Storie dall’ultimo giorno di set prima del coronavirus

Una raccolta di testimonianze dei lavoratori del cinema e della televisione bloccati dall’emergenza Covid-19

In questo momento difficile per l’Italia e per il mondo in tanti sono chiusi in casa a rivedere classici del cinema, a guardare film appena usciti, a fare binge-watching con le serie di Netflix e Prime Video. Ma chi c’è dietro tutto questo? Con la redazione della rivista L’Eco del Nulla abbiamo deciso di raccogliere le testimonianze dell’ultimo giorno – di set e di preparazione – dei lavoratori del mondo del cinema e della serialità televisiva italiana prima della sospensione decretata dal governo Conte. Non registi e attori, per una volta, ma attrezzisti, segretarie di edizione, assistenti alla regia, capo elettricisti, fonici e tanti altri professionisti fondamentali per la realizzazione dei film e delle serie che tutti noi stiamo guardando in questi giorni. Sono una fetta importante dei famosi “lavoratori dello spettacolo”, una delle categorie più a rischio per la crisi causata dal Covid-19 e per questo inclusi nei 600 euro di bonus previsti dal decreto Cura Italia. Sono tutti quei nomi che (non) leggiamo nei titoli di coda alla fine di un film, sono le persone che davvero lo realizzano. Con questa raccolta di testimonianze cerchiamo di dare uno spaccato del dietro le quinte di un film, per quanto incompleto – ci sono anche i lavoratori della post-produzione, quelli delle case di produzione e distribuzione, stunt, truccatori e parrucchieri, capi figurazioni, responsabili degli effetti speciali, autisti, tutti colpiti dal blocco del settore. In questi racconti c’è l’intera galassia produttiva dell’audiovisivo, dalle produzioni ad alto budget alle serie tv, dalle fiction ai film d’autore fino alle opere prime. Le esperienze sono differenti – chi ha finito l’ultima settimana che aveva da contratto, chi ha visto bloccare mesi di riprese, chi si è ritrovato con un licenziamento improvviso – e lo sono anche alcuni dei loro nomi, sostituiti con altri fittizi per tutelare il loro anonimato, ma anche se non sapete chi sono di certo conoscete il loro lavoro: qualcuno di loro potrebbe aver cucito i costumi di Volevo nascondermi o curato le scenografie di Pinocchio, qualcun altro potrebbe aver scritto gli ordini del giorno de Il commissario Montalbano o curato il suono di Rocco Schiavone. Queste sono le loro storie.

 

