Michael Haneke's Video

Videocamere, smartphone e video dentro al video nel cinema crudo e spietato del regista austriaco

Ci sono registi che raccontano filmando ogni dettaglio e cercando di presentare allo spettatore storie limpide, senza lasciare interrogativi ma suggerendo risposte, storie dove ci sono buoni e cattivi e il bene ha sempre la meglio sul male. Al contrario c’è chi vede nel cinema, e nella macchina da presa, un occhio comune capace di osservare e interrogarsi, non uno strumento finalizzato alla narrazione ma mezzo per scrutare la realtà. Il cinema dell’austriaco Michael Haneke appare difficilmente associabile a una corrente e faticoso da etichettare, identificabile solo nella sua straordinaria originalità, nella sua spietata e improvvisa violenza pronta a invadere lo schermo. Le sue sceneggiature hanno conquistato e sedotto attrici e attori di ogni età – Isabelle Huppert, Juliette Binoche e Jean-Louis Trintignant –, ha vinto per ben due volte (consecutive) la Palma d’oro al Festival di Cannes, con Il Nastro bianco (2009) e Amour (2012), e l’Oscar al miglior film straniero per quest’ultimo.
 

I film di Michael Haneke, per sua stessa ammissione, «sono una sorta di consapevole omissione del lato bello della vita»


I suoi film, per sua stessa ammissione, «sono una sorta di consapevole omissione del lato bello della vita», caratterizzati da uno stile asciutto e agghiacciante dove in spazi opprimenti e claustrofobici prendono forma personaggi dall’aspetto onesto e sincero che mascherano falsità e inganni. Nel suo cinema, una delle peculiarità più interessanti e misteriose rimane il rapporto con le immagini e gli apparecchi di ripresa. Di frequente i protagonisti dei suoi racconti filmano eventi con videocamere o cellulari, fornendo nozioni indispensabili ai fini della comprensione. Queste riprese, che solitamente si differenziano per la bassa risoluzione delle immagini, sono presenti sin dai suoi primi lavori e spesso hanno la funzione di portare in scena la morte, creando una commistione perversa tra sadico e voyeur, tratto predominante della sua poetica che raggiungerà l’acme in Funny Games (1997). Ma cosa comporta questa moltiplicazione dei punti di vista? Il regista gioca con il linguaggio cinematografico e servendosi di riprese stranianti e provocatorie sembra volerci interrogare sul ruolo della macchina da presa nel suo cinema. 

In Niente da nascondere (2005) – miglior regia al Festival di Cannes – la tranquillità dei coniugi Laurent, soprattutto quella di Georges, viene destabilizzata dall’arrivo di videocassette contenenti filmati della sua abitazione, accompagnate da disegni inquietanti. Questi video svolgono una funzione narrativa basilare in quanto risvegliano nel protagonista ricordi e pensieri reconditi ormai seppelliti nel passato. Le immagini contenute nelle cassette introducono all’interno del film un nuovo “personaggio”, l’obiettivo di un mezzo di ripresa che onnipresente segue e spia i protagonisti e i loro comportamenti, un occhio emancipato che senza sottostare a nessuna regola morale si apposta videosorvegliando le azioni dei personaggi della storia. Quando Georges va a trovare Majid (colui che sospetta essere il mittente delle cassette) Haneke filma la loro conversazione con un montaggio alternato, terminando la sequenza con Georges che esce dalla porta minacciandolo. La stessa scena viene mostrata poco dopo da un altro punto di vista; in questa seconda riproposizione viene fatto vedere anche cosa accade dopo che Georges se ne va. Majid rimane seduto per qualche secondo prima di lasciarsi andare in un pianto disperato, la camera rimane immobile, il continuo campo/controcampo che aveva caratterizzato la ripresa precedente subisce un improvviso arresto. Questa seconda visione è il contenuto dell’ultima cassetta inviata a casa di Georges e mostra quello che Haneke non aveva filmato. Come accadeva nel finale di Quarto potere di Orson Welles, dove ci spiegava il mistero della parola “Rosebud”, in Niente da nascondere la macchina da presa acquista un ruolo fondamentale. Qui ci sono ben due mezzi di ripresa, due camere che sembrano in perenne scontro, teste di un'idra che coabitano nello stesso corpo e che raccontano e osservano la storia da punti di vista differenti. Anche in questo caso solo grazie alla macchina da presa, capace di svincolarsi da vincoli e restrizioni, riusciamo ad afferrare la vera identità del protagonista.

