La guerra inizia con il silenzio

Gli orrori dell’esercito russo in Ucraina e il potere del racconto nel documentario premio Oscar 20 Days in Mariupol

Mariupol, Ucraina, venerdì 11 marzo 2022. Dal settimo piano di uno degli ospedali cittadini l’immagine è quella di un panorama livido, dove il cielo che grava sui condomini sembra preannunciare il destino plumbeo della città. La voce concitata di un soldato ucraino induce l’operatore a spostarsi all’interno: «Segnale 112, dall’ospedale numero 2: ci sono dei carri carmati con la lettera Z». Soltanto pochi giorni prima il ministero della difesa russo ha pubblicato un post su Instagram per spiegare che la Z è abbreviazione della frase za pobedu, «per la vittoria», ma nella città ucraina la connessione internet è assente e la notizia sembra ignota: tutte le comunicazioni da e verso l’esterno sono bloccate dal 2 marzo. Quali siano le intenzioni del cingolato è però chiaro a tutti: riaffacciatasi furtiva dalla finestra dell’ospedale, la cinepresa inquadra il mezzo corazzato che ruota il cannone. «Via via, veloci!» urla il soldato, mentre la camera a mano sobbalza come nel found footage di un film horror, ma ciò a cui stiamo assistendo non è finzione, bensì la verità della guerra raccontata dal giornalista Mstyslav Chernov e dai suoi operatori Evgeniy Maloletka, Vasilisa Stepanenko e Lori Hinnan, vincitori del Premio Pulitzer 2023 per i loro reportage sull’assedio di Mariupol.
 

«Via via, veloci!» urla il soldato, sembra il found footage di un film horror, ma ciò a cui stiamo assistendo non è finzione, bensì la verità della guerra


Da questo straordinario lavoro sul campo, condotto a rischio della vita mentre tutti gli altri giornalisti del mondo avevano già lasciato la città, nasce 20 Days in Mariupol, prodotto dal network statunitense PBS-Frontline in collaborazione con l’agenzia di stampa internazionale Associated Press. Il lungometraggio, apparso in pochi festival italiani e in distribuzione in sale selezionate, è fresco vincitore ai BAFTA e agli Oscar 2024 , dove era candidato come miglior documentario: una scelta coerente con la storia dell’Academy, abituata a distinguere fiction e reality, ma meno coraggiosa rispetto alla candidatura per il miglior film internazionale proposta originariamente dalla commissione artistica ucraina. Che l’opera abbia il passo del grande cinema è infatti evidente fin dalla scena del carro armato con la Z, posta in apertura del film ma in realtà relativa al sedicesimo dei venti giorni raccontati da Chernov e dai suoi operatori: una sconnessione tra l’ordine cronologico della fabula – in seguito sempre rispettato – e la priorità artistica dell’intreccio che ha precedenti illustri e che rappresenta la ‘firma’ di Michelle Mizner, maestra del montaggio documentaristico, già vincitrice dell’Emmy 2015 per l’opera interattiva Inheritance.

«Qualcuno mi ha detto: la guerra non inizia con le esplosioni, inizia con il silenzio»: si apre così la narrazione del giorno 1, il fatidico 24 febbraio 2022, data dell’invasione russa in Ucraina. Dal veicolo dei reporter la telecamera inquadra un lungo viale impavesato di bandiere azzurre e gialle, mentre il silenzio irreale della mattina è interrotto soltanto dal ticchettio del tergicristalli sul parabrezza. La troupe è appena giunta a Mariupol, porto strategico sul mar d’Azov, centro industriale fra i più importanti del paese e capoluogo della regione di Doneck, che assieme a quella del Lugansk forma il cosiddetto ‘Donbass’. Un’ora dopo la telecamera inquadra i resti di un sistema satellitare di difesa completamente distrutto dai missili di Mosca; poco più tardi, dall’altra parte della città, le immagini mostrano Chernov che in totale buona fede rassicura una signora disperata per il ritardo di suo figlio, non ancora tornato dal lavoro: «Non si preoccupi, non attaccheranno i civili!». La previsione si rivelerà tragicamente errata: due giorni dopo, quando la menzogna putiniana della «operazione militare speciale» sarà ormai crollata, i due si reincontreranno all’interno di un rifugio sotterraneo, l’una in lacrime per la perdita del figlio, l’altro costretto a porgere le sue scuse per l’ingenuità dimostrata.
 

Mentre in Italia va in onda la sagra delle “ragioni di Putin”, sugli schermi dei paesi civili le immagini di ambulanze cariche di feriti, ospedali tracimanti di pazienti, case incendiate dalle bombe


Lo stesso giorno, quasi a espiare la sua colpa, Chernov invierà ai network statunitensi i primi video di Mariupol bombardata dai russi, prontamente ribattuti dai canali televisivi di mezzo mondo con la sola eccezione dell’Italia, grande assente per tutta la durata del documentario. Mentre da Rai Tre a La7 va in onda la sagra delle “ragioni di Putin”, sugli schermi dei paesi civili scorrono quindi le immagini di ambulanze cariche di feriti, ospedali tracimanti di pazienti, case incendiate dalle bombe, sotterranei di palazzi convertiti in bunker improvvisati, ragazzini che fra le lacrime singhiozzano «non voglio morire», cadaveri ai margini delle strade, infermieri che tentano invano di rianimare un bambino con il massaggio cardiaco, cittadini russofoni che imprecano Putin e bramano di rimanere in Ucraina – in barba alla volgare dezinformatzija sul ‘popolo del Donbass’  che avrebbe atteso l’arrivo dei ‘liberatori’ –, medici che gridano ai giornalisti «filmate tutto!», così da documentare l’orrore e divulgarlo al mondo intero.

