Raccontare il falso

La finzione del cinema documentario da Grizzly Man di Werner Herzog al Jim Carrey di Jim & Andy

«Ho guardato dietro la finzione e ho trovato la realtà, ma dietro la realtà ho trovato di nuovo la finzione». La frase di François Truffaut chiarisce la dicotomia fra cinema di finzione e cinema del reale che ha da sempre caratterizzato i due grandi sguardi progenitori della settima arte: quello dei fratelli Lumière e quello di Georges Méliès. Daniele Dottorini in La passione del reale – Il documentario o la creazione del mondo scrive come «il primo ha scoperto lo straordinario nell’ordinario e il secondo che nella sua esplorazione del fantastico ha svelato, nel cinema l’ordinario nello straordinario». Partendo da questa contrapposizione tra reale e finzionale nel cinema, si fa avanti un’idea del documentario non più intesa come rappresentazione oggettiva del reale. Oggi il documentario è più un territorio espressionista capace cioè di elaborare delle immagini del mondo che vanno oltre lo stesso sguardo dell’uomo.

Werner Herzog è forse uno degli autori che meglio rappresenta questa capacità; la spinta del documentario parte da un punto di vista soggettivo e non oggettivo e la forza propulsiva dei suoi film è incarnata dallo sguardo di un uomo, solitamente un “folle visionario”, unico in grado di creare un’oggettività dell’ambiente. Grizzly Man (2005) racconta dell’esploratore ambientalista Timothy Treadwell che trascorse la sua vita estiva nel Parco nazionale e riserva di Katmai in Alaska e visse a stretto contatto con gli orsi grizzly. Dal 2000 al 2003 portò con sé due telecamere con le quali realizzò 100 ore di filmati che documentavano la sua convivenza con gli orsi. Quello che contraddistingue questo film è uno stile fortemente ambiguo sia nella forma sia nel contenuto prefigurandosi con un carattere molto ironico: un documentario sotto le mentite spoglie di un film di finzione.
 

Tutto quello che Herzog ci mostra in Grizzly Man è da un lato messa in scena come risultato di una costruzione narrativa e dall’altro fatto reale


Tutto quello che Herzog ci mostra è da un lato messa in scena come risultato di una costruzione narrativa e dall’altro fatto reale – potremmo riassumere il concetto sotto il principio di Heisenberg in cui l’atto di osservare un fenomeno produce una trasformazione e modificazione del fenomeno stesso. In Grizzly Man l’ambiguità dello sguardo è lampante: il protagonista appare come un pazzo mitomane data la sua volontà di convivere e di entrare in comunicazione con gli orsi, volendoli dominare e imponendo loro la sua volontà. L’ironia è la vera forza del film perché il regista non si limita ad affermare la “pazzia” del protagonista, ma gli contrappone delle immagini bellissime che, nonostante il suo delirio, permettono di raggiungere scenari lontani all’occhio umano spingendosi verso situazioni di confine. La componente ironica si fa ancora più profonda perché Herzog, seppur non condivida la visione di Treadwell, ne rimane affascinato ponendo lo spettatore in una totale incertezza fra ammirazione e compassione. Una visione, quella di Grizzly Man, ben lontana dal documentario classico.

Con l’avvento della rivoluzione digitale la forma del documentario non è scomparsa, certo muta e si ridefinisce, ma rimane viva. La componente tecnologica non annulla quella dicotomia cinematografica fra reale e finzionale, i due sguardi permangono nello scenario del nuovo millennio e a fronte della moltiplicazione delle immagini e una conseguente sfiducia verso di esse, si fa avanti l’esigenza di verità. Le immagini continuano così ad essere spazio per interrogare il reale. In un susseguirsi di forme, linguaggi, narrazioni e modelli tecnologici differenti, l’odierno mondo digitale sembra in grado di realizzare quello che Alexadre Astruc definì come camèra-stylo – cinepresa penna – traducendo l’urgenza della presa diretta. Di fronte a quello che Marie-Josè Mondazain ha definito come “impero della visibilità”, ovvero un particolare stato dell’immagine contemporanea caratterizzata da quella che è possibile definire come una violenza politica, si fa avanti il bisogno di verità. Ecco quindi spiegato l’infinita proliferazione, nel panorama del cinema contemporaneo, del documentario, ed è interessante come la piattaforma streaming Netflix abbia fagocitato e trasformato il fenomeno del reale in un vero e proprio caso cinematografico.
 

