La fragilità del vetro

Intervista a Edoardo De Angelis, regista di Mozzarella Stories, Perez. e Indivisibili

Sotto i portici di Piazza Vittorio, nel caldo torrido e soffocante dell’estate capitolina, voci africane e orientali si  confondono in un borbottio indistinto. Accanto a me, un gruppo di netturbini seduti al tavolo di un bar protesta contro gli insostenibili orari lavorativi, stagliandosi con il loro romanesco stretto in mezzo al sommesso brusio multiculturale. No, nun se pò fa’!, grida uno, mentre dal fondo delle arcate scorgo Edoardo De Angelis. Il regista campano, occhiali scuri e camicia bianca rigorosamente aperta al secondo bottone, è appena arrivato in treno da Napoli per i sopralluoghi del suo prossimo film. Sbrighiamo velocemente i convenevoli, perché i quaranta gradi sono davvero insostenibili e quindi, nella stessa piazza in cui Antonio e il piccolo Bruno cercavano i pezzi della loro Fides rubata in Ladri di biciclette, a nostra volta ci mettiamo in ricerca di un luogo fresco in cui parlare. Troviamo rifugio in un ristorante cinese, apparentemente l’unico locale della piazza con l’aria condizionata, e ci sediamo al primo tavolo della sala. «Prima di cominciare con il cinema ho provato ad accostarmi a varie discipline dell’arte, senza il minimo successo: partendo dalla recitazione, attraverso la pittura, la scultura, l’architettura… il canto!», mi racconta con autoironia. «Ecco, nel canto ho avuto i risultati più disastrosi. Avevo addirittura formato un gruppo rap da ragazzo, perché non ero intonato e il rap era l’unica cosa che potevo provare». È il canto, non rap ma neomelodico, uno dei temi portanti dell’esordio di De Angelis Mozzarella Stories, che raccontava in bilico tra drammatico e grottesco il mondo della mozzarella di bufala e della malavita campana nell’allevamento di Ciccio Dop. Con la sua opera seconda Perez. si è immerso nel mondo della criminalità attraverso gli occhi del suo protagonista, interpretato da Luca Zingaretti. Demetrio Perez, avvocato delle cause perse al Centro Direzionale di Napoli, è separato e vive da solo in un appartamento con la figlia Tea, la passionale Simona Tabasco, che ha una relazione con Francesco Corvino, il Marco D’Amore della serie Gomorra. Perez, a conoscenza degli affari criminali della famiglia Corvino e preoccupato per il futuro della figlia, viene assunto dal boss camorrista Buglione, divenuto collaboratore di giustizia, e ne approfitta per stringere con lui un patto: se Buglione incastrerà Francesco Corvino nelle sue confessioni, Perez recupererà per lui 80 milioni di euro di diamanti nascosti nella pancia di un toro. L’italiano stentato del menù offre “penne all’arrabiata” e secondi poco invitanti. Il regista, campano di bocca buona, si mette al riparo dai rischi ordinando del riso, mentre da bere chiediamo due Peroni fredde. «Ghiacciate», chiede De Angelis al cameriere.

Hai detto che Perez. nasce «dalla realtà: dalla realtà del tribunale di Napoli, degli avvocati di ufficio, dalla realtà del Centro Direzionale, un luogo che rappresenta una promessa mancata di progresso e di ricchezza». Il film si apre con la macchina da presa che scende tra i palazzi del Centro Direzionale, cos’ha voluto dire per te calarsi in questa realtà?
Questa è una scelta che non è una scelta a priori, fino adesso è sempre stata il frutto di una ricerca. Tranne che per Mozzarella Stories, che invece essendo il primo film voleva essere per me una sorta di manifesto cinematografico. Volevo mettere in ballo tutte le mie passioni, sia mondane che visionarie, e quindi ho fatto questo film che  probabilmente sarà la madre degli altri film che farò, se continuerò a farli, così come la terra dove sono cresciuto è la madre del mio immaginario. Poi successivamente in Perez., e anche nelle prossime cose che stiamo preparando, non è stata una scelta di provenienza, ma una scelta di ricerca: ho trovato in questi territori i luoghi più emblematici per raccontare determinati sentimenti dell’essere umano. Nel caso di Perez. cercavo un posto per raccontare il senso di disequilibrio tra il dare e l’avere alla società, il senso di disequilibrio che nasce dalla frustrazione che prova chi rispettando le regole non riesce a vincere nel gioco, risulta perdente rispetto invece a chi le regole non le segue, anzi le infrange sistematicamente. Questo è il rapporto tra persone che seguono la legge e persone criminali, che poi s’incontrano nella zona grigia del tribunale. Il quartiere che ospita il tribunale a Napoli è estremamente emblematico di questo tipo di sentimento, perché abbiamo una geografia molto simmetrica, imponente, quasi che schiaccia l’individuo, abbiamo dei materiali duri – il ferro, il vetro – che stridono contro la mollezza dell’essere umano. Potrebbe essere ambientato dovunque, ma a Napoli, in quel quartiere, trova la sua dimensione emblematica.
 