Lunedì 2 marzo iniziavamo le riprese di una nuova serie tv, in teatro di posa, dove avremmo dovuto girare per le prime due settimane prima di spostarci all’esterno. C’era un’aria particolare, ci sentivamo privilegiati a far parte di un progetto che non aveva ceduto a quei piccoli campanelli di allarme del Covid-19 che avevano già fatto fermare molte produzioni in Italia, tra cui tutte quelle internazionali. Erano i giorni in cui eravamo tutti preoccupati per l’aspetto economico, dopo il solito periodo “morto” di gennaio e febbraio siamo riposati e pronti per ricominciare a lavorare, per voglia e per necessità. Nessuno di noi immaginava che quei piccoli campanelli d’allarme sarebbero diventati un’emergenza sanitaria di questa portata, nessuno lo immaginava quel lunedì 2 marzo almeno. Giorno dopo giorno, insieme all’aumento dei contagi, iniziava a farsi avanti la paura che anche le nostre riprese venissero interrotte, ma fino a venerdì 6 marzo era dovuta principalmente alle notizie che ricevevamo da colleghi impegnati con altre produzioni che avevano rinunciato ad iniziare le riprese. Tutte le nostre percezioni sono cambiate radicalmente nel weekend. Le notizie sulla diffusione del virus peggioravano esponenzialmente, telegiornale dopo telegiornale, nel frattempo le produzioni che decidevano di posticipare le riprese aumentavano, fino a quando non ho ricevuto la telefonata del nostro direttore di produzione. Voleva mettermi al corrente di alcune misure precauzionali che la produzione aveva deciso di adottare: non far entrare negli studi nessuno con temperatura corporea superiore ai 37,5 °C, fornire tutti di gel disinfettante per le mani e incrementare il personale per la sanificazione di bagni e ambienti comuni. Abbiamo iniziato la giornata così: Giuliano, il microfonista con cui stavo lavorando, ha usato un paio di guanti per ogni attore, ha indossato la mascherina, si è lavato le mani ogni volta che ha aperto la valigia dei radiomicrofoni. Ogni tanto qualcuno diceva: “Siete a meno di un metro di distanza, allontanatevi”. Se dicessero sul serio o no me lo sto ancora chiedendo. Lavorando, quasi per gioco, abbiamo iniziato a fare attenzione a tutte le occasioni di contagio che comunque generavamo e che gli altri generavano. Un set è una realtà estremamente dinamica, non si sta mai fermi. Tutti utilizzano cose che passano da una mano all’altra e spesso siamo costretti a stare molto vicini, un metro di distanza tra l’uno e l’altro non ce lo può garantire neanche il teatro di posa più grande del mondo. Per non parlare degli attori, non potranno mai rispettare le giuste misure. In scena si abbracciano e si baciano, litigano urlandosi in faccia e di certo non possono utilizzare guanti o mascherine. La produzione ha allestito una seconda sala per il pranzo, permettendoci di essere in due, tre persone al massimo per ogni tavolo, dove solitamente ci sediamo tranquillamente in otto. Durante l’ora di pausa riceviamo altri aggiornamenti dai colleghi: la maggior parte delle produzioni che come noi avevano iniziato una nuova settimana di lavoro avevano interrotto le riprese durante il corso della giornata. Finisce la pausa e la sensazione che si blocchino anche le nostre riprese è diventata praticamente una certezza; pochi minuti dopo riceviamo la comunicazione che la giornata di lavoro finisce qui. Giusto il tempo di sistemare l’attrezzatura, tornare a casa e farsi una doccia prima di rendermi conto che eravamo in emergenza sanitaria e all’alba della quarantena dell’intero paese.

Fabio, fonico
 

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Dovevamo fare una settimana/dieci giorni nel nord della Finlandia a partire da lunedì 9 marzo, ma ci chiamano dalla produzione il giovedì precedente, dopo il rientro dal Trentino Alto-Adige dove avevamo girato, e ci dicono: “Non se ne fa più niente per la questione del virus, gli attori non se la sentono di partire per la Finlandia…”. Il giorno dopo mi richiamano dicendo: “No, si va, ma con troupe ridottissima: partirai tu, da aiuto operatore passerai ad assistente, e partirà l’operatore, il direttore della fotografia e un macchinista”. Il regista non voleva andare, l’aiuto regista non voleva andare, quindi dacché dovevamo girare tre scene grosse le scene sono state tagliate, o non si sa quando verranno girate, e abbiamo cambiato piano: “Partirete voi per girare dei contributi, drone, camere car e verrete appoggiati da una troupe finlandese, con una location manager romana che si accollerà la parte produttiva”. Siamo partiti domenica subito dopo il lockdown della Lombardia: eravamo due romani e sul posto ci saremmo incontrati con due milanesi – e già lì eravamo un po’ titubanti. Siamo arrivati a Helsinki, dove la produzione finlandese ci ha accolto, per andare girare nel nord della Finlandia. Abbiamo dormito lì e il secondo giorno siamo partiti per il nord: dovevamo fare 900 chilometri. Durante il viaggio abbiamo cominciato a sapere che avevano cancellato il nostro volo di ritorno, la produzione ci ha preso un altro volo e siamo arrivati in location. Il giorno seguente abbiamo saputo del lockdown dell’Italia e la situazione ha cominciato a peggiorare drasticamente: eravamo divisi, da soli al nord della Finlandia, ci arrivavano le notizie dei voli cancellati, la produzione ci diceva “Ok, vi facciamo fare scalo di qua, poi di là e poi arrivate in Italia”, e noi stavamo lì appesi senza sapere cosa dovevamo fare. Alla fine, dacché dovevamo fare una settimana/dieci giorni, siamo rimasti tre giorni: uno abbiamo girato e due di viaggio. Siamo tornati a Roma con l’ultimo volo dalla Finlandia per l’Italia.

