I doveri del giovane Kim

O come imparammo a non preoccuparci e ad amare la bomba (nord-coreana)

Partiamo da una premessa: le guerre nucleari non si combattono. Tutt'altro, le potenze lottano fino allo stremo per non combatterle. Dopo decenni di guerra fredda la pantomima della deterrenza è ormai abbastanza sviluppata: visto che il reciproco impiego di armi atomiche comporta la mutua distruzione assicurata, averle, e non usarle, è garanzia di non venire coinvolti in un tale conflitto mentre allo stesso tempo la comunità internazionale considera intollerabile un attacco nucleare nei confronti di uno stato che non le possiede. In effetti, se escludiamo i comunque notevoli conflitti regionali o per procura, la pax nucleare ha garantito la non belligeranza tra le principali potenze. Sembrerà stridente ma il possesso di armi nucleari è stato  senza dubbio a livello globale il più efficace strumento di pace degli ultimi 60 anni.

La logica dello scacco reciproco prevede però che i centri decisionali agiscano in maniera razionale. Al contrario gli “uomini di stato” hanno capito che flirtare più o meno apertamente con i detonatori, insinuando il dubbio nell'avversario, può portare a dividendi politici a breve termine. O anche a goffi autogol, ad esempio il risultato della crisi missilistica cubana può essere interpretato in questo senso senza grandi difficoltà.  Attorno dunque all'inutilizzabile, e nei fatti inutile, arma nucleare prolifera negli anni un vivissimo ecosistema mediatico che invece porta dei frutti concreti, mentre addirittura nell'immaginario collettivo fiorisce grottesca una mitologia nucleare che sfiora le corde più profonde del pubblico pagante, come l'apocalisse artificiale o l'arma divina che redime i nemici peccatori. Potrebbero sembrare toni sensazionalistici, ma per capire appieno le scelte di comunicazione delle potenze nucleari, bisogna considerare più piani: il piano “razionale” del calcolo militare, il piano politico-negoziale dei rapporti interni ed esterni e il piano diciamo mediatico percepito dall'opinione pubblica. Ad esempio, alla luce di tutto questo, riflettere su cosa significhi la commemorazione del primo test nucleare pakistano può essere un buon esercizio. Il 28 maggio nel paese è festa nazionale, in urdu Youm-e-Takbir, let. “il giorno della grandezza”.

Questa breve digressione è la base necessaria per descrivere nel giusto registro la vicenda nucleare nord-coreana che sta alimentando la stampa internazionale, la quale, per la cronaca, non perde occasione per trastullare il pubblico con titoloni pachidermici (questi sì, sensazionalistici) su incombenti guerre “termonucleari”. La notizia è quella di un possibile ed imminente attacco da parte del regime comunista di Pyongyang verso obiettivi militari statunitensi e sud-coreani. Il vertice dell'oligarchia coreana, il giovane Kim Jong-Un, sembra abbia dato l'autorizzazione all'utilizzo delle armi nucleari e alcuni missili Musudan (4000km) sarebbero pronti al lancio, piazzati sulla costa orientale del paese. La risposta non si è fatta attendere con lo spiegamento del sistema di intercettamento missilistico THAAD nell'isola di Guam, una base americana nel pacifico, e l'incremento nella regione della cospicua presenza militare a stelle e strisce, in supporto alle truppe della Corea del Sud, in testa gli F22, i B-52 e il cacciatorpediniere Uss Fitzgerald.

Qualcuno potrebbe chiedersi a questo punto cosa aspetti il giovane Kim ad immortalarsi nella storia, visto che la guerra, e magari la vittoria, sono a portata di mano. La vera domanda è un'altra:  voi iniziereste una guerra che siete sicuri di perdere?
Cerchiamo di analizzare la “minaccia” nord-coreana. Anche ammesso che il regime abbia la tecnologia per colpire il territorio statunitense, cosa di cui molti analisti dubitano, e ammesso che il tentativo arrivi a destinazione evitando i sistemi di intercettamento, cosa accadrebbe? La guerra conseguente (dubbi riguardo la prontezza degli States a dichiarare guerra?) cancellerebbe dalla storia quell'anacronistico buco nero che è la Repubblica Democratica Popolare di Corea e porterebbe ad una probabile riunificazione della penisola sotto la guida del sud. Qualcuno ha additato l'appoggio cinese e il milione di truppe effettive impiegabili da Kim Jong-Un come un ostacolo credibile alla rapida conclusione del conflitto, ma politicamente la Cina troverebbe più di qualche difficoltà ad appoggiare apertamente un'aggressione così macroscopica, mentre chi ragiona in termini napoleonici nel pesare gli eserciti probabilmente non considera quanto conti oggi la tecnologia. Obama forse tirerebbe in ballo cavalli e baionette, basti ricordare che il PIL del regime comunista è stimato intorno ai 40 miliardi di dollari mentre le sole spese militari annue degli Stati Uniti d'America viaggiano intorno ai 700 miliardi di dollari. E penso sinceramente che dopo l'Afghanistan al Pentagono abbiano finalmente imparato la lezione vietnamita.

