Le fiabe di Angela Carter

Dentro il racconto | Le protagoniste, i mostri e il folklore nelle opere della scrittrice britannica

In un’intervista del 1991, poco prima della sua morte a causa di un tumore ai polmoni a soli 51 anni, Angela Carter aveva affermato di non considerarsi una «scrittrice britannica». Era la meno inglese tra gli autori inglesi, un’autrice postmoderna senza alcun interesse per il realismo sociale. Se si escludono Shakespeare, Defoe e Blake, le sue maggiori fonti di ispirazione provenivano dall’Europa e dal nuovo mondo: Poe e Melville, il simbolista e il surrealista, Borges, Calvino e Joyce. Era un’autrice di ampio respiro, perfettamente capace di descrivere, come ha fatto in Patchwork (1981), «la zona sud di Londra in una mattina di primavera. I camion scoreggiano e farfugliano lungo Wandsworth Road. Capital Radio raglia da una finestra in alto». Tuttavia, preferiva investigare miti e leggende, nonché i remoti paesaggi della mente fatti di «castelli abbandonati, foreste infestate» e «oggetti sessuali proibiti». Frammenti di fiabe illuminano lievemente l’opera giovanile L’uomo che amava un contrabbasso (1962), in cui un oggetto inanimato viene trattato come se fosse vivo e i caschi infilati sotto le motociclette luccicano «bianchi come funghi o uova appena deposte». Nella sua prima collezione di racconti, Fuochi d’artificio (1974), quella luce diventa sempre più abbagliante. «La bella figlia del boia» è un pezzo gotico feroce in cui si racconta di un incesto; in «Penetrando nel cuore della foresta» un incantesimo minaccioso prende vita dopo che una ragazza viene punta (o meglio morsa) da un fiore; in «Riflessi», un escursionista giunge a «una breve rampa di scale fatiscente che conduceva a una porta segnata dal tempo, socchiusa come l’ingresso della casa di una strega».
 

Nessuno è mai riuscito a imbrigliare abilmente il potere perverso dei racconti originali come Carter


Nel 1979, due anni dopo aver tradotto una raccolta di fiabe di Perrault, Carter ha pubblicato La camera di sangue, una serie di “revisioni” ad alcune delle fiabe più famose, tra cui Barbablù, Cappuccetto Rosso e La Bella e la Bestia. Il libro rappresenta una critica e una riscrittura ben riuscita di racconti che sono stati plasmati dalla nostra società, e che l’hanno plasmata a loro volta. Negli anni ’70, miti e folklore erano stati messi sotto esame in diversi modi: la lettura in senso freudiano di Bruno Bettelheim nel suo Il mondo incantato, la raccolta poetica Transformation di Anne Sexton, la critica tagliente di Jack Zipes. Tuttavia, nessuno è mai riuscito a imbrigliare abilmente il potere perverso dei racconti originali come Carter.



Nel riscrivere queste storie, secondo Lorna Sage, Carter le stava «intenzionalmente disegnando con contorni sformati… I mostri e le principesse hanno perso il posto che detenevano nelle vecchie sceneggiature e hanno varcato confini proibiti». In «La sposa della tigre», la bella fa la muta e rivela una «splendida pelliccia»; in «La compagnia dei lupi», Cappuccetto Rosso sfrutta il piacere sessuale, il proprio e quello del lupo, per domare la creatura. Accanto alle storie in cui avviene questo capovolgimento, ve ne sono altre in cui il contenuto solitamente celato delle fiabe viene reso esplicito. Nel racconto che dà titolo alla raccolta, una riscrittura di Barbablù, la narratrice comprende dallo sguardo del marito – «l’occhio indagatore di un esperto che valuta uno stallone» – che il suo desiderio la consumerà, mentre in «Il re degli elfi» l’amata oggettificata scopre che «alcuni occhi possono divorarti». In un’intervista del 1985, Carter affermò: «Stavo sfruttando il contenuto latente delle fiabe tradizionali, e quel contenuto nasconde una sessualità violenta».

Ma per far luce su La camera di sangue dobbiamo rivolgerci a un altro libro di Carter, La donna sadiana, pubblicato nel 1979, in cui si afferma che le due versioni del femminile presentate da De Sade, la vittima Justine e la carnefice Juliette, sono entrambe costrutti maschili, «e nessuna prende in considerazione un futuro in cui si possa giungere a una sintesi dei loro comportamenti, una sintesi che non le veda né sottomesse né aggressive, ma capaci al contempo di ragionare e provare empatia».

