energica, intensa, o che provenga dal cuore, sarebbe totalmente fuori posto nell’elogio di questi lavori: tali dimostrazioni sarebbero state accolte dall’autrice con un sogghigno educato e le avrebbe pacatamente derise come eccentriche e stravaganti. Sa delineare la superficie della classe nobile inglese stranamente bene. C’è attenzione nei dettagli, ritrae con la delicatezza di una miniatura. Non agita i suoi lettori con la veemenza delle emozioni e nemmeno li disturba con temi eccessivamente profondi. La passione le è totalmente sconosciuta, nega anche il saluto a questa sorella impetuosa. Anche ai sentimenti a cui concede spazio non accorda più di un aggraziato e distante riconoscimento; una frequente conversazione scompiglierebbe la liscia eleganza del suo racconto. Non si preoccupa tanto del cuore umano ma più degli occhi, la bocca, le mani e i piedi. Per lei è un oggetto di studio interessante tutto ciò che vede acutamente, parla propriamente, si muove elegantemente; ma ignora ciò che palpita veloce pur stando nascosto, ciò che fa ribollire il sangue, ciò che nella vita rimane celato e il fine della morte… Jane Austen era di certo una signora per bene e ragionevole, ma altrettanto incompleta e abbastanza insensibile (non irrazionale). Se questa è un’eresia, non la posso evitare.




Mark Twain a proposito di Orgoglio e pregiudizio

In una lettera a Joseph Twichell, 13 settembre 1898:
Non ho nessun diritto di criticare i romanzi, e non lo faccio se non quando li odio. Mi è spesso sorto il desiderio di recensire Jane Austen, ma i suoi libri mi fanno infuriare così tanto che non riesco a nascondere la mia foga al lettore; perciò mi fermo ancor prima di iniziare. Ogni volta che leggo Orgoglio e pregiudizio, mi viene voglia di riesumarla e colpirla in testa con la sua stessa tibia.

Da un frammento incompleto di Twain, intitolato “Jane Austen”:
Ogni volta che rileggo Orgoglio e pregiudizio o Ragione e sentimento, mi sento come il proprietario di un bar che sta per entrare nel Regno dei Cieli. Mi pare di provare le sue stesse emozioni, anzi sono certo che siano le stesse. Penso di sapere esattamente quali sarebbero le sue sensazioni e i suoi commenti personali. Di sicuro arriccerebbe le labbra, mentre gli ultra Protestanti gli passano davanti in fila compiaciuti. Perché si considera migliore di loro? No, per nulla. È che non sarebbe di suo gusto, tutto qui.




Aldous Huxley a proposito di Sulla strada

Da una citazione tratta da Aldous Huxley: A Biography di Nicholas Murray:
Dopo poco ho iniziato ad annoiarmi. Voglio dire, la strada sembrava fin troppo lunga.




Katherine Mansfield a proposito di Casa Howard

Dal suo diario:
Maggio 1917:
Mentre facevo piazza pulita dei miei libri peggiori, mi sono imbattuta in Casa Howard e gli ho dato un’occhiata. Non è poi così bello. E.M. Forster si limita a scaldare la teiera. È una mano sopraffina nel farlo. Senti questa teiera. Non è magnificamente calda? Sì, ma dov’è il tè? E non saprò mai veramente se Helen è rimasta incinta di Leonard o del suo funesto ombrello dimenticato. In fin dei conti penso che si tratti dell’ombrello.




Martin Amis a proposito di Don Chisciotte

Dalla sua recensione in Guerra contro i Cliché:
Nonostante sia un capolavoro inespugnabile, Don Chisciotte soffre di un difetto notevole: è del tutto illeggibile. Lo so perché ho appena finito di leggerlo. Il libro pullula di bellezze, incanti e commedia sublime; ma è anche per lunghi tratti (circa il 75 percento del totale) noioso ai limiti dell’umano… La lettura di Don Chisciotte può essere paragonata alla lunga visita del vostro più sgradevole parente anziano, con tutti i suoi scherzetti, le sue abitudini fastidiose, le continue reminiscenze e gli amici insopportabili. Quando l’esperienza è terminata e il vecchietto alla fine se ne va (a pagina 846, la prosa è stretta, senza spazi per i dialoghi), piangerete, è vero: non lacrime di sollievo, ma di orgoglio. Ce l’avete fatta, nonostante tutti i tentativi del Chisciotte.




