I figli di Cuarón

Influenze e contaminazioni di una distopia senza fantascienza

Quando uscì, nel 2006, I figli degli uomini, oltre ad essere la definitiva conferma internazionale del talento del messicano Alfonso Cuarón, fino ad allora una promessa, apparve fin da subito come un’opera in grado di rielaborare in un’ottica a cavallo tra la fiaba e la distopia tematiche dalla portata sociale e politica enorme. Rivisto oggi, il film non appare semplicemente come un’opera capace di raccontare lo stato delle cose e di dare una lettura della contemporaneità, ma soprattutto dà l’impressione di essere stato un’opera preveggente in grado di anticipare problematiche e tensioni che da lì a pochi anni sarebbero esplose definitivamente e con conseguenze ancora oggi da stabilire con certezza. Se nella realtà le questioni politico sociali erano, per usare una metafora un po’ facile, dei venti, nel film di Cuarón erano rappresentate come tempeste; e presto sarebbero diventate tempeste anche nella realtà. Si veda su tutte la questione dei migranti e degli spostamenti epocali di persone, la questione connessa del razzismo e dell’intolleranza nei loro confronti, il terrorismo, la tensione sociale e, più tra le righe ma altrettanto fondamentale, la sensazione di una totale sfiducia nel futuro, simboleggiata dall’impossibilità di fare figli e dall’assenza di bambini. I figli degli uomini è una distopia senza fantascienza, ed è anche probabilmente il film più realistico del filone che negli ultimi 15 anni, declinandolo in vari modi, ha immaginato un futuro in qualche modo apocalittico. Non ci sono, per dire, macchinari futuristici, robot, innovative scoperte scientifiche e tecnologiche; non c’è un mondo fisicamente devastato e stravolto, né contesti ambientali rivoluzionati dalla tecnologia. Dalla sporcizia nelle strade ai treni della metropolitana e ai tipici bus ai due piani londinesi, fino alla tavola calda in cui avviene la sequenza iniziale passando per l’interno delle abitazioni, tutto appare in qualche modo contemporaneo e reale, solo un po’ più squallido, sporco e grigio, sensazioni esaltate dalla splendida fotografia di Emmanuel Lubezki. Tutto, per quanto torvo, appare plausibile e quasi quotidiano, anche senza dover accendere la sospensione dell’incredulità e la fiducia nella capacità di essere metafora tipica della fantascienza e delle distopie. È come se Children of men avesse fotografato il presente ponendo la luce sui suoi aspetti peggiori, provando a immaginare cosa sarebbe successo se non vi si fosse posto un rimedio.
 

È come se I figli degli uomini avesse fotografato il presente ponendo la luce sui suoi aspetti peggiori, provando a immaginare cosa sarebbe successo se non vi si fosse posto un rimedio


Cuarón racconta questa distopia con uno stile estremamente virtuosistico e quasi barocco, in particolare nell’ultima parte, quella decisiva ambientata nel ghetto e nella quale la definitiva esplosione dei problemi sociali si accompagna alla rivelazione del miracolo e al sacrificio di Theo. Famosi sono infatti i lunghi e mobili piani sequenza che caratterizzano quest’ultima parte, con la macchina da presa che pedina la coppia di protagonisti documentando l’esplosione delle varie questioni politico e sociali. Children of men è in gran parte un film di regia, in cui (per dirla banalmente e sinteticamente) lo stile ha un ruolo fondamentale. Allo stesso tempo però è anche un film in cui il furore stilistico si sposa perfettamente con il senso tematico e il significato più profondo dell’opera, un esempio di come regia e tematica, significato e significante, vadano di pari passo e debbano sorreggersi a vicenda.
È sostanzialmente per questi due motivi – per la lucidità preveggente e per lo stile che esalta questa preveggenza – che I figli degli uomini è diventato un’opera seminale, fondamentale non solo per il filone distopico. Il film di Cuarón è stato negli anni in grado, come tutte le opere capaci di fare epoca, di influenzare anche film diversi, di vario tipo, indirettamente in singole scene e sequenze.

