La voce universale di Natalia Ginzburg

La diffusione inglese della scrittrice siciliana raccontata sulle pagine del Guardian, tra Calvino, Pavese e Ferrante

Nel 1941 Cesare Pavese scrisse una cartolina all’allora venticinquenne Natalia Ginzburg, che stava aspettando la fine della guerra in Abruzzo con i suoi tre figli: «Cara Natalia, la smetta di fare bambini e scriva un libro più bello del mio». Il risultato fu La strada che va in città, pubblicato nel 1942 sotto pseudonimo poiché il marito, Leone Ginzburg, collega di Pavese a Einaudi, era in pericolo a causa del suo impegno antifascista. Così cominciò una carriera da scrittrice durata cinquant’anni. Natalia Ginzburg fu influenzata da Pavese e più tardi si definì con soddisfazione una neorealista. Per lei il neorealismo era «l’avvicinarsi alla vita, il penetrare nella vita, nella realtà». Ma la sua voce era particolare sin dall’inizio: fredda nello smascherare il sentimentalismo, calda e accorta nel descrivere i dettagli della vita familiare e dell’esperienza femminile. 
Ginzburg è molto famosa in Italia sia come scrittrice ma anche come editrice, lavorò infatti assieme a Calvino e Pavese a Einaudi dopo la guerra, inoltre fu anche impegnata in parlamento: nel 1983 fu eletta nel gruppo della Sinistra Indipendente e fece diversi interventi riguardo la violenza sessuale, il disarmo e la distruzione delle campagne. Ciò nonostante, in Inghilterra rimaneva una figura marginale rispetto ai suoi colleghi neorealisti maschi. Questo fino allo scorso anno – il 2018, ndr – quando la casa editrice britannica Daunt ha ripubblicato la raccolta di racconti del 1962 Le piccole virtù e il suo romanzo del 1963 Lessico famigliare. Ora è in via di ripubblicazione anche il romanzo del 1961 Le voci della sera usciti nel 2019.

Leggendo questi libri non penso di essere l’unica ad aver provato un immediato senso di intimità. È una sensazione simile a quella che provano i lettori di Ferrante, ma se leggere Elena Ferrante sembra quasi come farsi una nuova amica, leggere Natalia Ginzburg è più come trovare una guida. È un'autrice che condivide le esperienze della vita quotidiana ma vi inserisce anche una morale pienamente formata e un orientamento intellettuale che ci permettono di vedere tali esperienze in modo più obiettivo. A partire dai più piccoli dettagli della vita domestica, costruisce un mondo caratterizzato dalla complessa architettura morale tipica dei grandi romanzi dell’Ottocento.
I racconti delle Piccole virtù, ambientati nella seconda guerra mondiale e nel periodo immediatamente successivo, dissezionano quegli anni fatti di scarpe rotte, razionamento e vuoto esistenziale. Nel racconto Inverno in Abruzzo Ginzburg ricorda il periodo durante la guerra trascorso al confino proprio in quella regione per poi passare bruscamente alla descrizione della morte del marito avvenuta in prigione nel 1943. Nel testo l’autrice si chiede se questo sia effettivamente successo a loro «a noi che compravamo gli aranci da Girò e andavamo a passeggio nella neve». L’impatto della guerra sulla vita quotidiana è al centro anche del racconto Il figlio dell’uomo scritto nel 1946: «C’è stata la guerra e la gente ha visto crollare tante case e adesso non si sente più sicura nella sua casa com’era quieta e sicura una volta».
 

Ginzburg scrive di ribellione contro i genitori, ricerca dell’amico e dell’amante giusto, arrivando fino alla maternità e alla guerra. Il nocciolo della vita è qui, ma perfettamente ridimensionato in modo da potersi concentrare sulla quotidianità delle porte sbattute e dei quaderni di esercizi