David Foster Wallace a proposito di American Psycho

Da un’intervista con Larry McCafery pubblicata su The Review of Contemporary Fiction, estate 1993:
LM: Come pensi che arrivi a manifestarsi tutta questa ostilità?
DFW: Oh, non accade sempre, ma a volte è la sintassi che, pur non essendo scorretta di per sé, è comunque troppo incasinata da leggere. Altre volte, sembra quasi che il lettore venga pestato a sangue dalle troppe informazioni. Altre ancora si dedicano tante energie nel creare aspettative che vengono disattese con piacere. Lo si può vedere bene in American Psycho di Ellis: asseconda per un po’ il sadismo del pubblico, ma alla fine diventa chiaro che l’oggetto del sadismo è la lettrice stessa.
LM: Perlomeno nel caso di American Psycho, mi è parso che ci fosse qualcosa di più oltre al desiderio di infliggere dolore, o comunque che Ellis fosse crudele nel modo in cui anche tu hai detto che gli artisti seri dovrebbero essere.
DFW: Stai solo mostrando quel tipico cinismo che porta i lettori a essere manipolati dalla pessima scrittura. Credo che oggi Ellis e certi altri confidino nel cinismo nero dei loro lettori. Pensaci, se la condizione contemporanea fa cagare e non c’è speranza di miglioramento, se è insipida, materialista, emotivamente stitica, sadomasochista e stupida, allora io (o qualsiasi scrittore) ce la caveremmo facilmente mettendo insieme storie con personaggi stupidi, scialbi ed emotivamente stitici, cosa abbastanza semplice dato che personaggi di questo tipo non richiedono un gran sviluppo. Le descrizioni sarebbero semplici liste con nomi di marche. Persone stupide avrebbero conversazioni insipide. Se quella che normalmente è definita pessima scrittura (personaggi piatti, una struttura narrativa ricca di cliché e non umana…) è anche una descrizione del mondo di oggi, allora la pessima scrittura diviene un’ingegnosa riproduzione di quel mondo pessimo. Se i lettori finiscono per credere che il mondo è stupido, vuoto e crudele, Ellis può scrivere un romanzo vuoto e stupido che appare come un caustico e umoristico commento sulla malvagità di ciò che ci circonda. Senti, probabilmente molti di noi sarebbero d’accordo nel dire che viviamo in tempi bui e anche stupidi, ma c’è davvero bisogno di opere di finzione che non fanno altro che sottolineare quanto tutto sia oscuro e stupido? In tempi bui, l’arte bella dovrebbe essere quella che esalta e rianima tutti quegli elementi umani e magici che continuano a vivere e brillare nonostante tutta l’oscurità. Le opere di finzione davvero buone possono rappresentare il mondo nel peggiore dei modi, ma oltre a fare questo trovano anche il modo di illuminarlo attraverso nuove possibilità di vivere e di essere umani. Puoi difendere American Psycho dicendo che è una raccolta performativa dei problemi sociali della fine degli anni ‘80, ma non è molto più di questo.




Elizabeth Bishop a proposito di Alzate l’architrave, carpentieri e Seymour. Introduzione.