Si prenda per esempio Madre! di Darren Aronofsky. Tra le varie chiavi di lettura che il discusso film ha stimolato, c’è quella secondo cui il regista d’origine armena abbia accentuato una tematica fondamentale della sua poetica: l’ossessione che macera dall’interno i protagonisti. Tematica che in Madre! viene portata alle estreme conseguenze, non dando punti di riferimento né interni ai personaggi, né esterni agli spettatori. La protagonista interpretata da Jennifer Lawrence è ossessionata dal fatto di aspettare un figlio. Ossessione che acquista varie sfumature: ci sono il ridicolo e il comico, l’angoscia e il terrore, la paranoia e la follia e c’è l’ossessione, per così dire, “politico-sociale”, nella quale i timori più intimi si legano ai timori sul destino dell’umanità e su quello che accade ogni giorno sul nostro pianeta. Quando le celebrazioni per il nuovo libro del marito degenerano, tutte queste sfumature dell’ossessione, che messe insieme compongono un’interiorità divorata, si mischiano ed esplodono contemporaneamente. Compresa ovviamente quella dal substrato “politico-sociale”. E non manca una scena che richiama direttamente il film di Cuarón. Ci sono immigrati, poveri e reietti vari rinchiusi in gabbie, controllati e perseguitati da soldati, in un momento in cui nella casa sta esplodendo una vera e propria guerriglia e interi metri quadri dell’abitazione vengono trasformati in una sorta di ghetto. In questa fase, e particolarmente in questa sequenza, Aronofsky sceglie vorticosi e barocchi piani sequenza con la cinepresa mobile che si immedesima nello sguardo sgomento e terrorizzato della protagonista e nella sua interiorità a pezzi. Il rimando al film di Cuarón è evidente, e per quanto breve quasi filologico. I figli degli uomini viene quindi scelto come modello, tra i tanti citati e rielaborati da Aronofsky, per la rappresentazione di un contesto sociale e delle sue conseguenze sull’interiorità del personaggio. Un contesto reale, o perlomeno più che plausibile, di cui avere paura, proprio come nella sostanza del film del regista messicano.

Anche in un film in cui la distopia è veramente fantascientifica non mancano rimandi a Children of men, come in Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve. Echi del film di Cuarón risuonano per esempio nelle scenografie dell’abitazione di Rick Deckard, nella quale le vestigia della cultura e dell’arte occidentale diventano reperti svuotati di senso, quasi un pallido ricordo del tempo e della cultura che furono. Esattamente come nell’“Arca della cultura”, l’abitazione museo in cui ne I figli degli uomini il cugino di Theo cerca di recuperare più oggetti possibile, perlomeno le parvenze più superficiali e i simulacri della nostra storia. Anche in Blade Runner ci sono, inoltre, piani sequenza che rappresentano ghetti, intolleranze e tensioni sociali, ma ancora più profondo e importante è un altro elemento che lega i due film: la questione che ruota intorno alla presenza/assenza del “figlio”, che in qualche modo accomuna anche Madre!. L’assenza del figlio simboleggia la sfiducia nel futuro, la consapevolezza amara di un avvenire torvo e senza orizzonti; l’improvvisa e sorprendente scoperta e l’apparizione del figlio è l’elemento che invece riaccende la speranza. In entrambi i casi con riferimenti religiosi e quasi cristologici (il sacrificio del personaggio interpretato da Ryan Gosling simile al sacrificio di Theo, nomen omen, e i riferimenti all’immacolata concezione nella figura di Kee), e in entrambi i casi in maniera ambigua, con il senso di speranza annacquato dalla costante sensazione di nichilismo e dalla consapevolezza di un destino comunque irrimediabile.
 

Nella rappresentazione e nella consapevolezza da parte del cinema dello delle cose il film di Cuarón è un tassello importante, proprio per il suo realismo di fondo, per il suo essere una distopia senza fantascienza


La sfiducia nel futuro, il timore che le cose non possano che peggiorare e che la strada intrapresa porti alla distruzione è una percezione costante della contemporaneità. Che sia rielaborata dall’arte e dalla cultura o che sia percepita nella vita quotidiana. Anche nella rappresentazione e nella consapevolezza da parte del cinema di questo stato delle cose non particolarmente ottimista il film di Cuarón è un tassello importante, proprio per il suo realismo di fondo, per il suo essere una distopia senza fantascienza. Anche per questo motivo I figli degli uomini può essere considerato un’opera seminale, capace di avere echi anche in film sotto molti aspetti diversissimi, come nel caso dell’ultima fatica di Villeneuve. E come tutte le opere che hanno fatto epoca, la sua influenza si ritrova nei dettagli, nelle singole sequenze come in momenti ancora più brevi, come nell'apparizione di un figlio o nello sguardo terrorizzato di una madre.


Edoardo Peretti


Commenta