Ma se abbiamo tolto dal tavolo, o dal copione, la possibiltà di un attacco dei nord-coreani, a cosa stiamo quindi assistendo? Più precisamente, a cosa assistiamo dopo che la fine della guerra fredda ha lasciato orfani gli ultimi stalinisti? Nei fatti l'élite comunista ha deciso di mantenere il paese in un buco nero antidemocratico, una realtà totalitaria e anacronistica, diciamo ferma al 1984.  Non è la sede per parlare della brutalizzazione del popolo coreano, dei campi di internamento (Yodok è un nome infausto), di come la Corea del Nord alimenti il traffico di esseri umani, lavoratori-schiavi e prostitute, in fuga dal regime, di come la corruzione sia parte del regime al punto che personale e mezzi diplomatici siano vettori usuali del narcotraffico internazionale.

Il pingue, e amante (evidentemente da spettatore) del basket NBA, Kim Jong-Un segue la spinta dell'élite militare del paese che pressa per il mantenimento del potere; d'altronde l'aver consacrato il defunto padre del regime, Kim Il-Sung come “Presidente Eterno”, tecnicamente prima carica dello stato, non è proprio un segno di apertura al cambiamento. Dunque per Kim recitare la parte del dittatore, oltre che per dover di pedigree, rientra nella logica del mantenimento del potere  interno, sia verso la popolazione, sia verso la stessa élite militare a capo del paese. E lo stato di guerra (nel 2009 da Pyongyang hanno dichiarato nullo l'armistizio del 1953), la costante mobilitazione dei cittadini tutti coinvolti in attività belliche e i mezzi di repressione sono un ottimo collante per l'unità nazionale.
In secondo luogo le eclatanti provocazioni nucleari possono essere inquadrate nell'ottica della capacità negoziale del paese sul piano internazionale. Costringere, ad esempio, gli Stati Uniti ad intraprendere dei negoziati diretti in seguito alle provocazioni rappresenterebbe una vittoria per Kim, visto che il suo comportamento  aggressivo sarebbe alla fine ricompensato con accordi bilaterali, magari accompagnati dalla sospensione delle sanzioni o da agognati aiuti economici, specialmente alimentari. Ad esempio, l'annuncio degli scorsi giorni di riattivare il reattore nucleare e il centro di arricchimento dell'uranio di Yongbyon, potrebbe portare, si stima nel giro di un anno, all'incremento delle scorte di materiale fissile necessario alla produzione delle testate (ma come? e i missili puntati?), quindi all'incremento della capacità di deterrenza dell'arsenale. Una produzione questa a cui i coreani potranno poi rinunciare a malincuore, come fecero nel 2007, magari dietro la promessa della sospensione delle sanzioni.

Se quindi i dati di fatto parlano chiaro, come l'assenza della mobilitazione di massa dell'esercito, e se le interpretazioni proposte sono veritiere, le possibilità di un'imminente guerra “termonucleare” sono piuttosto esigue. Nonostante alcuni osservatori ipotizzino nuovi test balistici per il 15 aprile, anniversario della nascita del Presidente Eterno, è improbabile che l'acuirsi della crisi diplomatica sfoci in un conflitto che nessuna delle parti vuole.
L'unica guerra che andrà avanti sarà probabilmente quella dei pachidermici titoli delle agenzie che si calpesteranno a vicenda per fornire l'ultimo aggiornamento sulla tragicommedia coreana, la prossima volta che sentirete barrire il titolo di un'agenzia volgete un pensiero all'attore protagonista di questa farsa, il giovane Kim Jong-Un, caricatura di se stesso, costretto a leggere un vecchio copione stinto e ad indossare un'uniforme di una taglia sbagliata, invece di godersi i Chicago Bulls in prima fila.
E poi pensate agli altri, a quelle 24 milioni di “comparse” che abitano nella Repubblica Democratica Popolare di Corea.


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