La letteratura non può ignorare la guerra

Ali Smith sulla narrativa in tempi di crisi e sul rapporto tra Katherine Mansfield e Virginia Woolf

«Dopo un grande dolore, viene un sentimento formale». La settimana scorsa ho assistito a una lettura di Claudia Durastanti dal suo proteiforme memoir-romanzo-saggio La straniera. L’autrice ha sottolineato il concetto di mutamento di forma nella citazione di Emily Dickinson, epigrafe del suo libro, e ascoltandola mi sono interrogata su questo momento storico ricco di grandi cambiamenti, dalla Brexit alla diffusione della demagogia trumpiana, dal Covid all’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, e su cosa ci richiederà in termini di trasposizione letteraria. Di recente mi è capitato di leggere quelli che a mio parere sono da ritenersi tre grandi romanzi del nostro tempo uno dopo l’altro, si tratta di opere completamente diverse: Small Things Like These di Claire Keegan, tradizionale in apparenza, ma tacitamente rivoluzionario; la brillante narrazione duale divisa tra passato e futuro di Michelle de Kretser in Scary Monsters; e l’originalissimo Sterling Karat Gold di Isabel Waidner. Tutti e tre parlano di tempi pericolosi e di forme di esclusione sociale e istituzionale, dei loro effetti sull’animo umano e di come questa pressione ci trasformi, del modo di raccontare una storia e delle possibilità che ne derivano. Un sentimento formale: non ho potuto fare a meno di ricordare uno degli incontri più cruciali tra due scrittrici nella storia della letteratura, oltre al profondo dolore e agli enormi sconvolgimenti che esattamente un secolo fa hanno reso possibili le loro opere.
 

All’epoca in cui Katherine Mansfield era rimasta sconvolta dalla perdita del fratello e aveva deciso di scrivere in suo onore, Virginia Woolf era impegnata nella stesura di Notte e giorno, il suo secondo romanzo


Negli anni centrali della prima guerra mondiale la scrittrice neozelandese Katherine Mansfield, che nella sua breve vita avrebbe rivoluzionato la forma del racconto, viveva tra Londra e la Cornovaglia. Katherine era rimasta sconvolta dalla perdita del fratello, che era rimasto ucciso in un incidente militare a seguito dell’esplosione di una granata che teneva in mano, e, come scrisse nel suo taccuino, per la prima volta decise di mettersi seriamente al lavoro in suo onore. La donna che di lì a poco sarebbe diventata una delle più grandi innovatrici letterarie della storia, Virginia Woolf, aveva di recente pubblicato il suo primo romanzo, La crociera, un’opera apparentemente tradizionale ma con un impianto compositivo ricco di sfumature e sottilmente critica verso gli imperialismi vissuti dai suoi personaggi; a quell’epoca era impegnata nella stesura di Notte e giorno, il suo secondo romanzo, mentre insieme al marito Leonard lavorava alla fondazione della Hogarth Press ed era alla ricerca di opere da pubblicare.
 


«Andrò a trovare Katherine Mansfield, forse mi scriverà un racconto», scrisse Woolf alla sorella Vanessa Bell nell’aprile del 1917. «Sembra che si sia data da fare in tutti i modi da quando aveva diciassette anni, il che la rende molto interessante; inoltre penso che la sua idea di scrittura sia superiore a quella di molti autori». Incontrò Mansfield e le commissionò quello che sarebbe diventato uno dei suoi capolavori, Preludio. Tuttavia Woolf commentò il proprio disgusto per la differenza di classe e il divario sociale tra di loro con una punta della sua solita acidità mista a un’ammirazione inaspettata: «Ecco la mia prima impressione […] non fosse che puzza come, insomma, come uno zibetto portato a spasso sui marciapiedi. A dire il vero, a primo impatto sono rimasta scioccata dalla sua banalità: lineamenti duri e dozzinali. Tuttavia, quando tutto ciò si attenua, è così intelligente e imperscrutabile da meritare la mia amicizia».

Nonostante la marcata ambivalenza di Woolf e lo snobismo brutale dei compagni del Bloomsbury Group, che vedevano Mansfield, «la piccola coloniale», come del cibo scadente su una carretta al mercato (per parafrasare Clive Bell), Woolf sapeva che Preludio aveva «la  forza vitale, l’esistenza distaccata di un’opera d’arte». Attratta e respinta allo stesso tempo, Woolf riuscì a cogliere la fragilità di Mansfield, malata di una tubercolosi non ancora diagnosticata che le avrebbe presto tolto la vita (in effetti la loro amicizia, che cambiò la vita di entrambe, durò solo sei anni). Inoltre, Woolf non era abituata a trovare la scrittura di qualcun altro, specialmente di un’altra donna, così eccezionale. «Come al solito, trovo con Katherine quello che non trovo in altre donne intelligenti, una certa disinvoltura e curiosità… dovuta al fatto che ha sinceramente a cuore, anche se in modo diverso dal mio, la nostra preziosa arte». Woolf era una donna competitiva; di tanto in tanto, nel suo diario, si gloriava di quelli che considerava come passi falsi letterari o sociali di Mansfield. Quando lesse il racconto Felicità di Mansfield sulla English Review nel 1918, «lo misi giù esclamando: “È finita!”. In effetti non vedo come la mia stima nei suoi confronti come donna o scrittrice possa sopravvivere a un racconto del genere […] la sua mente è un terreno molto sottile […] Felicità è abbastanza lungo da darle la possibilità di andare più a fondo. Invece si accontenta di un’intelligenza superficiale». Ma poi, subito dopo, poiché Woolf non fu mai una giudice poco severa di sé stessa, aggiunge: «O è forse assurdo formulare tutte queste critiche sulla sua persona sulla base di un racconto?».
 