La risposta dell’esercito nemico non si fa attendere: il 2 marzo, a una settimana esatta dall’inizio del conflitto, tutte le reti elettriche sono distrutte e il segnale internet è assente. Per i cittadini di Mariupol, isolati dal resto del pianeta, inizia il conto alla rovescia verso la catabasi; per la troupe di Chernov, impossibilitata all’invio di ulteriore documentazione video, comincia la caccia alla connessione web: una ricerca disperata che in 20 Days in Mariupol assume la forma di un meta-documentario sul ruolo dell’informazione nel racconto della storia contemporanea.

Così, quando la sera del 6 marzo i giornalisti ucraini riescono per trenta secondi ad agganciare una cella telefonica, d’improvviso il mondo intero ritrova parole e immagini dalla città assediata: case abbattute, negozi di giocattoli disintegrati, genitori che piangono il loro figlio sopra una barella coperta da lenzuola imbrattate di sangue, infermieri che continuano a lavorare nonostante la penuria di garze e medicine e la totale assenza di acqua, luce, gas e connessione internet; la morte è ovunque e all’angolo di un parco giochi assume le sembianze di un paio di scarpe insanguinate, unica traccia rimasta di un sedicenne completamente evaporato dall’esplosione di un missile russo. Un massacro pianificato e sistematico di civili che tocca il suo culmine il 9 marzo, quattordicesimo giorno dall’inizio del conflitto, quando una bomba colpisce il reparto maternità dell’ospedale di Mariupol. Le terribili immagini della troupe di Chernov, subito inviate ai media internazionali grazie a un fugace ritorno della connessione internet, provocano lo sdegno del mondo intero, ma la mattina seguente i media russi hanno già confezionato la più oscena delle menzogne: «l’ospedale è stato trasformato in un set cinematografico e le persone che si muovono fra le macerie sono attori e propagandisti ucraini».

Gli ultimi sei giorni descritti dal film si concentrano attorno all’ospedale, costretto a lavorare in condizioni disperate. Quando il primo carro armato con la Z fa il suo ingresso nel centro cittadino, ai giornalisti – ufficialmente ricercati dall’esercito nemico – non resta che scappare. L’urgenza della verità, tuttavia, conduce la troupe di Chernov in un’ultima discesa all’inferno: così prima della rocambolesca fuga da Mariupol – ulteriore meta-racconto che da solo potrebbe valere la visione del documentario – le telecamere si insinuano nei bui sotterranei dell’ospedale, dove un infermiere indica i corpi in attesa di finire nelle fosse comuni. È il tragico saluto finale che la città riserva ai giornalisti ucraini; da lì ai successivi due mesi Mariupol assisterà alla distruzione del teatro cittadino, bombardato nonostante la scritta «bambini» dipinta su entrambi i lati del parcheggio circostante, e all’assedio dell’acciaieria Azovstal, ultimo atto prima della caduta della città, arresasi il 20 maggio 2022 dopo 86 giorni di battaglia e più di 25mila vittime civili.

Come ha scritto Paola Peduzzi sul Foglio, guardare 20 Days in Mariupol a quasi due anni da quando è stato girato è «straziante e necessario», soprattutto in un momento in cui il mondo sembra aver dimenticato la mostruosità dell’invasione russa: «i morti sono diventati un numero e non più un’ingiustizia», scrive, «il dibattito riguarda gli arsenali (fintamente) vuoti dei paesi occidentali e i costi da sostenere, gli ucraini non sono più il popolo fiero di una resistenza formidabile ma al limite il loro presidente cocciuto», quel Volodymyr Zelensky a cui il solito Giuseppe Conte ha recentemente contestato l’abbigliamento militare. Da più parti al paese dei girasoli si chiede di scendere a patti con il diavolo, di cedere pezzi di territorio e della propria sovranità in nome di un millantato ‘realismo’ che nei fatti è aperto sostegno alla strategia di Mosca; ovunque fiorisce la parola «stanchezza», riferita tanto agli ucraini (che pure avrebbe diritto di provarla, ma a oggi nessun segnale è emerso in tal senso) quanto alle opinioni pubbliche occidentali (e qui non si capisce in merito a cosa: stanchezza per i due minuti scarsi di aggiornamenti da Kyiv trasmessi in coda ai nostri telegiornali?).
 

Guardare 20 Days in Mariupol a quasi due anni da quando è stato girato è «straziante e necessario», soprattutto in un momento in cui il mondo sembra aver dimenticato la mostruosità dell’invasione russa


A due anni dall’invasione putiniana ci troviamo in una situazione paradossale: anziché analizzare il fallimento della strategia russa (rapida conquista di Kyiv, assassinio del presidente Zelensky e insediamento di un governo filorusso), improbabili ‘analisti’ discettano sul fallimento della seconda controffensiva ucraina, dopo il successo della prima svoltasi fra agosto e settembre del 2022. Un conflitto che Putin avrebbe dovuto risolvere in una settimana si è trasformato in un buco nero per l’esercito e l’erario di Mosca, mentre l’Ucraina esiste ancora, la sua lotta è già epos letterario e la sua gente ha scelto definitivamente la strada dell’Unione Europea. A quest’ultima, ora, spetta il compito di sostenere la resistenza ucraina incrementando l’invio di armi per chiudere definitivamente la partita con il boia di Mosca. Anche per questo 20 Days in Mariupol arriva in un momento cruciale: l’orrore delle sue immagini ci ricorda che la nostra democrazia, minacciata anche da nemici interni che disprezzano i valori sanciti dalla Costituzione, è preservata ogni giorno dal sacrificio di un popolo indomito, innamorato della libertà, capace di sognare la nazione del futuro. E di insegnare al mondo il senso della parola ‘dignità’.


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