Per credere in qualcosa

Smarrimento generazionale e sperimentazione del film Non credo in niente nell’intervista al regista Alessandro Marzullo

La prima volta che ho incontrato Alessandro Marzullo, assistente alla regia e regista modenese classe ’93, è stato nella sua casa a Roma, vicino a Piazza Bologna. Ci siamo incrociati in salotto e abbiamo mangiato una pizza da asporto su un grande tavolo di legno, insieme a Mara, un’amica di entrambi, e a Demetra, un’attrice che sapevo stava collaborando con lui. Correva voce che stesse lavorando a un progetto folle, un film underground girato per le strade di Roma di notte, in pellicola, nel corso di un anno. Per le parole con cui mi veniva raccontato, sembrava uno di quei progetti sperimentali che non vedono mai la luce, su cui si lavora per tanto tempo finendo per perdere la spinta iniziale, il motore che li muove, a volte anche il fuoco. E che presto precipitano in un limbo da cui non escono più. Non è stato il caso del suo film.
Non credo in niente, affresco generazionale prodotto da Daitona e Flickmates e presentato in anteprima alla 59esima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, è uscito nelle sale italiane nel settembre del 2023 e ancora gira per i cinema d’Italia, accompagnato dal regista e dal suo cast. Il film racconta i trentenni di oggi attraverso le storie di sei personaggi: una coppia di musicisti in crisi – il violinista di Mario Russo e la pianista di Renata Malinconico – divisi tra ambizioni frustrate e il lavoro in un ristorante che odiano, due amici – il motociclista di Giuseppe Cristiano e il meccanico di Gabriel Montesi – che passano il tempo insieme senza neanche sapere perché, un lui e una lei – il receptionist di Antonio Orlando e la hostess di Demetra Bellina – che si incrociano di notte in un locale e iniziano a vedersi.

Quando si scrive un film del genere immagino si abbiano in mente i volti degli attori che si vogliono coinvolgere. Quali erano per te gli interpreti indispensabili e quali invece sei andato a trovare?
C’era Giuseppe Cristiano, il motociclista, che era mio coinquilino all’epoca, abbiamo fatto esperienze di cinema insieme, ma oltre a lui non avevo facce quando ho pensato al film. Non c’era una sceneggiatura quando ho cominciato a metterlo in piedi: era una cosa voluta perché prima volevo individuare gli interpreti e poi sviluppare le mie idee su di loro. Il percorso è iniziato ricercando gli attori. Il primo che ho incontrato è stato Mario Russo, che avevo visto in un cortometraggio: ho cercato di capire chi fosse, quali fossero le sue capacità nascoste – suona il violino, è un’acrobata – e se era il tipo di persona che si potesse caricare sulle spalle il film, perché gli stavo proponendo un film guerrilla. Il film, nelle mia testa, nelle fasi iniziali, era ridotto alla linea narrativa della coppia, ma ho continuato a svilupparlo e nel momento in cui ho preso lui il film era già diventato un film corale. C’erano Mario, Giuseppe, Demetra che avevo conosciuto qualche anno prima e con cui ho fatto lo stesso lavoro: è una cosa che non ho fatto solo con loro, ma anche con altre persone che non ho preso nel film.

Non le hai prese perché non erano giuste per il ruolo o perché non si sarebbero caricate sulle spalle un progetto del genere?
Non le ho prese perché viaggiavano su altre frequenze. Prediligevano un altro tipo di situazione produttiva, altri film, erano molto schiacciati su cose che a me non interessano. Stavo facendo tanta fatica ad introdurli a un altro modo di fare cinema: Cassavetes, Wong Kar-wai, il primo Lynch, i primi Scorsese, Rossellini, anche Fellini. È un discorso di umanità, laddove io trovavo terreno fertile a livello umano mi convincevo. Li incontravo, ci parlavo molto, con gli attori abbiamo fatto anche una residenza prima di girare il film, siamo stati una settimana tutti insieme.


Renata Malinconico e Mario Russo sono una coppia di musicisti in Non credo in niente (2023)

 

Più che un casting hai fatto un’indagine umana.
Sì, un’indagine umana. Cosa che mi piace molto.

È in quest’ottica che avete pensato alla residenza?
La residenza è nata perché Lorenzo Lazzarini, che fa il paninaro nel film, aveva una casa al mare, abbastanza isolata e abbastanza grande da poterci dormire tutti. È una cosa brutta quando gli attori li vedi alla prova costume e poi boom! arrivano direttamente in scena: sei freddo tu e sono freddi loro. Noi siamo stati lì con gli attori e con le altre figure fondamentali del film – il co-produttore, l’aiuto regista, il direttore della fotografia – ma di fatto non provavamo le scene: facevamo giochi, stavamo insieme.