Attratta e respinta allo stesso tempo, Woolf riuscì a cogliere la fragilità di Mansfield


Mansfield fu altrettanto pungente (e protettiva!) di Woolf nei confronti della loro amicizia; i Woolf divennero presto i Woolves nelle sue lettere, Clive Bell «quella zucca grassoccia». Ma anche se detestava lo snobismo dei “Blooms Berries”, insisteva che Virginia era diversa: «L’unica di loro che frequenterò mai… prende sul serio l’attività di scrittrice ed è onesta ed entusiasta a riguardo. Non si può chiedere di più». Fu un’amicizia importante per entrambe: «Considera quanto sia raro trovare qualcuno con la tua stessa passione per la scrittura, che desideri essere totalmente sincera con te – e che ti dia la libertà della città senza alcuna riserva», scrisse Mansfield in una splendida e lusinghiera lettera nel giugno del 1917, offrendo la sua amicizia e invitando Woolf a fare altrettanto. In agosto le scrisse di nuovo, dicendole che le era piaciuto molto un racconto scritto da Woolf, Il segno sul muro. Pochi giorni dopo Woolf le mostrò un altro racconto, intitolato Kew Gardens. Mentre si stava riprendendo da una malattia debilitante e lavorava, quando stava abbastanza bene, al romanzo ultraconvenzionale, arguto e realista Notte e giorno, Woolf aveva anche steso di getto questi racconti brevi, diversi da qualsiasi altra cosa avesse mai scritto.
 


Sconnesso, dirompente, vicino al flusso di coscienza, Il segno sul muro sconvolge le aspettative dei lettori nei confronti della storia, ne sposta radicalmente le possibilità ed è il primo tentativo formale di Woolf di rappresentare in modo più veritiero cosa vuol dire essere vivi in «un mondo che si potrebbe affettare con i propri pensieri come un pesce affetta l’acqua con la sua pinna, sfiorando gli steli delle ninfee». Kew Gardens realizza un cambio di prospettiva altrettanto sorprendente: la vita in un parco vista dal punto di vista di insetti e molluschi, la vita delle foglie in un’aiuola, le persone immerse nelle loro preoccupazioni passano indifferenti mentre una lumaca pensa a come oltrepassare una foglia. Da sotto o di lato? La stesura di questi scritti aveva dato a Woolf, cronicamente invalida, un’energia del tutto nuova, la libertà della città, come «essere lanciata nella metropolitana a cinquanta miglia all’ora – atterrando dall’altra parte senza una sola forcina nei capelli! Scagliata ai piedi di Dio completamente nuda! […] Con i capelli che volano indietro come la coda di un cavallo da corsa!».
 

La guerra non c’è mai stata, questo è il messaggio… il romanzo non può tralasciare la guerra


«Mi è piaciuto moltissimo!», disse Mansfield a proposito de Il segno sul muro. Quando lesse Kew Gardens, scrisse a Woolf che il suo linguaggio non solo era innovativo, ma era così primordiale da mettere in discussione la nozione stessa di significato. Lo recensì su The Athenaeum nel 1919, piena di ammirazione, sostenendo che Woolf fosse molto più avanti degli «scribacchini da taccuino!» che costituivano l’ambiente letterario contemporaneo, era una scrittrice di un’altra epoca – il futuro. «Inizia dove gli altri si fermano… da sola e per suo piacere… la sua storia è immersa [nel piacere] come se fosse una luce… che accresce l’importanza di ogni cosa». Ma fu la successiva recensione di Mansfield su Woolf, un pezzo su Notte e giorno, a sollevare un vespaio. Quando Mansfield lesse il romanzo in Italia, dove era stata mandata a causa della tubercolosi, rimase sconvolta. Scrisse furiosa al marito John Middleton Murry: «È una menzogna nell’anima. La guerra non c’è mai stata, questo è il messaggio… il romanzo non può tralasciare la guerra… Sento nel profondo del mio cuore che nulla può più essere lo stesso e che come artisti siamo dei traditori se la pensiamo diversamente […]. Nel libro di Virginia c’è una scena frivola in cui una giovane e affascinante creatura suona il flauto ammantata da un’aura magica e luminosa: mi fa davvero paura». Mansfield prende in giro il classismo del romanzo, «l’aristocratica ignoranza del romanzo verso tutto ciò che è al di fuori della sua piccola cerchia, e la meraviglia, la sorpresa, l’incredulità rispetto al fatto che altre persone abbiano sentito parlare di William Shakespeare».