Il tribunale a Napoli ha una geografia molto simmetrica, imponente, quasi schiaccia l’individuo. Materiali duri – il ferro, il vetro – che stridono contro la mollezza dell’essere umano


Nel corso delle ricerche per Perez. hai riportato la frase di un avvocato sentita durante un’arringa: “Signor giudice, io se volessi intraprendere la carriera criminale potrei farlo, perché ne ho gli strumenti. Dopo tanti anni di esperienza a contatto con questi individui io saprei cosa fare”. Come hanno influenzato il film questa frase e questo modo di vedere il rapporto delle persone perbene, o comunque delle persone ordinarie, con il mondo della criminalità?
Ha influenzato molto, perché mi sono reso conto che quest’individuo disponeva già in realtà di tutte le competenze necessarie per passare, volendo, dall’altra parte, dal lato oscuro della sua stessa vita. Il racconto di Perez è un costante cammino in equilibrio precario tra il bene e il male, Perez è in costante rapporto conflittuale col proprio lato oscuro. In questo senso è un film che utilizza molto gli stilemi del genere noir rispetto a questa dimensione, perché non mi andava di fare un racconto che fosse squisitamente di genere, cioè nel senso che a partire da questo io poi volevo superare la dimensione del genere all’interno di un racconto che fosse profondamente umano. E quindi mi sono chiesto in che modo Perez poteva passare dall’altro lato, e ho trovato in quest’espressione la possibilità. Infatti nel film lui utilizza delle competenze che ha acquisito dai suoi stessi clienti: proprio quello che l’ha ricusato gli aveva spiegato involontariamente come disfarsi del cadavere della persona che lui uccide.

Ti riferisci spesso al percorso di Perez come a una discesa negli inferi, e a questo proposito c’è un’immagine simbolica nel film. Perez passa dal tunnel che collega un palazzo del Centro Direzionale ad un altro, e oppresso dalla struttura metallica del tunnel scivola nella penombra, finché di lui non vediamo soltanto la silhouette, un’ombra nera. E all’uscita incontra Buglione, il boss camorrista che lo cambierà. È forse questo l’inizio della sua discesa negli inferi?
Questo suo entrare e uscire da questi tunnel rappresenta la sensazione dell’uomo, che è in costante cambiamento rispetto al suo entrare e uscire da dimensioni di oscurità e di luce. È certo che quando imbocca il tunnel poi entra effettivamente in contatto con Satana che lo tenta; Buglione poi ha una funzione ambivalente, perché è al tempo stesso un tentatore, che lo attira nel lato oscuro, ma è anche un mentore, perché gli insegna il controllo di se stesso, cosa che lui non ha mai avuto. Non ha mai controllato la sua vita, pur essendo un individuo forte. Ecco perché ho scelto Luca Zingaretti, perché volevo raccontare un individuo debole nella sua condizione attuale, ma che contenesse dentro di sé la forza per liberarsi.
Direi che questo film, così come l’avevo immaginato, è legato in maniera indissolubile con il Centro Direzionale, perché è vero che è una storia che ha connotati universali, ma anche è anche vero che questa storia qui, raccontata in questo modo, poteva avere luogo solo a Napoli, solo in quel quartiere.