In una lettera a Pearl Kazin, 9 settembre 1959:
Ho ODIATO la storia di Salinger. Mi ci sono voluti giorni per terminarla, con molta calma, una pagina alla volta, arrossendo per l’imbarazzo che provavo per lui a ogni ridicola frase. Come hanno potuto lasciarglielo fare? Tutta quella autoconsapevolezza, ogni frase commenta sé stessa che commenta sé stessa; tra l’atro penso anche che l’intento dell’autore fosse essere divertente. E se le poesie erano davvero così belle, perché non lasciarne un paio e chiudere la bocca, santo cielo? La figura di Seymour non mi colpisce per niente, o magari era questo lo scopo e io non me ne sono accorta? DIO è solo un essere umano leggermente superiore, sensibile e intelligente? o COSA? e PERCHÉ? Ed è vero che The New Yorker non può modificare nemmeno una delle sue parole? Sembra andare del tutto contro quelle antiquate norme di scrittura che Andy White ammira così tanto, e allo stesso tempo non è «sperimentale» e nemmeno originale, è solo noioso. Se sto andando contro l’opinione comune dimmi perché, mi piacerebbe sapere come è possibile difenderlo.




Mary McCarthy a proposito di Franny e Zooey

In una recensione su Harper’s Magazine, ottobre 1962:
Chi sarà l’erede di papà Hemingway? Chi se non J.D. Salinger? E chi sono questi bambini prodigio se non delle copie di Salinger stesso, che si divide e moltiplica per mitosi? Nei lavori di Hemingway non c’era nessun altro se non Hemingway stesso con indosso una serie di travestimenti, ma perlomeno c’era solo un papà per libro. Trovarsi di fronte le sette facce di Salinger, tutte sagge, amabili e semplici è come guardare dentro la fontana di Narciso. Il mondo di Salinger non contiene altro che Salinger, i suoi insegnanti e quel suo pubblico amato con paternalismo: l’umanità. Fuori da tutto ciò si trovano le persone false, che chiedono invano di poter entrare, come la madre dei bambini irlandesi, Bessie, una versione casalinga della signora grassa, che continua a entrare in bagno mentre il suo bel figlio Zooey è nella vasca o si sta rasando.

Si pone un’enorme attenzione ai rituali di accensione di una sigaretta o a quello di bere da un bicchiere, come se questi atti orali fossero delle sacre… epifanie. Nello stesso modo gli scritti della famiglia vengono trattati da Salinger come sacre scritture o gli escrementi di uccelli sacri, che vanno studiate con l’attenzione dell’auguro: lettere di Seymour, citazioni dal suo diario, lettere di Rudy, di Franny, di Boo Boo, una nota scritta con il sapone sullo specchio del bagno da Boo Boo (le ultime due sono in un’altra novella, Alzate l’architrave, carpentieri). Queste tracce di una personalità collettiva vengono tutte preservate in uno scrigno intarsiato come se fossero il velo della Veronica. E la cosa inquietante è che, come per il velo della Veronica, in cui gli occhi di Cristo sembrano seguire lo spettatore con uno sguardo di rimprovero, in quest’ultimo lavoro di Salinger il lettore ha la sensazione di essere osservato o ascoltato dall’autore durante la lettura. Ed ecco che la relazione ordinaria viene rovesciata, non è più il lettore a leggere Salinger, ma è Salinger, il Messia, a leggere il lettore.

Il suicidio di Seymour suggerisce che Salinger suppone, o teme, di tanto in tanto, che ci sia qualcosa di sbagliato in tutto questo. Perché si è ucciso? Perché ha sposato una persona falsa, che venerava per la sua «semplicità e caustica onestà»? O perché era troppo felice e il mondo della signora grassa era troppo meraviglioso? O forse perché ha mentito così come il suo autore, e tutto era in realtà orribile ed era lui a essere falso?




H.L. Mencken a proposito di Il Grande Gatsby

In una recensione pubblicata sul The Chicago Sunday Tribune, 3 maggio 1925:
Il nuovo romanzo di Scott Fitzgerald, Il Grande Gatsby, non è altro che un aneddoto sopravvalutato, e nemmeno troppo credibile. È ambientato a Long Island, ai confini con la discarica di New York, la Long Island delle ville e delle feste sconce. Il tema è quello antico dell’amore romantico e irragionevole, il leitmotiv fidelis ad unum viene ridotto a macabro umorismo. Il personaggio principale è un furfante tipico di quelle parti, un tipo che sembra conoscere tutti, ma che nessuno conosce, un giovane con tanti soldi di provenienza misteriosa, i gusti di un attore e, sotto tutto questo, il semplice sentimentalismo di una vecchia donna grassa e sclerotica.