In questa recensione, pubblicata nel novembre del 1919, l’autrice riconosce a Woolf lo status di scrittrice di un’altra epoca, ma questa volta del passato. Il genere romanzesco sta morendo, o è vivo? «Se il romanzo muore, sarà per cedere il passo a qualche nuova forma di espressione; se vive, deve accettare il fatto che il mondo è cambiato». Ed ecco «la strana visione di Notte e giorno che naviga verso il porto sereno e risoluto sospinto da un vento costante […] il suo distacco, la sua aria di tranquilla perfezione, la mancanza di qualsiasi segno che indichi un viaggio pieno di pericoli […]. Si è quasi tentati di gridare alla Miss Austen contemporanea […] pensavamo che questo mondo fosse scomparso per sempre, che fosse impossibile trovare sul grande oceano della letteratura una nave che ancora non fosse consapevole di ciò che stava accadendo. Eppure ecco Notte e giorno, fresco, nuovo e soave […] la nostra ammirazione ci fa sentire vecchi e spiazzati: non avremmo mai pensato di tornare a vedere qualcosa del genere!». Ahia!

Se il romanzo muore, sarà per cedere il passo a qualche nuova forma di espressione; se vive, deve accettare il fatto che il mondo è cambiato


Quello che Mansfield non poteva sapere è che Notte e giorno era un’opera nata dall’angoscia e dalla convalescenza, un rifugio per Woolf durante gli anni della guerra, e Virginia rimase ovviamente ferita dalla recensione. Anche se ne parlò poco nel suo diario e la menzionò solo di sfuggita in un paio di lettere, si mise a letto per alcuni giorni indisposta. Quando Mansfield tornò a Londra, la primavera successiva, Woolf attese, gelidamente, di essere contattata e ricercata. «Ho scritto a Katherine. Nessuna risposta». Poi, alla fine di maggio: «un messaggio freddo e formale che mi ringrazia per la mia gentile cartolina e dice che sarà lieta di vedermi». Woolf le fece visita. «Mi ha accolto con angosciante formalità e freddezza […] nessun piacere o eccitazione nel vedermi […] Poi ha parlato della sua solitudine e ho sentito che traduceva in parole i miei sentimenti come io non avrei saputo fare». Inoltre, durante l’incontro, Mansfield dichiarò che le sue recensioni non erano altro che «”scarabocchi” [...] Poi mi chiese di scrivere dei racconti per The Athenaeum. Ma io non so se sono in grado di scrivere racconti, risposi […] Al che lei mi si scagliò contro e disse che nessun altro era in grado scrivere racconti a parte me – Kew è il “gesto” giusto; un punto di svolta […]. Ancora una volta, con la stessa intensità di sempre, sento che tra noi c’è una certa intesa».
 


Alla fine del 1920 Mansfield scrisse dalla Francia quella che sarebbe stata la sua ultima lettera a Woolf: «Mi chiedo se sai cosa sono state per me le tue visite – o quanto mi mancano. Sei l’unica donna con cui desidero parlare di lavoro. Non ce ne sarà mai un’altra. Ma apparteniamo a mondi diversi». Woolf era immersa nella genesi del suo romanzo successivo, scritto proprio nello stesso stile di quei racconti che avevano tanto liberato la sua energia e che Mansfield aveva tanto lodato: asciutto, sperimentale, denso, folgorante, discontinuo, impressionistico, espressionistico. Era l’opposto, in tutto e per tutto, di Notte e giorno. Non parlava direttamente della guerra, anche se il suo protagonista vi rimane ucciso. Il suo cognome è Flanders. La grande maestra e innovatrice del racconto, Katherine Mansfield, ha mai letto La stanza di Jacob (1922), il primo romanzo veramente rivoluzionario della sua amica, la scrittrice che stava per diventare una delle più grandi innovatrici e riformatrici del genere romanzesco? Non ne resta traccia, non ne abbiamo idea. Nel gennaio del 1923, la domestica di Woolf, Nellie Boxall, annuncia a colazione: ha visto la notizia sul giornale, Mrs Murry è morta. Quando un paio d’anni dopo Woolf termina il suo romanzo successivo, La signora Dalloway, è un nuovo trionfo di quella che si rivelerà una lunga serie di successi rivoluzionari per la loro forma e prospettiva sempre mutevoli: Orlando, Gita al faro, Le onde, Tra un atto e l’altro. Woolf è soddisfatta dei suoi successi? È sconsolata. Che senso ha? Scrive nel suo diario. «Katherine non li leggerà».
Grande dolore: sentimento formale.


 

Ali Smith è una scrittrice scozzese. È stata finalista al Booker Prize e all’Orange Prize, e ha vinto numerosi premi, fra cui l’Orwell Prize e Women’s Prize for Fiction. Questo articolo è stato pubblicato il 26/03/2022 sul Guardian ► ‘The novel can’t just leave the war out’: Ali Smith on fiction in times of crisis | Traduzione di Serena Mannucci.


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