Sia in Mozzarella Stories che in Perez. gli animali hanno un ruolo centrale, e il rapporto con i personaggi è violento, primordiale. Da una parte la nascita della bufala, che corrisponde alla morte di Ciccio Dop, dall’altra l’uccisione del toro che corrisponde alla rinascita di Perez. Perché la scelta di mettere in scena questo genere di rapporti tra uomo e animale e di calarli entrambi in sequenze notturne?
Ci pensavo proprio stamattina, perché pensavo di essermene liberato definitivamente ma a quanto pare, per quello che sta venendo fuori per il prossimo film, non è così. La bufala è un animale simbolo della terra in cui sono cresciuto, e fin qui è abbastanza facile interpretarlo, ma in realtà non è solo questo. Essendo un animale molto grosso, al tempo stesso molto diffidente però anche curioso, pericoloso – ricordiamoci che il bufalo è uno dei Big Five –, è emblematico, perché rappresenta il mezzo di sostentamento dell’essere umano da quelle parti (produce il latte che produce l’oro bianco che permette di vivere) e al tempo stesso un animale difficile da governare, per la sua mastodonticità e per la sua pericolosità legata alla mole.
E l’uomo che entra in rapporto con questo animale entra in rapporto con i suoi istinti primordiali, che possono essere di felicità legata ad una nascita – in Mozzarella Stories Ciccio Dop è felice perché la bufala è femmina, quindi porta ricchezza, mentre invece il maschio è destinato alla morte nella maggior parte dei casi –, in Perez. è un rapporto con un essere enorme, minaccioso, oscuro da sconfiggere, da espugnare, perché lì dentro è contenuta la chiave per risolvere l’esistenza.
Una sorta di elisir da conquistare, però per conquistarlo bisogna vincere le proprie paure e bisogna sconfiggere anche le proprie remore rispetto all’utilizzo della violenza o rispetto al superamento di una vita ingessata e borghese: Perez quando entra la prima volta nell’allevamento e si sporca di fango è in abito sartoriale, così come è venuto dall’ufficio; lì ho voluto raccontare proprio quanto era necessario per lui sporcarsi, rischiare, se voleva riprendere in mano la propria esistenza. E questo per me è la bufala, che sia essa femmina o toro: origine della vita e paura della morte.
 

Questo per me è la bufala, che sia essa femmina o toro: origine della vita e paura della morte


La stessa sequenza notturna, sotto la pioggia, è simbolica. Avvolto in un impermeabile, al buio, bagnato, Perez ritorna alla vita come se uscisse per la prima volta dall’utero materno.
In qualche modo sì, perché lui lì ricomincia a vivere. Hanno tra le mani dieci milioni di euro in diamanti: sono sporchi, sono sfranti, ma sono vivi.

Il regista campano addenta un po’ del riso nel suo piatto. Sono quasi le tre e non ha ancora mangiato, per il viaggio che l’ha portato a Roma. I sopralluoghi sono appena cominciati, dato che il nuovo film, mi dice mentre mandiamo giù la Peroni ghiacciata per riprenderci dal caldo asfissiante, «ho finito di scriverlo la settimana scorsa». Il suo terzo lungometraggio Indivisibili, all'epoca dell'intervista ancora in pre-produzione, ndr  comincerà dov’è finito Perez. Geograficamente o narrativamente?, gli chiedo. Geograficamente. Le location principali, a conferma del forte legame con le sue radici, saranno le realtà di Castelvolturno e di Villaggio Coppola, una volta ricchi porti turistici poi, dopo il terremoto del 1980 e la scoperta dello sversamento di rifiuti tossici, spazi abbandonati al loro destino. «Mi affascinano questi luoghi un tempo promesse di ricchezza, di progresso», dice, «mentre adesso li vedi e invece tutto è perduto, distrutto. Anche questo credo sia emblematico, di questa terra ma anche di certi esseri umani. Mi fanno tenerezza gli esseri umani di grandi speranze rivisti dopo anni sull’orlo di un baratro. È così difficile mantenere le promesse», mi dice con un filo di malinconia nella voce.

La rovina di per sé, come un qualcosa che era stato costruito e che però…
…poi si è perso. Che è successo, perché si è perso? La rottura di un personaggio, e quindi di un essere umano, quando è avvenuta? Quando si è rotto il giocattolo? È questo che mi evocano i giocattoli rotti, gli esseri umani rotti…

Come in Mozzarella Stories, dove nel giro di una settimana c’è il crollo di un impero, di tutto quello che è stato costruito in anni di lavoro.
Cosa che poi è auspicabile. Perciò mi piace raccontare storie, perché nel racconto della storia ciò che nella vita è diluito in anni di languore, nel racconto invece arriva velocemente al suo punto di rottura, all’acme del conflitto. Quindi richiede per forza di cose una risoluzione. L’ambiguità delle situazioni mai risolte, nella politica, nella vita, è una cosa che trovo insopportabile. Il cinema è un antidoto a questo languore, alla palude dei sentimenti, dei conflitti mai risolti perché non esplosi. Non esplodono mai. Questo paese non esplode mai, perché qui i conflitti ristagnano.