Carlo, aiuto operatore
 

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Era un lunedì 24 febbraio, avevamo l’ultimo giorno di riprese di una serie in un interno in cui giravamo da 5 settimane e poi uno spostamento per andare a girare in una cartoleria. Io sono arrivato sul set e ho visto tutti i camion degli attrezzisti fuori che stavano caricando tutta la scenografia della casa sui camion; sapevo già che sarebbe successo, il giorno prima era arrivata una mail che diceva che il giorno dopo le riprese sarebbero state sospese a data da destinarsi, perché noi saremmo dovuti andare a girare vicino a Codogno, nel piacentino, poi a Malpensa con Milano che stava diventando zona rossa – e quindi erano proprio location impossibili. Era come se i posti per girare li avessimo scelti a posta su misura. È finita così: il lunedì abbiamo fatto meno di mezza giornata, alle undici e mezza quasi tutti se n’erano andati: chi ritornava quei giorni a Roma, chi della produzione si fermava qualche giorno per sistemare qualcosa. Milano era diventata una città fantasma, la vedevi di giorno in giorno spopolarsi, era strano perché inizialmente le persone non ci credevano tanto. All’inizio il fatto che qualcuno volesse evitare i quartieri cinesi è stata presa come una forma di razzismo mentre era solo prevenzione, e c’è stato un movimento che spingeva a condividere più tempo con i concittadini cinesi e ad andare a mangiare a Chinatown, anche il sindaco (che poi si è ricreduto) diceva “Non sfacciamo sfiorire la Milano cinese”. Solo dopo Codogno la cosa è cominciata ad essere un po’ più seria, due settimane dopo la sospensione della serie si è preso veramente consapevolezza di quello che stava accadendo.

Marcello, assistente di produzione
 

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Nel film che stavo preparando facevo sia da aiuto che da casting ed eravamo al lavoro sul casting al momento della sospensione. È stata bizzarra la situazione, c’è stato un lento rendersi conto di quello che stava succedendo. Dopo la prima chiusura del governo di parte delle province coinvolte, siccome erano stati chiusi tutti i teatri, mi sono trovato improvvisamente la disponibilità di tutta una serie di attori che non ero riuscito ad incontrare perché erano in teatro a Milano e nel nord e che si sono presentati in ufficio. E quando la produzione ha capito questa cosa sono rimasti tutti un po’ spiazzati, tanto è vero che il giorno dopo ci hanno consegnato una liberatoria da far firmare agli attori che venivano da noi, anche se una liberatoria fa poco: tu mi dichiari che non vieni da Codogno, che non vieni dalla Cina, ma era gente che veniva da Milano e si era fatto il viaggio in treno con duecento persone. Giovedì 5 marzo facciamo una riunione, decidiamo di fare i call back e allora chiamo gli attori che dovevano venire da Bologna, da Milano e un po’ da tutta Italia organizzando la giornata per il martedì successivo. Venerdì 6 torno in ufficio e la sera mi chiamano dalla produzione e mi dicono “Guarda, annulla tutti i call back. La prossima settimana si va in ufficio ma non possono entrare persone esterne”. E alla fine la domenica mi hanno richiamato per dirmi di restare a casa perché non era il caso che venissi in ufficio ed è finita così: avremmo dovuto girare quest’estate e non gireremo. Io sono andato a ritirare le mie cose che avevo lasciato in ufficio tre settimane dopo: ero uscito venerdì 6 convinto che il lunedì mattina sarei stato lì. Penso che nessuno di noi, in quei giorni, si fosse ancora reso conto della vera entità della cosa.

