Un'eco del niente


Io se fossi Dio maledirei davvero i giornalisti
e specialmente tutti                 
    che certamente non son brave persone    
  e dove cogli, cogli sempre bene
      
 

Che dire dei giornali? Pullulano ogni dove: sui tavoli dei bar, sui treni, sui banchi nelle scuole, sotto le braccia, le dita e gli occhi di tutti. E l'informazione? Tutti la leggono, la discutono, la vedono, addirittura la fanno... è il trionfo del 'tutti possono'!
Eppure, anche nel mezzo a tutta questa gioiosa cialtroneria da insensati, da folli (e che l'informazione non ne sia, forse, proprio la nave?) si avanza una sorta di tremore, il sospetto di una tremenda anarchia.

Sulla scena dell'onnipresente 'coscienza collettiva', in mezzo alla sterile abbondanza di fatti mai stati tali (ma sui quali si fa informazione) e di opinioni che, per quanto siano insignificanti, pontificano urbi et orbi, pare impazzare per ogni dove una febbricitante fame di notizia fresca e vera, di 'buona lega', che scuotendo gli animosi di tutte le età richiama a gran voce una nuova informazione, un nuovo giornalismo: vero, reale - finanche critico! Si sente il bisogno di un rinnovamento.
Ma a che pro scrivere per informare? E se il giornalista più sano (questo impavido eroe del nostro disgraziatissimo secolo, perennemente alla ricerca della verità) non fosse altro che un mascalzone patentato, un subdolo manipolatore – nel migliore dei casi di fatti, non c'è dubbio, ma anche – e  perfino – di se stesso?

Non mi se ne voglia: non avrebbe neppure senso parlarne, non fosse per la curiosa e (a dir il vero) ironica consonanza coll'informare dei filosofi (l'atto di dare la forma a qualcosa che non la ha, che è informe)... Ma è così casuale questa consonanza? Non ci guarda forse di sottecchi, col suo sguardo malizioso e canzonatore, con la sua espressione tra il furbesco, il beffardo e... l'ironico, appunto?
Non a torto è stato detto «il giornalismo non informa sui fatti, o dei fatti, ma informa i fatti».
Che dietro questi paladini della verità cronachistica dell'ultim'ora, buona per tutte le salse e per (quasi) tutti i palati, si nascondano le malsane paludi dell'insignificanza – del niente?

Siamo sinceri! L'informazione non è i fatti né potrebbe essere diversamente, anzi! I fatti oggetto dell'informazione (i fatti sui quali si fa informazione) per il loro stesso essere tali, sono altro da ciò che è stato fatto, dall'agito – non foss'altro che per questo: l'informazione è, di per sé, un fatto (incredibile dictu!) che si propone di agire (ancora! di nuovo!) su ciò che è stato fatto da altri, su un altro fatto – nella fattispecie: l'agire di una persona che si propone di agire l'agito altrui.
È l'informazione ad essere il fatto di cui il giornalista informa! - Tutti i giornali sono ugualmente pessimi!
Ma come può avvenire tutto questo garbuglio di parole e idee, quale mente idiota e perversa potrebbe partorire un viluppo tanto sconsiderato?

È nel dire evidente e chiaro del cronachista o dell'agenzia che risuona cristallina l'eco della parola di verità. Nella sua concisione, nel suo taglio a effetto – sempre misurato, mai patetico o (peggio!) di parte – nella sua esattezza risiede la potenza veritativa dell'informazione. È lì, nelle parole del giornalismo che risiede la potenza dimostrativa dell'informazione e, con essa, la sua cialtronesca verità: una sorta di posticcia reinvenzione del mondo; tanto poco seria da non riuscire a ridere di se stessa, troppo poco critica da proporsi come speculum veritatis.
Questo logos luminoso, tutto meridionale, eleatico, ha qualcosa di sordido e asfittico. Potrebbe esserci maggiore sintomo di questa ipertrofia della parola nel giornalismo che la sfiducia nell'immagine, nella raffigurazione e in ciò che è loro proprio: la trasformazione, la metamorfosi, il transito, al di là di qualsiasi fatto che non sia se stessa, al di là di qualsiasi verità che non sia quella or ora trovata nel sempre nuovo narrare?
Proprio questa sfiducia nella raffigurazione ci riporta, così, a quell'esigenza di verità evidente e chiara che può esserci data solo da un'informazione libera, vera, critica, indipendente (lo sproloquio aggettivale potrebbe continuare ad libitum).

Un'informazione libera... e via! Libera da chi? Libera da cosa? Non dovremmo essere noi i primi a liberarci prima di poter liberare qualcuno, qualcosa – pena la situazione di guardare la pagliuzza nell'occhio altrui senza accorgersi della trave che è nel nostro?
Vogliamo un'informazione critica? Siamo critici! Ebbene: su che cosa? Ma su noi stessi! E non solo su ciò che noi siamo e  che facciamo ma, sopratutto, su ciò che vogliamo. Vogliamo un'informazione critica? Siamo critici su di essa!

Se un'informazione falsa è pura invenzione, nient'altro che fantasia, forse che un'informazione vera non è al pari inventio, un trovare per strada qualcosa da narrare nuovamente e, proprio per questo, da trasformare, da pervertire col nostro narrare, col nostro dire?
Nondimeno, vorremo forse negare o passare sotto silenzio l'accecamento che l'insipida pretesa di verità di una narrazione, che si vuole erigere a unico organo vidente, provoca nel suo restringere assolutamente la prospettiva a quanto ci narra, nell'accecare chi vuole vederci una verità? Questo logos così solare, così evidente è il peggiore di tutti gli accecamenti: non resta che guardarlo fiso per reinventarci e – perché no? – ritrovare noi stessi come nuovi Semele, come nuovi Tisia.

Ma a che pro parlarne ancora, a che pro fare tante domande? In troppi, ormai, presi da questa democratica voglia di poter informare, di poter plasmare il mondo a immagine e simiglianza della propria parola, vorranno dispregiare una simile selva di punti interrogativi.
Alla fine, a forza di plasmarsi nell'illusione di plasmare, non faranno altro che girovagare (singolare stirpe) per la sterile terra dell'attuale, alla ricerca della sola buona e giusta novità ch'è la cifra del nuovo, del moderno! – come a dire: mi si diano anche (e soprattutto) menzogne; basta siano nuove!


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