È anche un problema del nostro periodo storico, in cui nelle democrazie occidentali non ci sono grosse lacerazioni e si preferisce piegarsi per evitare la rottura completa. Eppure a volte spezzarsi fa bene, perché le macerie costringono a ricostruire. 
Questa è solo apparenza a mio modo di vedere. Abbiamo tragedie che richiederebbero esplosioni di conflitti, mentre invece c’è qualche cosa che ci anestetizza, quindi questo non accade. Nella mia cultura, napoletana, è una tendenza atavica all’anarchia, perché essendo sempre stati dominati abbiamo sviluppato geneticamente una tendenza all’adattamento a qualunque condizione di sofferenza, di dolore, di sottomissione. Quindi non ci siamo mai veramente ribellati. Il napoletano non si ribella, al massimo s’arrvota. S’incazza, in una rivoluzione lampo, ma poi tutto trova il nuovo ordine nella palude. Questo non mi piace.

Il cinema è un antidoto alla palude dei sentimenti e dei conflitti mai risolti


Però questa ambiguità in Perez. rimane irrisolta. Il personaggio più in bilico di tutti, Corvino, muore alla fine, ma la morte avviene poco dopo una frase che lui, rannicchiato in macchina, dice a Perez: “Io c’ho provato a cambiare vita”.
Questo era importante per me, perché non volevo punire il cattivo o identificarlo. Questa qui non è un’ambiguità, questo è l’insieme di sfumature che rappresentano poi l’essere umano; ma la posizione non può essere ambigua. Anzi, a maggior ragione, l’essere umano è sfumato: le sue caratteristiche di bene e di male si mischiano in varie sfumature, appunto. A maggior ragione l’essere umano deve prendere posizione rispetto alla propria vita, che non significa decidere se sei un avvocato o se sei un camorrista, significa decidere cosa devi fare in quel momento, nel caso di Perez per salvare quello che hai di più caro. Allora a quel punto non ti puoi fare intimidire o intimorire o intenerire dal dubbio sulla colpevolezza di quell’individuo rispetto ad un omicidio di cui non t’importa niente. Non è il giudizio morale quello a cui tendi, quello a cui tendi è risolvere una situazione contingente. Per me quella è la posizione che Perez prende: risolve il suo problema. Dopo Perez non è che mi diventa un camorrista, tanto è vero che è armato ma non infierisce contro il suo, diciamo, diavolo tentatore barra mentore. Rispetta i patti e dà la maggior parte del bottino a lui, nonostante sia in una condizione di superiorità in quel momento. Lì però si erge ad un livello morale elevato, nel senso che non giudica come un moralista l’operato di altri, ma rispetti i patti. E quindi moralmente lui è ineccepibile, da quel punto di vista. Poi ci si può chiedere fuori dal film se sia giusto o sbagliato arrivare a sopprimere una persona per salvarne un’altra, però questa è una cosa che sta fuori dal film, così come dovrebbe stare fuori dalla risoluzione di ogni conflitto umano una valutazione eccessivamente universale delle cose, perché questo rallenta. Il pensiero non può comprendere tutte le variabili. Se pretende di farlo diventa sofismo. Ad un certo punto il pensiero deve cedere il passo all’azione, altrimenti la vita si perde nei rigagnoli delle elucubrazioni dialettiche.

Che è la tensione che c’è sempre tra l’individuo e la società.
È proprio quello il punto di riflessione. È esattamente quello.