Ciro, aiuto regia
 

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Il film a cui stavamo lavorando è stato bloccato domenica 8 marzo verso le 19. Eravamo una piccola troupe in trasferta, eravamo tutti a pranzo fuori quando ci è arrivata la comunicazione di una riunione urgente in albergo prima di cena. Nella riunione l’organizzatore e i produttori ci hanno detto che non si poteva più andare avanti con le riprese perché la situazione del virus si stava facendo sempre più critica, che erano state decretate le prime zone rosse e che dall’indomani avrebbero organizzato i nostri viaggi di rientro. Solo in quel momento molti di noi hanno iniziato a prendere coscienza della realtà. La distanza da casa, i ritmi e gli orari del set e forse anche il clima gioviale che si era creato tra tutti noi ci avevano distratto da quello che stava accadendo in Lombardia e Veneto, o quantomeno ci avevano portato a considerarlo talmente distante da noi da non sentirci coinvolti. La riunione di quella domenica sera ha improvvisamente fatto scoppiare la bolla in cui ci eravamo rifugiati. Ci siamo ritrovate il lunedì mattina tra i saluti ai primi colleghi che ritornavano a Roma e il nostro camion da organizzare per la partenza: la costumista chiamava sartorie e fornitori, la sarta cercava di asciugare le cose che erano state lavate, l’aiuto costumista svuotava i camerini degli attori che erano stati preparati il sabato precedente, l’assistente costumista separava il materiale acquistato dalla produzione – asse da stiro, vaporella, costumi di scena – che sarebbe dovuto rimanere lì dove eravamo. In quel momento nessuno capiva bene che cosa sarebbe accaduto e se sarebbe stato possibile, una volta rientrate a Roma e con tutta l’Italia dichiarata zona rossa, iniziare le riconsegne. Tutto il materiale, nostro e del film, è ancora congelato nel camion sartoria parcheggiato nel suo deposito. Ci auguriamo di tornare ad utilizzarlo presto.

Giulia, Alice, Marta, Lucia, reparto costumi

 

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La nostra ultima giornata di lavoro sembrava una giornata normale, come tutte le altre. Stavamo lavorando ad una serie e arrivati sul set abbiamo preparato le macchine da presa, mi sono confrontato con il direttore della fotografia per il set-up delle macchine e ci siamo apprestati a girare le scene in programma. C’era già stata qualche avvisaglia di quello che sarebbe successo: avevamo cominciato verso la fine di febbraio e dovevamo girare diverse settimane a Milano e altrettante a Roma. Da parte del nostro reparto c’erano già state delle perplessità a cominciare questo lavoro, in un posto che si sapeva che prima o poi sarebbe diventato zona rossa. Abbiamo girato tutto venerdì 6 marzo con quest’aria da fine film, con l’organizzatore che ci ha riunito per dirci che le riprese non potevano continuare e che avremmo dovuto interrompere la lavorazione perché non c’erano più i presupposti per girare in sicurezza. Noi pensavamo si trattasse solamente di una sospensione temporanea, ma si è trattato di ben altro. Abbiamo ricaricato il materiale in fretta e furia, abbiamo preso il treno da Milano e siamo rientrati a Roma. Dopodiché siamo tornati nelle nostre abitazioni con la paura e col dubbio di poter contagiare i nostri familiari. Io, tornato a casa, ho passato due settimane chiuso nella mia stanza da letto riducendo al minimo i contatti con la mia famiglia e con mia moglie che mi passava i pasti dalla porta, aspettando notizie dalla produzione su come sarebbe andata a finire. Dopo due settimane è arrivato il licenziamento, senza ricorrere alla cassa integrazione e senza che in queste due settimane ci avesse chiamato nessuno per chiederci come stavamo.

