Cronaca di una morte annunciata

I problemi di stomaco del Partito democratico non accennano a placarsi

Il candore delle schede bianche e quello della bandiera bianca innalzata da Bersani. Poi il vuoto, l’abisso. In poche ore, gli eventi sono precipitati rovinosamente, e le speranze sono naufragate in Transatlantico, tra gli sguardi sconsolati e carichi d’odio dei democratici. L’Invincibile armata, sicura di trionfare ancor prima di competere, è affondata. E, con lei, gli ufficiali di bordo, mentre l’equipaggio si ammutinava. Prima una, poi, due, poi tre, fino a sei falle si sono aperte nella stiva. Bersani cade nel mare magnum della politica. Adesso, le lacrime di Bersani si mischiano ai flutti.

L’ultimo tentativo di sopravvivenza del Partito democratico è miseramente fallito. Dinanzi all’inequivocabile evidenza, prima Rosy Bindi, poi Bersani, poi l’intera segreteria si è risolta per le dimissioni. Un doveroso mea culpa, conclusione estemporanea di settimane di polemiche e dissapori interni, di stallo e di indecisione. Un’ammissione di colpa della segreteria così improvvisa da lasciare disorientati, nel partito. Si apre un vuoto denso di domande, a cui si tenterà di dare risposta a breve, in qualche modo. Intanto, si pensa ad una reggenza ad interim, ad un direttorio, a un Letta come presidente incaricato, che già la Bindi esclude. Ma la prospettiva della spaccatura del Pd si fa sempre più concreta.

Nell’incertezza di questi mesi postelettorali, Bersani è stato fin dal primo momento un uomo solo. Mentre tentava accordi e concertazioni, i diversi tasselli del partito si muovevano in direzioni contrarie. Tanto da far emergere l’immagine di un partito contraddittorio, oltre che dilaniato all’interno da lotte fratricide, che ne hanno minato le fondamenta in profondità. Perché ogni mossa che il Segretario ha tentato per porre in essere un governo è stata vanificata dalle insofferenze interne dell’una o dell’altra fazione. Le anime del partito, impegnate nella tutela e nell’affermazione dei propri agognati personalismi e delle proprie frivole vanità, non sono state in grado di prevedere una capitolazione che, alla fine, è avvenuta. È così che si spiega il nulla di fatto nel tentativo di alleanza prima con il Movimento cinque stelle, poi col Popolo della Libertà, che più che come una contraddizione, è un misero tentativo di sopravvivenza. Per questo, dopo che il Pd è stato incapace di trovare i numeri per costituire un governo, ha visto la propria débâcle definitiva nell’occasione dell’elezione del capo dello stato.

Prima Marini, poi Prodi. Entrambi caduti sotto un fuoco amico che non ha lasciato scampo. Infatti, non è solo la mossa a sorpresa di Grillo, con la proposta di Rodotà come presidente, ad aver negato qualsiasi possibilità di riscatto al Pd. Sono soprattutto i dissensi interni, schegge impazzite verso ogni direzione, ad aver condizionato la coesione del partito, e ad averlo fatto fallire anche nell’elezione del presidente della Repubblica. Le contrapposizioni sono state sotterranee e alla luce del sole, come nel caso di Renzi, che ha avanzato una proposta differente dai dettami della nomenklatura per garantirsi la pubblica umiliazione di Bersani. Riuscendo nel proprio intento, indiscutibilmente. L’accordo con il PdL, quindi, è sfumato, ma, ancor più gravemente, quello con Vendola che, stizzito, dopo aver reso distinguibili i voti del proprio partito, additando i franchi tiratori seduti nelle fila dell’alleato, ha ripiegato su Rodotà. La perdita di credibilità è manifesta, e la base, che nonostante tutto era rimasta fedele al sogno democratico, composita unione di estremi, ed aveva resistito al dolce canto delle sirene del Movimento di Grillo, si anima di dissenso. Nel clima di insofferenza, alla sesta votazione, riesce a prevalere ancora una volta Napolitano. Ecco pronta la prova inconfutabile della rovina per il Pd.

Si inaugura una grottesca e piuttosto tardiva caccia al colpevole. O al capro espiatorio, secondo i punti di vista. Si fanno conti, si stimano percentuali. “Uno su quattro ha tradito”, sostiene Bersani, uscendo di scena. Ci si guarda vicendevolmente con sospetto, nel Pd. Le defezioni si susseguono, e, nell’incertezza, le correnti prendono ancora più vigore. Per questo qualcuno paventa una scissione del partito in piena regola. Adesso è il momento buono: ci sono tutte le attenuanti. L’area più a sinistra si volge verso Vendola, e l’altra si riunisce sotto il sindaco di Firenze, che dall’esterno osserva compiaciuto lo sfascio – d’altronde, ha sempre ritenuto necessario rottamare. Il da farsi, però, non è chiaro per nessuno. Soprattutto, non è chiaro se sia necessario tentare di porre rimedio alla destrutturazione del partito, considerando conclusa l’esperienza inaugurata nel 2007 da Veltroni, oppure se sia preferibile cercare di salvare ciò che resta, e provare a rimettere insieme le macerie.

Con l’ultima sconfitta, dettata dall’incapacità di calcolo e di unità, però, l’immagine del partito è fortemente compromessa. Il Pd, dopo mesi spesi a combattere inutilmente l’antipolitica e a tentare accordi infruttiferi, sopravvive ora nell’indefinitezza, senza una direzione chiara, né proposte che possano essere discusse per la nascita di un governo. Il problema di fondo, comunque, è che il male che affligge il Pd si sta trasferendo al Paese, giacché è il Pd il principale responsabile della fase di stallo che perdura ormai dalla fine dello scorso Febbraio, e complica le prospettive di ripresa verso cui l’Italia si stava timidamente instradando.
La sfida della costituzione del governo resta ancora aperta, ma le condizioni determinatesi dopo l’elezione del presidente della Repubblica potrebbero servire da input per togliere finalmente il Paese dall’impasse. Non con un governo di scopo, o con un ennesimo governo tecnico, quanto con nuove elezioni, che consentano di mettere di nuovo in discussione gli equilibri. Sullo sfondo, intanto, rimane l’amarezza di Bersani, che esce di scena con qualche lacrima. E di Franceschini, uomo d’azione, che cerca un bastone per rincorrere i “traditori”.


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