Come mai la scelta di portarti dietro molti attori di Mozzarella Stories, da Luca Zingaretti a Gianpaolo Fabrizio, da Massimiliano Gallo a Tony Laudadio?
Sono attori che amo. Capita anche con Gianpaolo Fabrizio e con Massimiliano Gallo di essere anche molto amici nella vita. Conoscere un essere umano che vuoi utilizzare aiuta molto nella possibilità di toccare delle corde che sai che emozioneranno, conoscere degli aspetti del suo essere umano aiuta. Sai, ci sono quei musicisti che suonano sempre con la loro vecchia chitarra, non la cambiano mai perché quella dà un suono che altre chitarre più costose, più tecnologiche non danno. Ecco, per me gli attori miei sono come quella chitarra che dà quel suono che conosco e che so che appartiene ai miei film, e al quale potrei difficilmente rinunciare. Ci sono degli elementi impalpabili che rendono per me un film che ho fatto riconoscibile, che lo rendono mio.

Una cosa che mi è sembrata fondamentale per Perez. è il fatto che fai muovere i tuoi personaggi all’interno di un mondo in cui la criminalità organizzata è fondamentale per il percorso narrativo – si parla di avvocati, di pregiudicati –, però allo stesso modo ti astieni da un giudizio morale e da una valutazione sociale delle loro azioni. Lo sguardo con cui racconti le vicende è uno sguardo calato in quella dimensione criminale, ma nel suo aspetto individuale. Non parli della camorra o delle organizzazioni criminali in generale come fa, ad esempio, il cinema di Marco Tullio Giordana, ma entri in quel mondo attraverso gli occhi dei singoli che lo vivono.
Quello è il punto di vista che ritengo più interessante, perché la questione sociale più ampia è interessante, sì, però ne hanno parlato in tanti. Del resto io feci Mozzarella Stories in un periodo in cui era uscito il romanzo di Roberto Saviano, che è un ragazzo che è cresciuto nella mia stessa città nei miei stessi anni. Lui faceva il liceo scientifico, io facevo il liceo classico. Ci incontravamo, quindi raccontiamo fondamentalmente la stessa realtà. E penso che lui l’abbia fatto in maniera totalmente esaustiva da quel punto di vista. Quello che invece andava raccontato è il punto di vista personale dell’essere umano che vive calato in quei luoghi, in quei fenomeni, che non è mai un punto di vista dicotomico. Tu stai lì, e il camorrista non è uno che ha la coccarda: tendenzialmente dalle mie parti è sempre stato un imprenditore, a differenza di Napoli dove ce l’avevano quasi la coccarda, si presentavano, perché Cutolo aveva inculcato in loro l’orgoglio di essere camorristi, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Questa dimensione romantica a Caserta non c’è mai stata. A Caserta tu hai sempre incontrato imprenditori che si comportavano in maniera normale, da imprenditori, fin quando non entravi in contrasto con i loro interessi, allora lì subentrava il deterrente della paura di perdere la vita. Questo strato di deterrenza è parte della nostra coscienza sociale, ma è parte delle nostre paure di esseri umani singoli, di individui. Questo io volevo dire, e vorrò ancora dire perché c’è tanto da raccontare su questo, che invece c’è poco nella sua rappresentazione attuale. Allora, la criminalità organizzata è il nostro prodotto tipico cinematografico, quindi è inutile stigmatizzarlo come un aspetto negativo: è qualcosa che noi possiamo vendere in tutto il mondo, tanto è vero che Gomorra è stata la prima serie tv che ci ha portato a dei livelli internazionali di vendibilità. Ed è un prodotto molto bello, io lo amo molto. Ma anche lì mi manca la  dimensione del singolo individuo che si trova calato in situazioni di questo tipo.

Anche lì rimane un discorso sociale.
Tu sei lì, insieme ai criminali, già con loro. Li vedi, ma sono lontani da te. Non sono te. Almeno, io non mi sento loro. Io mi sento più Perez, perché nessuno di noi può dire di non essere mai entrato in contatto con quella realtà, eppure non ne facciamo parte. Come imprenditore a volte paghi, a volte ti metti d’accordo, altre volte accetti dei favori, oppure ti rifiuti, denunci, ma comunque ci entri in contatto. Questo è il punto di vista che per me è più interessante, la zona grigia di chi deve decidere di volta in volta come comportarsi. E poi è finito come fenomeno così capillarmente organizzato, ed è estremamente più frammentato di come lo si possa immaginare.

Devo essere onesto, essendo estraneo alla vita quotidiana di queste terre, è una dimensione in cui difficilmente riesco a calarmi. Ed è proprio per questo che un personaggio come Corvino mi ha messo in difficoltà.
Perché non capivi chi era. ‘Ma questo non ha fatto niente, è figlio di un camorrista, ma perché lo dobbiamo uccidere?’