La cosa che si percepisce, in Non credo in niente, è l’adesione totale delle persone che ci sono dentro. È un film in cui si sente un coinvolgimento qualcosa, di umano e di artistico, completo. Nella regia, nelle modalità produttive, nella vivida fotografia del polacco Kacper Zieba, nelle musiche avvolgenti e appassionate di Riccardo Amorese, nelle interpretazioni di un cast in parte, in grado di restituire con grande efficacia la frustrazione di una generazione. C’è una gabbia che rinchiude i personaggi, che li comprime e li reprime, che il film rappresenta con la solitudine dei personaggi, con silenzi spezzati quasi unicamente dalla frequentazione notturna del paninaro di Lorenzo Lazzarini, con la mancanza di dialogo al di fuori della generazione stessa.

Una delle cose interessanti nella rappresentazione di questa gabbia è che tu rimani quasi sempre dentro quella generazione e quando mostri un rapporto con un’altra generazione il rapporto è sempre di distanza o di conflitto.
Tutto il film è fatto con un approccio di scrittura che evidenziasse le cose che non ci sono o non sono incluse, tra cui il rapporto con le persone di un’altra generazione, come i genitori. Volevo rappresentare il modo in cui i personaggi vedono il mondo, e siccome non hanno rapporti con persone di altre generazioni – magari hanno rapporti con i genitori ma sono così superficiali che non li percepiscono come rapporti stretti, una vicinanza – allora non li vedono, quindi non ci sono nel film. Il film è verosimile nella messinscena ma è espressione dei loro sentimenti. Le ragazze con cui va a letto Giuseppe, tranne una, non si vedono in faccia: l’ultima che si vede forse non esiste neanche, non a caso è molto più onirica quella scena. Il paninaro stesso è allucinatorio, è un grillo parlante.


Il regista Alessandro Marzullo con Demetra Bellina durante le riprese sul set del paninaro

 

Il paninaro nel parcheggio notturno sembra quasi una stazione metafisica, dove i personaggi si incrociano.
È metafisico, sì. Volevo mostrare i loro pensieri, volevo mettere in scena loro all’interno dei loro pensieri. E quindi quando c’è un personaggio più grande è frustrante, è doloroso. La scena del proprietario del ristorante che insulta uno dei protagonisti è presa da una scena che purtroppo ho visto realmente: un amico lavorava in un ristorante e il proprietario gli diceva quelle cose e lo trattava peggio di come viene mostrato nel film. A vederla è quasi comica, grottesca, perché lui in realtà non soffre, non è drammatica, è quasi irrilevante che lui gli urli quelle cose per quanto non gli interessa più niente del giudizio di quelle persone che la sua generazione non l’hanno mai compresa.
Penso che le generazioni precedenti non comprendano assolutamente la nostra generazione, che è la nostra ed è diversa da quella di chi è più giovane di noi, e soprattutto non si sono mai sforzati di avvicinarsi o di capirla, ma l’hanno sempre vista con giudizio. Per i miei personaggi quindi, dato che nella vita non sono mai riusciti ad entrarci in contatto con i componenti della generazione più anziana, nella loro vita non esistono, fine.

Questa assenza di dialogo, che è non solo di una coppia ma di una generazione, è uno dei temi portanti del film. È anche il centro del rapporto tra il motociclista e il meccanico: un personaggio che parla continuamente e uno che non apre bocca. Mi sembra che racconti il conflitto che c’è tra la voglia di dire qualcosa e il non sapere che cosa si vuole dire.
Non è che quel personaggio non sa cosa dire, è che come tutti gli altri personaggi ha così tanto da dire, così tanto da dare al mondo da non riuscire, per come è fatto lui e per come è fatto il mondo, a tirarlo fuori. Oggi il mondo è cinico, è tutto dritto al punto. Invece la vita e le persone non sono così, le persone sono un movimento, ma se tu le chiudi in gabbia quando escono sono disadattate. I personaggi di Non credo in niente sono ingabbiati, perché sono liberi ma in realtà non sanno in che direzione andare. Il motociclista va sempre in giro con la moto, ma dove va? Non va da nessuna parte.
 