Luca, assistente operatore
 

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Quando è partita l’emergenza Coronavirus io stavo lavorando sul set di un lungometraggio a troupe contenuta in una cittadina toscana. Sia per il luogo in cui eravamo sia per quando abbiamo cominciato a lavorare, circa una settimana prima della chiusura, la situazione ci sembrava essere – o almeno mi sembrava essere – un’oasi separata dal resto: era un’unica location e non c’era ricambio di persone. Questa situazione è stata scossa inizialmente dalla chiusura della Lombardia e delle 14 province e soprattutto dal fatto che chiunque ci fosse stato nei 14 giorni precedenti sarebbe dovuto tornare a casa e quindi mettersi in quarantena. Questa cosa ha bloccato tre persone della troupe – e neanche persone facilmente sostituibili: uno era il direttore di produzione, l’altra la segretaria di edizione, un altro il fonico. La cosa che mi ha colpito maggiormente è la possibilità delle persone di andare nel panico per qualcosa che viene dall’alto: il coronavirus era già in Italia, già c’erano i morti, già si parlava di tantissimi infetti, già il Nord era molto provato, ma l’uscita di una legge (giustissima) ha mandato completamente nel panico alcune persone della troupe. Questa è la cosa che mi ha colpito di più: l’incapacità di riuscire ad essere lucidi, e quindi fare anche scelte sbagliate – il fatto che queste persone se ne fossero andate immediatamente tranquillizzava, quando invece probabilmente la sostituzione di queste persone con altre era più pericolosa. In ogni caso la sostituzione è avvenuta e due giorni dopo c’è stata la chiusura dell’Italia. Questa notizia è arrivata nell’arco della sera, mentre stavamo ancora girando: alcune persone, non appena è arrivata questa notizia, hanno iniziato veramente a vivere un panico crescente e ingiustificato – stavamo insieme da una settimana, se dovevamo esserci contagiati lo saremmo stati già – e c’è stata grande fatica da parte di alcuni di noi per calmarli e fargli capire che bastava chiudere la giornata: la sera stessa o l’indomani saremmo tornati tutti alle nostre case, però almeno avremmo dato alla produzione e al regista la chiusura delle scene che avevamo già illuminato, già provato, già strutturato: bisognava solo girare. È tosta, è tostissima riuscire a gestire il panico, forse il nostro più grande nemico è l’incapacità, alle volte, di gestire le cose con lucidità.

Francesco, capo elettricista
 

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Domenica 8 marzo abbiamo ricevuto una mail dove si diceva alla troupe e agli attori di stare tranquilli, perché la produzione aveva e avrebbe preso le giuste precauzioni per far sì che si lavorasse in un ambiente il più sicuro e protetto possibile: doppi turni delle pulizie, bonifica degli ambienti, controllo della temperatura a ciascun componente della troupe prima di andare sul set, mascherine e guanti per tutti, gel disinfettante per tutti. Lunedì 9 vado al lavoro e mi trovo in una situazione angosciante con l’operatore della Croce Rossa che ci misurava la febbre, due avevano la febbre e sono stati mandati a casa, costumi, trucco e capelli con mascherine chirurgiche e guanti che sembrava che stessero operando su pazienti cioè gli attori, attori legittimamente preoccupati della serie “voi in qualche modo potete cercare di scamparla, ma noi per forza di cose subiamo il contatto con le persone e in scena ci dobbiamo toccare”. L’ansia via via è cresciuta finché, terminata la pausa, l’aiuto regista ha riunito tutti e ha detto: “Allora, purtroppo ci sono delle legittime tensioni, durante la pausa molte persone sono venute a chiedermi che cosa dovessimo fare, quindi facciamo presente alla produzione che la troupe non è nelle condizioni di lavorare”. È stato messo a votazione di terminare la giornata oppure di terminare solo la scena e andare a casa e la maggioranza ha deciso per la seconda opzione. Abbiamo chiuso la scena e siamo andati tutti a casa. La sera stessa è stata dichiarata la quarantena per tutti. Io, giuro, ero convinta che almeno la settimana la finissimo di lavorare, invece abbiamo anticipato di qualche ora il decreto ministeriale.