 


 

Come scrive Margaret Atwood: «Per comprendere meglio La camera di sangue bisogna considerarlo un’esplorazione delle possibilità narrative date dalla dicotomia sadiana della tigre e dell’agnello, più che un lavoro scritto dalle barricate femministe degli anni ’70». Al tempo, Carter era rimasta isolata a causa delle sue posizioni poco chiare e delle sue dichiarazioni, nelle quali affermava che le donne potevano essere contemporaneamente attratte e disgustate dalla mascolinità predatoria. Il New York Times l’aveva definita «una rigida ideologa, fervidamente femminista», mentre Andrea Dworking liquidò la Donna sadiana come «un saggio letterario pseudofemminista». Per la giornalista Amanda Sebestyen, Carter non era altro che la «grande sacerdotessa del porno accademico».
 

Carter era rimasta isolata a causa delle sue posizioni poco chiare e delle sue dichiarazioni


Accanto alla persistente fascinazione per il folklore, nelle sue ultime due raccolte, Venere nera (1985) e Fantasmi americani (1993), Carter ha sviluppato un interesse per le biografie impressioniste di figure storiche, tra cui l’amante di Baudelaire, Jeanne Duval e Edgar Allan Poe. Il più indimenticabile di questi racconti è «Delitto con accetta a Fall River» (1987), in cui descrive la storia di Lizzie Borden, la zitella omicida del New England. Qui, la disarmonia tra il tono forense e i dettagli fiabeschi (una matrigna malvagia la cui «oppressione era come un incanto»; i dettagli della Lizzie virginale che mestruava nei giorni degli omicidi; la descrizione dei piccioni macellati e cucinati) crea una forte tensione maligna. Carter con malizia chiude il racconto in modo perfetto, appena prima che si scateni il caos, la storia rimane dunque sospesa a prima della tragedia.

Borden è forse un’espressione oscura della femminilità emancipata, ma per Carter è preferibile a quelle che lei definisce «le zombie dei romanzi di Joan Didion», o «le signore stralunate di Jean Rhys». Le eroine ideali per Carter hanno una mente acuta e «una certa testardaggine e crudeltà», come la protagonista di «Nostra signora dei massacri», che in un certo senso ricorda Moll Flanders. In «La compagnia dei lupi», proprio quando il lupo sta per attaccare, la sua vittima «scoppiò a ridere; sapeva che non sarebbe stata il pasto di nessuno». Nel climax di «La camera di sangue», non sono i fratelli della sposa a salvarla, come invece accade in «Barbablù», ma è la madre intraprendente che, quando il sadico marchese è sul punto di sfoderare la spada, gli spara con il revolver d’ordinanza del marito defunto (provate a dire che non c’è del simbolismo in tutto ciò).
 


 

I metodi di Carter per alcuni sono freddi e distaccati; i suoi personaggi, come suggerito da un critico, sono «cavie da laboratorio». Sebbene le sue storie siano ricche di teoria e opposte asceticamente al piacere avvolgente di quello che Carter chiama con sprezzo «realismo borghese», pulsano di un’energia che risveglia tanto una risposta emotiva quanto quella intellettuale. Il racconto che meglio esprime quest’abilità di unire teoria e sentimento è «Covacenere ovvero il fantasma della madre» (1987), che prende la forma di una predica per poi trasformarsi in una visione profonda e misteriosa di quello che Marina Warner definisce «un lutto oscuro e arcaico».

Carter considerava i racconti «un’argomentazione discussa con i termini della finzione» e di certo aveva, come AS Byatt aveva già detto di Hans Christian Andersen, «progetti sui lettori». Ma ogni opera d’arte di successo genera significati che vanno oltre quelli espressi dalle parole, e il lavoro di Carter si spinge al di là dei sentieri già tracciati. Anche se vivessimo in un’utopia postfemminista (e sappiamo benissimo che non è così, nemmeno negli spazi progressisti delle pagine di un libro e delle riviste letterarie), questi racconti rimarranno nitidi come sangue fresco sulla neve candida.

 

Chris Power è un critico letterario e scrittore inglese, autore della raccolta di racconti Mothers (2018) e del romanzo A Lonely Man (2021). Dal 2007 tiene sul Guardian la rubrica monografica dal titolo A brief survey of the short story, di cui questo articolo pubblicato il 24/06/2014 fa parte A brief survey of the short story part 48: Angela Carter   | Traduzione di Valentina Pesci

 


Commenta