Oggi il mondo è cinico, è tutto dritto al punto. Invece la vita e le persone non sono così, le persone sono un movimento


Non è che non hanno niente da dire o non sanno come dirlo: ha perso il senso pure parlare. Hanno paura di essere incompresi, di essere giudicati male, di vedere che tutti i loro sforzi non servono a niente. E poi il motociclista con chi si ritrova a dire la verità? Con l’amico che sta peggio di lui e fa la stessa cosa al contrario: parla parla parla, ma parla per non ascoltarsi.
La verità è che il mio film racconta una presa di coscienza. Puoi scopare chiunque, ma non stai avendo rapporti con nessuno. Puoi parlare tanto, ma non stai parlando con nessuno. Se stai in silenzio, a nessuno interessa. È un film sulla presa di coscienza dei personaggi e finisce quando sono pienamente coscienti del fatto che la vita, come l’hanno condotta fino a quel punto, li sta portando in un tunnel senza uscita. Credo che questo sia positivo. Poi nel momento in cui prendono coscienza il film finisce, perché il film è proprio espressione del contemporaneo, e io il futuro non lo so com’è.

Che cosa volevi raccontare attraverso la scelta di più linee narrative, a coppie di personaggi?
In fase embrionale il film era soltanto con una coppia, ma questo faceva sì che i problemi che metteva in scena fossero quelli di quella coppia specifica, come se il film raccontasse i problemi delle coppie, delle relazioni sentimentali. Invece io volevo raccontare un problema generazionale. È una cosa collettiva, non è un fatto personale.
Ogni coppia ha le sue sfumature: quelli che sono già in coppia, quelli che la devono trovare, un altro che vive nel sesso. Così ho potuto dare più sfumature e rendere Non credo in niente un discorso collettivo. Questa è stata la prospettiva che mi ha fatto aprire il ventaglio del film. Una prospettiva che si sposava anche con le questioni produttive.

A livello produttivo come ti sei mosso per costruire il film?
Prima di Daitona, che ha co-prodotto il film, conoscevo alcune piccole produzioni a cui ho cominciato a proporre questa follia dicendo “Metto i primi 5mila euro io, per girare quattro giorni. È un progetto sperimentale e lo voglio fare così”. Ho avuto resistenza da tutti, anche da Daitona, ma con il fatto che volevo Lorenzo Lazzarini come attore ho fatto leva su di lui, che ne fa parte. E poi con un gruppo di amici ed ex colleghi di accademia abbiamo raccolto il budget dei primi quattro giorni di riprese.


Il regista Alessandro Marzullo, al centro, tra il motociclista interpretato da Giuseppe Cristiano e l’amico interpretato da Gabriel Montesi



Quale parte del film avete cominciato a girare?
In quei quattro giorni ho girato cinquanta minuti del film, perché sapevo che mi stavo giocando tutto. Ero indemoniato, non dormivo da… da mai. Non dormi, sei stanco, dici follie, la spari grossa, spingi tutti a dare di più, non dormi, ti sale l’adrenalina. Giravo di notte e durante il giorno non dormivo, preparavo. E quando sono finiti i primi quattro giorni di riprese non sono riuscito a dormire per un’altra settimana. Abbiamo girato veramente in grazia di Dio, devo dire la verità, nonostante un giorno perso perché venne giù il diluvio universale.

Quindi in tre giorni avete girato cinquanta minuti di film!
Sì, assurdo. Adesso che l’ho portato in giro ovunque, ho parlato con mille giornali, mille critici, mi rendo conto che questa cosa qui non arriva. Non gliene frega un cazzo a nessuno che il film sia fatto con così poco, non so per quale motivo.

È un fattore con cui credo che chiunque in questo settore debba fare i conti, il fatto che il pubblico e i critici guardano il film. Cioè questo è un film: che tu l’abbia fatto con 3 euro o con 30 milioni non cambia niente.
Ma è sbagliato secondo me. Non deve essere una motivazione preponderante nel giudizio, ma è una parte dell’informazione del film.

Così come deve essere parte dell’informazione il fatto che sia stato girato in soli 13 giorni.
Non è una cosa a difesa del film, ma è una cosa specifica del prodotto. A me piacciono molto i film fatti così, che sono probabilmente anche i film che mi hanno portato a decidere di fare Non credo in niente. Mi piace sapere che Lynch ha fatto così il suo primo film, con una parte dei risparmi, in cinque anni. Per me è parte del bello di quel film, perché questa impostazione porta con sé un’estetica diversa, una narrazione diversa. Ti chiedi “Perché l’ho vista solo in quel film, quella cosa lì, e non la ritrovo negli altri?”: proprio per la natura di come è stato realizzato.