È una storia senza importanza e pur avendo un posto, devo ammetterlo, nel canone di Fitzgerald, non può essere messo nello stesso scaffale con Di qua dal paradiso. Ciò che affligge questo romanzo è che fondamentalmente si tratta solo di una storia: Fitzgerald sembra molto più interessato a mantenere la suspence che a guardare dentro i suoi personaggi. Non sono falsi: è che sono dati troppo per scontato. Solo Gatsby vive e respira. Tutti gli altri sono marionette, spesso sorprendentemente realistiche, ma mai vive per davvero.




Vladimir Nabokov a proposito di Il dottor Zivago

Dal frammento di un’intervista datata ottobre 1972, ripubblicata su Strong Opinions:
Qualsiasi russo dotato di una certa intelligenza noterà come questo libro sia pro-bolscevichi e storicamente falso, anche solo per il fatto che ignora la Rivoluzione di primavera del 1917, mentre il suo puro dottore accetta con gioia delirante il coup d’état bolscevico sette mesi dopo, in maniera del tutto consona alla linea del partito. Ma lasciando da parte la politica, il libro è una creatura patetica, goffa, banale e melodrammatica, con azioni di borsa, avvocati voluttuosi, ragazze inverosimili e coincidenze scontante.

Sono stato felice quando [Pasternak] ha vinto il Nobel per la forza dei suoi versi. Nel Dottor Zivago, tuttavia, la prosa non può competere con la sua poesia. Qua e là, in un paesaggio o in una similitudine, si possono forse distinguere deboli echi della sua voce poetica, ma queste infiorescenze occasionali non bastano a salvare il romanzo da quella banalità provinciale così tipica della letteratura sovietica degli ultimi cinquant’anni.




Vladimir Nabokov a proposito di I fratelli Karamazov e Delitto e Castigo

Da un’intervista con James Mossman, pubblicata su The Listener, 23 ottobre 1963, e ristampata su Strong Opinions:
Se stai alludendo ai peggiori romanzi di Dostoevskij allora sì, odio intensamente I fratelli Karamazov e la terribile trafila di Delitto e castigo. No, non sono contro la ricerca del proprio io e la rivelazione interiore, ma in quei libri l’anima, i peccati, il sentimentalismo e il giornalese giustificano a malapena questa ricerca noiosa e confusa.




Vladimir Nabokov a proposito di La veglia di Finnegan

Da un’intervista del 1967 per The Paris Review:
Odio La tiritera di Finnegan nel quale una crescita cancerogena di tessuti di parole ricercate redime appena la spaventosa giovialità del folklore e di quell’allegoria fin troppo banale.

Da un’altra intervista del 1967, fatta da uno degli studenti di Nabokov alla Cornell:
L’Ulisse si eleva al di sopra di tutti gli altri scritti di Joyce e, se paragonata a quella nobile originalità e lucidità unica di pensiero e stile, la sfortunata Veglia di Finnegan non è altro che una massa noiosa e senza forma di falso folklore, un libro che è una fredda brodaglia, uno starnuto persistente nella stanza accanto, esasperante per l’insonne! Nella fattispecie io. Senza contare che detesto la letteratura regionale piena di pittoreschi anziani e pronunce imitate. La facciata della Veglia di Finnegan nasconde uno scialbo palazzo popolare molto convenzionale, e solo i rari tentativi di intonazioni paradisiache lo salvano dalla totale insipidità. So che verrò scomunicato per questa mia dichiarazione.

 

Emily Temple è un’autrice e scrittrice statunitense, managing editor di Literary Hub. Ha pubblicato il romanzo The Lightness nel giugno 2020 (William Morrow/HarperCollins). Questo articolo è stato pubblicato su Literary Hub il 16/10/2017 ► 14 Classic Works of Literature Hated By Famous Authors | Traduzione di Valentina Pesci


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