Che è un po’ lo sguardo di Tea, la figlia di Perez.
È quello. È lo sguardo di un borghese, diciamo così, però io lo trovo esaltante. Pormi queste questioni lo trovo esaltante, a vedere quelli che si sparano e fanno esplodere le cose mi diverto, sì, ma è un divertimento che dura meno.

E soprattutto è un divertimento che non ha interrogativi. Hai delle figure esattamente definite.
Sai chi è il bene e chi è il male. Quello è un criminale punto e basta.

Ma la vita non è così.
Eh, no. No. Io non la vedo così. Molto spesso io ho il sospetto che i miei amici facciano affari illeciti, ma non ne sono sicuro, perché non me lo confidano. Magari è solo un sospetto, ma il fatto stesso che io abbia quel sospetto racconta molto della mia terra.

Come avete lavorato alle musiche con Riccardo Ceres, collaboratore di vecchia data, e cosa cercavate?
La prima cosa che è arrivata è stato il tema, il tema di flicorno che c’è all’inizio e ricorre. E quello l’ho usato molto anche nelle prove con gli attori e in ripresa. Ho sempre lavorato così con lui, ho avuto degli appunti musicali durante le riprese o anche prima. Dopo invece, la scelta della colonna è stato qualcosa di un po’ più faticoso, perché è il frutto di una ricerca che è durata un po’ di più in fase di post-produzione, per cercare di restituire quell’emozione attraverso una colonna sonora che non fosse molto convenzionale, fatta molto di note basse, di orchestrazione di rumori che non fossero necessariamente strumenti suonati. Tutta la parte di colonna, dove non c’è il tema, è una cosa che si è lavorata in post-produzione cercando i suoni giusti per esprimere i sentimenti di quelle scene. È un film molto rarefatto rispetto a Mozzarella Stories, quindi cercavo di rendere il sentimento di quella rarefazione, cioè che segno doveva avere quella rarefazione.

La stessa rarefazione del ristorante, ormai completamente vuoto. Il suono delle ultime forchette riposte e il brusio che proviene dalla cucina sono gli unici rumori udibili, insieme al traffico ovattato della piazza che filtra dalla porta a vetri dell’ingresso.Uno dei camerieri cinesi si avvicina: We are close, azzarda in un inglese stentato quanto l’italiano del menù. Una frase un po’ strana, considerando che siamo già seduti al tavolo, ma per tranquillizzarlo gli assicuriamo che ce ne andremo presto

Hai detto di aver pensato il rapporto tra Perez e la figlia come una storia d’amore. È anche in quest’ottica che nel ricongiungimento finale i due si tolgono gli anelli – rispettivamente la fede dell’ex moglie e il regalo dell’ex ragazzo – e si abbracciano?
Li ho visti come una coppia, perché sono una coppia. Perché sono soli. E come in una coppia uno dei due ha perso di vista l’importanza del valore dell’altro, della sua dedizione, del suo sacrificio. Tea è in conflitto col padre perché vuole vivere la sua vita a modo suo, mentre di fronte ha il modello di un uomo che non è mai stato capace di farlo. È un po’ kierkegaardiano Perez in questo senso, ha scelto di non scegliere, perché pensa che questa cosa lo possa mettere al riparo dall’infelicità. E non è vero; è vero quello che gli dice la figlia: “Non esiste un riparo all’infelicità”, per cui tanto vale rischiare di soccombere ma di vivere. È perversa la psicologia di Perez, perché lui all’inizio lo dice “Lo sapevo, lo vedevo il muro davanti a me, eppure continuavo ad andargli incontro”. E quindi come una coppia poi alla fine…
A me piace che lei cominci a stare zitta quando la situazione precipita; cala un velo sui suoi occhi e lei, incapace di interpretare la realtà, accetta finalmente il suo ruolo di figlia e quindi si fa guidare. Questo mi piace di lei. È una scelta un po’ estrema in termini narrativi, perché è repentino questo accadimento, però secondo me era giusta perché succede così nella vita: quando si verifica un evento traumatico poi non è che il cambiamento di atteggiamento segue troppi step di evoluzione.