È vero che la cosa che viene tolta dalla considerazione, nella valutazione, è la parte produttiva. Perché Clerks ha quell’estetica lì? Perché Eraserhead di Lynch ha quell’estetica lì? Perché Following di Nolan ha quell’estetica lì, che non è l’estetica di Batman Begins?
Esatto. C’è anche chi dice “Io vorrei prendere quell’estetica e metterla in un film impostato come un prodotto classico”, quando in realtà non ti verrà mai così, perché quell’estetica dipende da tutti questi fattori: i rapporti umani, le condizioni, la stanchezza, la follia, la necessità di ragionare in una maniera diversa per trovare soluzioni.

Questi primi quattro giorni di riprese immagino siano diventati il cuore di Non credo in niente, intorno a cui hai costruito il resto del film. Quali parti del film avete girato?
C’erano molte tra le scene più belle del film. La scena in officina tra Gabriel e Giuseppe, Demetra che canta, il litigio con il proprietario del ristorante, la scena in cui Mario suona da solo. C’erano alcune delle cose più evocative del film. Si vede che è completamente fuori di testa, mentre nelle parti successive ero più in controllo.

Sicuramente nella sequenza al ristorante questa follia si sente.
Esatto. Pensa che era l’ultimo giorno di riprese e ci erano rimaste tre pizze di pellicola per tutto il giorno, mentre i giorni prima ne avevamo usate otto al giorno. Mi è uscito il diavolo in corpo e abbiamo finito che ci era rimasta ancora una pizza. Quel giorno abbiamo fatto due piani sequenza – lui che prende in giro il capo, il capo che litiga con lui –, la scena di Giuseppe e Gabriel dal meccanico e il camera car con la moto. Ed è rimasta una pizza! Sono solo due minuti di film: ho fatto quattro ciak, ma l’ho provata venticinque volte.

Questa è un’attitudine che si sta perdendo, con il digitale. Di solito invece che fare venticinque prove e quattro ciak batti venticinque ciak di cui diciannove sono prove.
Però sono prove in cui non ti stai concentrando su nulla, perché un po’ devi aggiustare la fotografia, un po’ la recitazione… “Pensa di girare in una certa maniera!”. Sennò ti viene da girare tutti i piani – il largo, il medio, lo stretto, il dettaglio – però così diventa anonima. Secondo me i limiti fanno bene alla creatività. Per me è stato il leitmotiv del film: ho scoperto delle cose di me, e anche del cinema, che io prima non sapevo, perché non sono scritte sui manuali.
 

I limiti fanno bene alla creatività. Per me è stato il leitmotiv del film: ho scoperto delle cose di me, e anche del cinema, che io prima non sapevo


Mi viene in mente una domanda che mi ha fatto un ragazzo dal pubblico qualche giorno fa: “Se tu dovessi rigirare il film, lo rifaresti uguale?”. Gli ho risposto: “Rifarei il film con lo stesso atteggiamento, ma probabilmente verrebbe sempre diverso”, proprio perché è fatto con quell’atteggiamento lì. Molte persone non capisco che un film non è fatto a tavolino, non capiscono il fatto degli incontri, di quello che succede lì per lì, che gli attori sono materia umana e non sono burattini…

E che il film è un prodotto tangente del momento esatto in cui lo filmi.
Soprattutto il mio! Molti vanno al cinema pensando che il cinema sia una certa cosa: “Il cinema è solo Wim Wenders” oppure “Il cinema è solo Wong Kar-wai”. Non solo il pubblico, addirittura dei critici hanno scritto “Ha il merito di sperimentare, ma comunque dovrebbe rispettare le regole”. Ma scusa, mi dici che ha il merito di sperimentare e poi che deve rispettare le regole: se sperimenti sperimenti. E se poi tu da un prodotto sperimentale ti aspetti che sia integro, simile a quello che hai già visto prima, sei fuori strada. È anche questo che mi viene imputato: “Il cinema del passato, anche indie, ha le sue regole”. Io non ce le ho queste regole, non me le hanno date. Non ne ero a conoscenza.

Che cosa cercavi lavorando in pellicola e con quelle scelte cromatiche? Con quest’estetica, che cosa volevi raccontare?
Io penso che quando si fa un film, se le motivazioni che ti portano a farlo sono genuine, si punta a riproporre qualcosa che ci è piaciuto. A me i film in pellicola piacciono di più, è proprio un fatto di gusto. È come un pittore che ha la tela davanti e sulla tela può usare l’acrilico, l’acquerello, la tempera oppure l’olio. È un punto che si raggiunge anche facendo: alcuni corti li ho fatti in digitale, qualcos’altro in Super 8, e ho scelto un’estetica con cui mi trovo di più. Questo è stato il punto di partenza.