In Icarus il regista Bryan Fogel, ciclista amatore, vuole raccontare quanto fosse facile assumere stupefacenti e inizia a sperimentarne l’effetto sulla propria pelle


Icarus (2017) diretto da Bryan Fogel e distribuito da Netflix è incentrato sul doping nello sport e, in particolare, lo scandalo che coinvolse la nazionale russa alle Olimpiadi invernali di Sochi del 2014. L’ironia herzoghiana la ritroviamo sin dall’incipit del film in cui padroneggia il diktat orwelliano “dire la verità è un atto rivoluzionario”, presupponendo da subito una componente finzionale: il lungometraggio si prefigura un’alternanza fra vero e non vero dove il focus non è tanto il contenuto raccontato, ma piuttosto la sua forma. Icarus non si pone come un normale documentario evidenziato da una struttura che, a metà racconto, cambia direzione allontanandosi da una dimensione personale preferendone una più ampia. Fogel, ciclista amatore, vuole raccontare quanto fosse facile assumere stupefacenti e inizia a sperimentarne l’effetto sulla propria pelle; durante le riprese emerge però un’indagine molto accurata della WADA, l’agenzia mondiale antidoping, sull’uso sistematico di sostanze dopanti nella Federazione Russa. La notizia determina nel film un passaggio da una visione privata a una pubblica, in cui l’interesse del regista non è tanto documentare procedendo con la stessa tesi, ma piuttosto denunciare e muovere lo spettatore nella sua coscienza morale, obbligando il film stesso a scardinarsi dai consueti canoni documentaristici mostrandosi così opera nuova e disomogenea, ma nonostante questo riuscendo a mantenere una linearità nel racconto. In Icarus la verità dell’oggi è legata a un passato e noi, esseri del presente, siamo costretti a recuperarne i resti di una realtà fattuale passata. Ancora più spaventoso è come il futuro sia compromesso e irrimediabilmente confuso in una zona di confine fra verità e menzogna, tra dimenticare e ricordare per poi, nuovamente, dimenticare. Icarus si allontana dal documentario e si impone, piuttosto, come lavoro individuale cacciatore di emotività più che di verità.

Jim Carrey seduto davanti alla macchina da presa è l’incipit di Jim & Andy (2017), diretto da Chris Smith e distribuito da Netflix, è incentrato sul dietro le quinte della performance di Carrey in Man on the Moon, biopic del 1999 con la regia di Milos Forman in cui l’attore diede vita all’irriverente comico statunitense Andy Kaufman. Notiamo, ancora una volta, come l’inizio del film presupponga in quello che si dichiara essere un documentario una componente di finzione e per dirla ancora con Herzog, ironica e paradossale. Jim & Andy rincara la dose quando all’attore viene posta la domanda: «come inizieresti questo film?» – «Se fosse per me non inizierebbe proprio. Sarebbe già iniziato. E non sarebbe mai finito». E conclude, «Quando è iniziato il film?». Le parole riassumono l’ironia della pellicola o quella che potremo definire come una struggente testimonianza dell’evanescente limite fra realtà e finzione. Jim Carrey riesce, infatti, a piegarle entrambe alla sua volontà al punto da rendere impossibile comprendere dove finisca la sua personalità e quando inizi quella dell’istrionico Andy Kaufman o del suo arrogante alter ego Tony Clifton. L’attore canadese, una volta entrato nel personaggio, non ne esce; non si cala semplicemente nei panni di Andy Kaufman ma è Andy Kaufman. Il comico, infatti, non è mai solo Jim Carrey attore, bensì è sia se stesso che il personaggio: questa scissione psichica è perfettamente resa. Una mise en abyme sul mestiere dell’attore intesa anche come crisi identitaria. Carrey alla fine del documentario afferma di non credere più all’identità in quanto tale, poiché essa si modella a partire dalle idee che gli altri proiettano su di noi. Il dialogo a distanza tra Andy e Jim sembra scoprire un’insanabile contraddizione identitaria arrivando al dilemma pirandelliano e alla tragica consapevolezza di indossare una maschera sopra un’altra maschera.
 

«Come inizieresti questo film?»
«Se fosse per me non inizierebbe proprio. Sarebbe già iniziato. E non sarebbe mai finito»


È spontaneo chiedersi, oggi, se credere alle immagini o se il cinema del reale sia ancora necessario. Nella Critica della ragion pura Kant risponde: «il tener per vero è un evento, che ha luogo nel nostro intelletto e può basarsi su fondamenti soggettivi, ma richiede altresì cause soggettive nell’animo di chi giudica». Perché si parli di verità vi deve essere accordo tra i soggetti in relazione all’oggetto, passando dal puramente soggettivo si giunge alla sintonia fra soggettivo e oggettivo, così si arriva alla credenza. Dalla credenza si passa al sapere che a sua volta ha come fondamento la componente soggettiva. In questo modo il mio credere, la mia opinione sul mondo, può divenire valido per tutti. Il credere si svincola dal puramente soggettivo e diventa così conoscenza condivisa del mondo.
Da questo assunto deriva la potenza delle immagini. Credere o meno alle immagini e chiedersi se abbia un senso parlare di immagine soggettiva o oggettiva, reale o finzionale ha poca importanza. Il cinema del reale è strumento fondamentale perché determina un luogo di formazione comune. Il filosofo Gilles Deleuze in L’immagine tempo parla di come il «legame fra uomo e mondo si sia rotto: è questo legame quindi a diventare oggetto di credenza. Bisogna che il cinema filmi; non il mondo, ma la credenza in questo mondo, il nostro unico legame». Il cinema del reale è il mezzo per sperimentare le connessioni e le assenze che ci appartengono: rinnovando senza sosta la finzione. E laddove la finzione trova il suo limite, il documentario – più finto del cinema stesso – ne prende le redini facendosi il suo avvenire.


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