La raccolta termina con due capolavori che ci spingono verso un orizzonte morale più ampio. Il primo, I rapporti umani è un commovente viaggio attraverso le età della vita, dall’infanzia sino all’età adulta. Ginzburg scrive, in modo insolito ma con assoluta sicurezza, in prima persona plurale, narrando la “nostra” ribellione contro i genitori, la nostra ricerca dell’amico e dell’amante giusto, arrivando fino alla maternità e alla guerra. Il nocciolo della vita è qui, ma perfettamente ridimensionato in modo da potersi concentrare sulla quotidianità delle porte sbattute e dei quaderni di esercizi (per un breve periodo diventiamo migliori amici del primo della classe e guardiamo rapiti il suo prezioso quaderno «scritto nella sua bella calligrafia aguzza, in inchiostro azzurro»). L’autrice si pone poi delle domande fondamentali su come sia possibile per noi essere morali e amare i nostri bambini, i nostri amici e il nostro prossimo e allo stesso tempo perseguire uno scopo più alto (sia quello di amare Dio che avere una visione comunista della collettività). Lo shock della maternità, ieri come oggi, risiede nel suo egoismo: «Amiamo i nostri figli in modo così doloroso, così spaventato, che ci sembra di non avere avuto mai altro prossimo, di non poterne avere mai altro. […] Dov’è adesso Dio? Dio, noi ci ricordiamo di parlargli soltanto quando il nostro bambino è malato».
La guerra cambia tutto, con la guerra bisogna imparare a chiedere aiuto al primo che passa. Per un periodo, si rinuncia al possesso di cose e persone e così facendo, si cresce: «Siamo adulti perché abbiamo alle spalle la presenza muta delle persone morte, a cui chiediamo un giudizio sul nostro comportamento attuale, a cui chiediamo perdono delle passate offese».

Il racconto conclusivo, Le piccole virtù, suggerisce cosa insegnare ai nostri figli: «Per quanto riguarda l’educazione dei figli, penso che si debbano insegnar loro non le piccole virtù, ma le grandi. Non il risparmio, ma la generosità e l’indifferenza al denaro; non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l’astuzia, ma la schiettezza e l’amore alla verità; non la diplomazia, ma l’amore al prossimo e l’abnegazione; non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e sapere». Dette da altri, queste parole suonerebbero moraliste e stantie, invece in questo racconto si percepisce che sono il risultato di un sapere forgiato pazientemente dall’esperienza. Questi valori sono alla base di Lessico famigliare, il primo successo commerciale della Ginzburg, pubblicato quando lei aveva 47 anni. È il mondo della vita torinese, quello dell’infanzia, in cui viveva con suo padre, un biologo ebreo, e sua madre, un’amante della musica, e tutta la famiglia discuteva di politica. Il titolo del libro si riferisce alle frasi che caratterizzano ogni componente della famiglia frasi che diventeranno «il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati» una volta che la guerra distruggerà il loro mondo.

Intanto Ginzburg si inoltra in tematiche politiche e letterarie. Calvino, in Eremita a Parigi, scrive che «il clima di povertà e di impegno febbrile» dell’immediato dopoguerra animò la leva di giovani di sinistra con un «desiderio di fare». Ginzburg descrive l’eccitazione di questa febbre in Lessico Famigliare «un tempo in cui tutti pensavano d’essere dei poeti, e tutti pensavano d’essere dei politici» e trovava che «ora c’erano di nuovo molte parole in circolazione, e la realtà di nuovo appariva a portata di mano». L’autrice prosegue poi nel mostrare come questa eccitazione si sia poi tramutata in morbo:

Ma l’errore comune era sempre credere che tutto si potesse trasformare in poesia e parole. Ne conseguì un disgusto di poesia e parole, così forte che incluse anche la vera poesia e le vere parole, per cui alla fine ognuno tacque, impietrito di noia e di nausea. Era necessario tornare a scegliere le parole, a scrutarle per sentire se erano false o vere, se avevano o no vere radici in noi, o se avevano soltanto le effimere radici della comune illusione.
 

Questa è la sfida del neorealismo: la duplice volontà di catturare l’esperienza reale e allo stesso tempo di ricreare con l’arte tale esperienza in modo da renderla di nuovo reale. Mettendo insieme il suo lessico famigliare, Natalia Ginzburg trova un proprio modo per farlo, ovvero si aggrappa alle parole che avevano dato origine non solo alla sua famiglia, ma all’intera comunità. Si domanda se può usare quelle parole per rivendicare la realtà e se può esistere una forma di comunità dopo il fascismo che sia autentica e scevra da menzogne. Tutto questo lo fa mantenendo una prospettiva femminile. Nel suo racconto del 1949 Il mio mestiere, descrive i suoi primi tentativi di scrivere come un uomo usando «ironia e malvagità» e la realizzazione, dopo aver avuto dei figli, che poteva scrivere in modo autentico solo come donna: «Adesso non desideravo più tanto di scrivere come un uomo, perché avevo avuto i bambini, e mi pareva di sapere tante cose riguardo al sugo di pomodoro e anche se non le mettevo nel racconto pure serviva al mio mestiere che io le sapessi: in un modo misterioso e remoto anche questo serviva al mio mestiere». In questo passo Ginzburg emerge dal passato e assume il ruolo di guida. Spinge altre scrittrici a utilizzare la vita quotidiana non per raccontare solo l’esperienza familiare in quanto tale, ma a utilizzarla come un elemento all’interno di un progetto di più ampio respiro, ovvero restituire tutta la complessità di tempi difficili e complicati.
 