C’è poi il fatto che in questo periodo storico i film sono quasi tutti uguali, come base estetica, perché si tende a copiare la fotografia che va di più in quel momento, quindi mi piaceva usare la pellicola come tratto distintivo. C’è il fatto che il tema è contemporaneo, quindi per dargli un tono più poetico, per astrarlo dall’immagine con cui noi vediamo il contemporaneo, che è un’immagine digitale, come quella del nostro smartphone, volevo che lo spettatore avesse un’esperienza di visione diversa. Per raggiungere il contemporaneo allontanarlo dai mezzi del contemporaneo.
 

Ho scelto la pellicola anche per astrarlo dall’immagine con cui noi vediamo il contemporaneo, che è un’immagine digitale


In più la pellicola dà una pasta molto sporca all’immagine, racconta una vita sporca, cioè rovinata ma bella allo stesso tempo, che è quella della città dov’è ambientato il film e dei personaggi. Sono persone che si interrogano, persone profonde che però sono sporcate dal mondo in cui vivono, sporcate dalla vita che hanno fatto, dalle illusioni e dalle frustrazioni che hanno, ma che mantengono sempre qualcosa di poetico. Suonano, hanno l’arte dentro, sono dei poeti in un certo senso. E la pellicola, con quei suoi graffi, con quei colori così organici, alla vista poteva restituire subito questo discorso. E infine c’è il limite che ti impone la pellicola, perché con le pizze i rulli finiscono, imponendoti quindi di trovare la regia, di capire cosa è giusto inquadrare per te in quella scena.

Non credo in niente lavora proprio forzando questi limiti, le barriere linguistiche e spettatoriali canoniche. È un film sperimentale nel linguaggio e nell’approccio, nella volontà di farsi esperienza emotiva prima che narrativa, nel tentativo (riuscito) di raccontare senza storia. È un film sperimentale non per il fatto che usa la pellicola, ma per come la usa.

Tre anni fa era molto più fuori moda di adesso. Avevo la gente che mi urlava addosso e diceva che la pellicola non la facevano più, che non la sviluppano, tutte cazzate. A Roma si sentono sempre cazzate incredibili da gente che fa questo mestiere da decenni. Tutti mi hanno sconsigliato di farlo, tutti. Dal primo all’ultimo. Tranne il direttore della fotografia.

Perché sconsigliato addirittura?
Mi dicevano: “Non serve a niente!”. Addirittura mi dicevano: “Ma si vede meglio in digitale!”.

Questo che racconti è un modo di fare cinema. La cosa surreale è che in questo settore sembra che ci sia solo un modo in cui si possa fare cinema.
C’è un atteggiamento prevalente che riguarda tutto, non solo il cinema: “Le cose si fanno così”. Perché?

E infatti, Alessandro, le cose le ha fatte a modo suo. Ha cercato i personaggi negli attori e non gli attori per i personaggi, ha lavorato senza aiuto regista perché al momento dell’inizio delle riprese non ce n’era uno disponibile che conoscesse il progetto a sufficienza. E invece che comprimere la produzione in settimane continuative, pur di arrivare a ciò che voleva ha girato quattro giorni nel settembre del 2020, quattro nel maggio del 2021, altri cinque nel giugno dello stesso anno.

Se dovessi raccontare un episodio che per te incarna quello che è Non credo in niente quale sarebbe?
Ce l’ho, ce l’ho. Quando dovevamo fare le riprese in metro, fatte di straforo, io ero molto teso, perché non era cosa da poco. Quel giorno però c’era Italia-Spagna degli Europei 2021, o forse Italia-Belgio, insomma giocava la nazionale e a nessuno fregava niente di noi. In giro c’era grande euforia, ma in metro non c’era nessuno. All’epoca c’era l’obbligo della mascherina, quindi avere le persone con le mascherine in faccia sarebbe stato un problema. E invece era vuoto.
Le riprese del film erano già finite, la scena in metro l’abbiamo girata il giorno dopo, ma tutti quelli che hanno lavorato al film – la costumista, gli amici, gli altri attori che non erano in scena – sono venuti con noi, abbiamo bevuto uno spritz e poi ci siamo messi in metro tutti insieme. Questo era lo spirito di Non credo in niente: fuori dal piano di lavorazione, riprese già finite, tutti rimangono attaccati al film e lo vogliono girare, in metro, dove non si può fa’.


 

Non credo in niente sarà a Firenze mercoledì 24 gennaio al cinema Spazio Alfieri
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