E il cambiamento paradossalmente per Tea avviene proprio nel momento in cui lei, che fino a quel momento è la parte forte di questa coppia, si rende conto di non essere in grado di individuare dove sta il bene e dove sta il male nella persona con cui è in relazione. E di conseguenza di non poter agire.
Lei pensava di saper interpretare il mondo, invece ad un certo punto si rende conto che non è così. Pensava di essere donna, mentre invece si rende conto di non esserlo ancora. E quindi fa un passo indietro e dice: “Aspetta, non sono una donna,  sono ancora una figlia”. Anzi, sono una figlia, fammelo godere questo momento. Per me è bello perché mi parla della difficoltà di stabilire i ruoli. Questa confusione, questa smania di bruciare tutto ci fa sfuggire a volte l’importanza di essere quella persona in quel determinato momento della nostra vita, cioè di interpretare un ruolo. Il ruolo non è per forza un limite, può essere anche un’occasione. Può essere l’occasione di condurre un’esistenza secondo un ordine che passa dalla nascita alla crescita alla maturità alla morte. Sennò il rischio è che si passi direttamente dalla nascita alla morte, e l’esempio emblematico in questi giorni sono i nostri boss ragazzini che a vent’anni sono già dei boss di quartiere. Hanno ucciso Sibillo la settimana scorsa, che era diventato il boss della Sanità e non aveva ancora compiuto vent’anni. A volte sfugge questa cosa dei ruoli, dei passaggi che sono necessari nella vita. E volevo dare a questi individui, che vivevano un’esistenza apparentemente ovattata, un’incursione coatta nel rischio di perdere la vita. Perché in quella città è possibile passare in un attimo dall’altra parte. C’è un proiettile vagante e tu da borghese tranquillo diventi vittima del crimine, eppure non c’era stata nessuna avvisaglia. Questo accade semplicemente perché in quella città c’è contiguità di mondi, e a volte un mondo va a finire nell’altro.
 

A Napoli è possibile passare in un attimo dall’altra parte. C’è un proiettile vagante e tu da borghese tranquillo diventi vittima del crimine


Ho saputo che avete dovuto sospendere le riprese per un po’ perché hanno cominciato a sparare in aria…
Eh, sì. Era una scena a casa Perez. C’era uno che aveva raggiunto un tizio in una Panda con una catena enorme. Gliel’ha sbattuta sul tetto e ha sfondato il tetto dell’auto, si è proprio accartocciato. E dal balcone urlavano minacciando e hanno cominciato a sparare. È così questa città: è violenta. Non è un luogo comune, è violenta.

Nel finale Perez e sua figlia sono finalmente ricongiunti, e si abbracciano mentre in sottofondo si sentono le prime note di Powa dei Tune-Yards. Il testo della canzone recita “Wait for me honey, I will never get to sleep”, e su queste note Perez finalmente si addormenta. Cosa rappresenta per Perez il non dormire?
Lui ha dormito tutto la vita. Ha vissuto in una condizione di torpore, non prendendo mai iniziativa. Quando invece il pericolo bussa alla porta, lui si rende conto che non c’è più tempo per rilassarsi e per dormire. Adesso deve agire. Fin quando non avrà risolto i suoi problemi non dormirà. Quindi il sonno nel finale è un sonno squisitamente catartico: ha risolto, ha salvato sua figlia, finalmente può chiudere gli occhi e addormentarsi. Mentre lei ha deciso che da questo momento in poi gli occhi li terrà bene aperti davanti a sé e solo questo le permetterà un futuro, perciò guarda davanti a sé e guarda in macchina, per un attimo.

Il ristorante sembra ancora più deserto, a guardare i tavoli vuoti che si specchiano nella grande vetrata in fondo alla sala. L’unica presenza costante sono i camerieri, che appoggiati in diversi punti del ristorante aspettano con gli occhi fissi su di noi il momento giusto per chiudere il locale. «Mi sento osservato», scherzo rimettendo a posto gli ultimi fogli. «Finito?», mi chiede De Angelis mentre chiudo la cartellina. «Finito». «A posto», mi risponde guardando i camerieri intorno a noi, «Altri cinque minuti… Ci finimm’ a birr’, nun ci scassasser ’o cazz’».
 

Pubblicato su L'Eco del Nulla N.3, "Indagini e ricerche", Autunno 2015
Acquistabile online su Diogene Multimedia


Commenta