Ginzburg spinge altre scrittrici a utilizzare la vita quotidiana non per raccontare solo l’esperienza familiare in quanto tale, ma a utilizzarla come un elemento all’interno di un progetto di più ampio respiro


Le voci della sera, pubblicato due anni prima di Lessico famigliare, ne anticipa le tematiche in quanto l’autrice è impegnata nella stessa ricerca, cioè quella di trovare parole che abbiano «vere radici in noi». Aveva vissuto in Inghilterra e stava leggendo Ivy Compton-Burnett quando lo scrisse, infatti lo stile di Compton-Burnett infonde le pagine di dialoghi polifonici. Trovo che Le voci della sera sia più soddisfacente in quanto atto narrativo rispetto a Lessico Famigliare dove la narratrice non fa trapelare la propria esperienza. Nell’introduzione dell’edizione inglese delle Piccole virtù, Rachel Cusk elogia Ginzburg in Lessico Famigliare per aver separato «il concetto della narrazione dal concetto del sé e, così facendo, ha compiuto un enorme passo verso una rappresentazione della realtà più veritiera». Cusk rintraccia nella voce narrante di Ginzburg un prototipo della sua recente trilogia. Certamente Ginzburg ha le sue ragioni per affermare la futilità dell’insistenza sul sé, e in parte sono ragioni politiche visto che è rimasta comunista anche dopo essersi allontanata dal partito. Ma la narratrice della Ginzburg è coinvolta nelle vite dei suoi personaggi in modi diversi rispetto a quelli di Cusk, e quindi può sembrare disorientante che ci riveli così poco di sé. Si sposa, cambia città, ma noi lettori lo veniamo a sapere solo in un secondo momento.

Nelle Voci della sera è il significato stesso di disorientamento a essere esplorato. La prima metà del libro racconta nei minimi dettagli la storia del padre e dei figli della famiglia De Francisci, proprietari della fabbrica i cui odori acri permeano l’intera città. Questi personaggi, come quelli di Lessico famigliare, sono tratteggiati abilmente con alcuni particolari rivelatori (uno dei figli spiega qualsiasi cosa con la psicoanalisi, mentre la cognata si incipria così tanto la faccia da sembrare sporca di polvere). Nonostante sia evidente che in questo universo nessuna storia possa essere raccontata senza fare riferimento al resto delle storie di quella comunità, potremmo chiederci perché la narratrice, Elsa, ci intrattiene con questi racconti. Poi, circa a metà, veniamo a sapere che ha avuto una relazione d’amore finita male con Tommasino, uno dei figli. Dopo di che il romanzo si incentra sempre di più sull’innamoramento e poi sul disamore di Elsa e Tommasino. Segreti e preziosi pomeriggi d’amore cedono il passo a un fidanzamento ufficiale che uccide la loro relazione e fa sentire a Tommasino di aver tradito la propria indole. È attraverso questo rapporto che la noia e la nausea del dopoguerra si manifestano nel modo più doloroso, permettendo a Ginzburg di ritrarre una generazione bruciata e storpiata dai residui di brutalità casuale che ancora persistevano nella scia della guerra.

I dilemmi descritti in Rapporti umani e in Lessico famigliare sono dilemmi con cui oggi dobbiamo fare i conti in forme quasi immutate. Come vivere vivere in modo autentico all’interno di una comunità, come costruire un mondo nuovo con integrità?


Verso la fine, Tommasino confida ad Elsa di non riuscire a farsi valere perché ha sempre l’impressione «che abbiano già vissuto abbastanza gli altri prima di me. Che abbiano già consumato tutte le risorse, tutta la carica vitale che era disponibile». Questo ci riporta ai dilemmi descritti in Rapporti umani e anticipa quelli di Lessico famigliare. Sono dilemmi affrontati anche da Calvino e Pavese (il cui suicidio perseguiterà Ginzburg così come Calvino) e con cui oggi dobbiamo fare i conti in forme quasi immutate. Come mantenere l’energia e l’entusiasmo del dopoguerra in modo creativo piuttosto che come mera intossicazione, come costruire un mondo nuovo con integrità, come può un individuo vivere in modo autentico all’interno di una comunità, e infine, come sopravvivere al silenzioso giudizio dei morti?

 

 

Lara Feigel è una giornalista letteraria e scrittrice inglese, professoressa al King's College di Londra. Questo articolo è stato pubblicato sul Guardian il 25/02/2019 ► ‘If Ferrante is a friend, Ginzburg is a mentor’: the complex world of Natalia Ginzburg | Traduzione di Erica Francia


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