In Benny’s Video (1992) – il capitolo centrale di quella che è stata definita la “Trilogia della glaciazione”, aperta con Il settimo continente (1989) e conclusa con 71 frammenti di una cronologia del caso (1994) – Haneke sceglie come protagonista un adolescente di famiglia benestante senza amici e trascurato dai genitori. Benny si diletta con filmati amatoriali che trasmette in maniera ossessiva nella propria stanza dove passa gran parte del tempo, uscendo solamente per andare a scuola o per noleggiare videocassette. Il film si apre con un filmato (realizzato dal ragazzo) dove viene mostrata l’uccisione a sangue freddo di un maiale, la visione ripetuta del video porterà il giovane a compiere la medesima azione su una ragazza da poco conosciuta in videoteca. L’eccessiva esposizione alle immagini ha portato Benny a non fare più distinzione tra realtà e rappresentazione facendogli compiere questo gesto folle e irrazionale.
 

L’eccessiva esposizione alle immagini ha portato Benny a non fare più distinzione tra realtà e rappresentazione facendogli compiere questo gesto folle e irrazionale


Ma la cosa più straordinaria è come Haneke sintetizzi questa perdita di realtà tramite la messa in scena. La cinepresa del regista mostra quando Benny (inquadrato in mezzo primo piano) spara alla ragazza, subito dopo un raccordo ci porta alle spalle del ragazzo mentre la ragazzina cade a terra. Un secondo dopo Benny esce dall’inquadratura, la cinepresa di Haneke però non si muove, rimane statica riprendendo ciò che ha davanti, una televisione che collegata ad una videocamera mostra cosa sta succedendo nel fuoricampo. Quello che noi vediamo non è più frutto di quello che viene inquadrato direttamente dalla camera del regista, ma si tratta di un riflesso, una ripresa dentro un’altra ripresa, una immagine dentro un’altra in una sorta di mise en abyme che rompe gli equilibri e le gerarchie. In questa sequenza la macchina da presa del regista non è più l’istanza narrante, non è più quell’entità onnisciente che decide cosa mostrare, ma viene ridotta ad una semplice osservatrice. La cinepresa diviene essa stessa spettatrice, costretta a guardare dallo schermo di una tv (la stessa dalla quale poco dopo Benny rivedrà compiaciuto il suo gesto) quello che sta accadendo, come uno spettatore in sala.

Nel suo ultimo lungometraggio Happy End (2017) ritroviamo molti di questi elementi. Il film appare come una prosecuzione del suo precedente Amour, tanto da esservi perfino la confessione dell’uccisione della moglie da parte di Georges (interpretato dallo stesso Trintignant) avvenuta nel film precedente, ma è molto più di un semplice sequel e condensa nel suo tessuto narrativo teoremi già esplorati, aggiornando il suo linguaggio. Le vecchie videocamere sono oramai obsolete, nell’era della perenne condivisione il telefono cellulare è una parte fissa del nostro corpo, una «estensione della mano» e strumento in grado di adempiere alla ripresa video – come si legge nel libro di Fortunato Sorrentino e Maria Chiara Pettenati Orizzonti di conoscenza. Haneke riflette sull’utilizzo smodato di questa tecnologia sin dall’incipit del film, dove mostra una donna ripresa in Periscope live che si sta sistemando prima di andare a dormire, nella ripresa successiva, sempre in diretta, vediamo la morte di un criceto ucciso dallo stesso autore del video. Ancora una volta, come in Benny’s Video, il film inizia con una ripresa amatoriale e l’uccisione di un animale, un leitmotiv che ci interroga, con ancora più forza e preoccupazione, sull’utilizzo sconsiderato della tecnologia da parte delle giovani generazioni. Anche in questo caso la protagonista è un’adolescente con una situazione familiare complicata – fratello con disturbi psichiatrici e genitori divorziati – di nome Eve. Sarà lei che nella sequenza di chiusura spingerà la sedia a rotelle del vecchio Georges (su sua richiesta) fino al mare e, nel momento in cui l’anziano entrerà nell’acqua, inizierà a filmarlo con il suo cellulare. Ma la cosa stupefacente è come il regista decide di filmare la scena, infatti non vediamo la ragazza con in mano il telefono, non c’è la cinepresa che la inquadra né un’immagine dentro l’altra, ma una soggettiva, un’ocularizzazione dello stesso telefonino. Non si tratta dello sguardo di Eve, ma di quello del cellulare, noi osserviamo la scena tramite l’occhio della videocamera del telefono. L’occhio umano è stato sostituito da uno sguardo che riproduce immagini in pixel, un bulbo oculare artificiale in grado di filmare e condividere contemporaneamente quello che vede. Una tendenza abituale nella società di oggi, dove è più importante mostrare cosa vediamo che osservarlo con i nostri occhi: lo sguardo del nostro telefono sembra aver sostituito quello dell’umano, anche di fronte alla morte.


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