Still life di Uberto Pasolini

con Eddie Marsan e Joanne Froggatt

Opera seconda del regista Uberto Pasolini, miglior regia nella sezione Orizzonti alla 70esima Mostra del Cinema di Venezia, Still life è un racconto di poetica solitudine visto dagli occhi di un italiano trapiantato a Londra e sostenuto dalle note tristi della Rachel Portman premio Oscar per Emma.
John May (E. Marsan), impiegato comunale inglese, si occupa di rintracciare parenti e amici dei defunti all’interno del Municipio, di cui si cura con meticolosa affezione conservandone i volti in un album di istantanee. L’andamento regolare della sua vita ordinata e ordinaria viene interrotto dalla decisione del Comune di tagliare la sua sezione, e di procedere quindi al suo licenziamento. Il suo ultimo caso è quello di William ‘Billy’ Stoke, alcolizzato deceduto in solitudine nella casa di fronte alla sua.

Scritto, diretto e prodotto dallo stesso Pasolini che con la sua Redwave Films s’era già dimostrato produttore di successo con Full Monty di Peter Cattaneo, il film poggia le sue fondamenta su due grandi punti di forza: la plumbea fotografia di Stefano Falivene, desaturata come la vita del protagonista e dell’Inghilterra in cui si muove, e il volto e la fisicità di Eddie Marsan, che dopo una lunga gavetta in ruoli minori (da Gangster No.1 di McGuigan allo Sherlock Holmes di Ritchie fino al più recente London Boulevard di William Monahan) trova nel suo John May un personaggio straordinario per il suo esordio in un ruolo di primo piano, con le sue manie e le sue ossessioni e nel legame fotografico con gli scomparsi.
Sullo sfondo uno sguardo discreto, scarno ma preciso come l’impiegato di cui racconta la quotidianità personale – grucce alle porte, scatolette di tonno e fette di pane tostate, mele rigorosamente sbucciate – e lavorativa, ripetitiva pur nella sua straordinarietà – telefonate e ricerche, le commemorazioni per i dipartiti, la collezione delle loro fotografie. Pasolini mette in scena con la precisione del chirurgo (o forse sarebbe più adatto dire del coroner), raccontando con scabra raffinatezza la commovente solitudine di una storia che, pur nel rischiare un tragico e stonato colpo di scena nell’infrazione delle regole auto-imposte, ben presto rintona le corde in un grigio, stupendo finale.

Con un titolo denso e ambivalente, prende vita la Natura morta imprigionata nell’immobilità degli oggetti che i solitari defunti lasciano, in eredità a un uomo che nutrendosi delle loro emozioni e dei loro ricordi vive una vita di fotografie, una Still life appunto. Delicato nel prendersi cura del suo protagonista come dei comprimari assenti della sua esistenza, il regista romano dissemina qua e là con invidiabile eleganza frammenti di sentimento, dall’album della figlia alla pila di libri a sostenerne la poltrona. E con la stessa delicatezza, con lo stesso scientifico affetto che John May pone nell’indagare le vite dei dimenticati, alla sua morte Pasolini ne seziona le parti della vita: l’angolo della sua strada, la tovaglietta e il sottobicchiere, il prezioso album fotografico. Dimenticato anch’egli, dopo aver radunato la famiglia che Billy Stoke aveva perso già tempo prima della sua morte, in un funerale deserto ma non disertato dai soldati di una battaglia in nome della compassione chiusa in un crescendo emotivo di rara intensità.

 

«Ritrovare un padre dopo tanti anni. Non vorrebbe che i suoi
figli lo sapessero? Sono i suoi nipoti. Non è troppo tardi»


GB-ITA 2013 – Dramm. 87' ***


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