Francesca, assistente alla regia


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Stavo lavorando alla preparazione di una serie in costume, produzione spagnola con server italiano. La troupe spagnola sarebbe dovuta  venire a girare in Italia i primi di aprile e stavamo preparando le ultime cose per far arrivare i costumi in tempo per le prove. Io avrei finito quella settimana e nel frattempo aveva iniziato con me un’altra collega che si sarebbe poi occupata del girato. Era mercoledì 26 febbraio quando ci è arrivata la comunicazione che gli spagnoli non sarebbero più venuti in Italia, causa coronavirus. Il giorno dopo avremmo dovuto iniziare lo scarico e il carico del camion e le prove costume, invece abbiamo iniziato ad impacchettare tutto e a far spedire dalle sartorie i costumi direttamente in Spagna, secondo loro avrebbero girato alcune scene direttamente là e invece, dopo poco più di una settimana, anche la troupe spagnola si è fermata. Alla fine della settimana avrei dovuto iniziare un altro progetto, un documentario, ma ovviamente è stato anche quello rimandato a data da destinarsi. Quei tre giorni dal 26 al 28 febbraio abbiamo man mano visto tutte le attrezzerie e le sartorie che stavano lavorando agli Studios De Paolis impacchettare e rispedire tutto, come noi. Ci trovavamo al bar e avevamo tutti la stessa espressione in faccia: basiti. Tutti con le stesse domande, con gli stessi dubbi, ancora incerti su cosa sarebbe successo.

Paola, assistente costumi

 

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Il film a cui avrei dovuto lavorare è stato interrotto a una settimana dall’inizio delle riprese. Sabato 7 marzo sono arrivata a Belfast con l’idea di restarci cinque mesi; lunedì 9 ho iniziato la prima settimana di preparazione e giovedì sera, dopo una giornata di porte chiuse e viavai dall’ufficio dei produttori, ci è stato comunicato via email che le riprese che sarebbero dovute iniziare il 23 marzo sono state rimandate al 27 aprile. Le produzioni americane sono state le prime a sospendere i set, credo si tratti di una questione assicurativa per gli attori che vengono da oltreoceano. Sui nostri contratti si parla di «sospensione a discrezione della produzione», quindi dopo aver invocato la causa di forza maggiore hanno sospeso anche i pagamenti alla troupe. In Inghilterra hanno interrotto tutti i set (o quasi): film ad alto budget come The Batman e The Little Mermaid; serie tv come Holby City, in onda dal 1999, e EastEnders, la storica soap opera in onda dal 1985. Il sindacato dei lavoratori dello spettacolo del Regno Unito, Bectu, stima che oltre 50mila liberi professionisti rimarranno senza lavoro per via della pandemia. Io sarò costretta a usare quei risparmi messi da parte in anni di lavoro e fatica. Speriamo si torni presto alla normalità.

Giulia, script supervisor

 

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Il mio ultimo giorno di lavoro è stato molto particolare. Il premier Conte aveva già esteso le limitazioni per gli spostamenti in tutta Italia ormai da tre giorni. Con i miei colleghi stavamo preparando un set in un teatro di posa: un’intera casa anni ’60. Ci sentivamo gli unici lavoratori nel settore e ci sentivamo poco tutelati. La produzione non ne voleva sapere di sospendere la preparazione ed era intenzionata ad effettuare anche le riprese (fissate per la settimana successiva) in quel clima teso e di malcontento generale. C’era il presagio di un qualcosa di più grande, di un male ancora non tangibile, le misure di sicurezza imposte dal governo erano impossibili da attuare in un lavoro così manuale e di stretto contatto fisico come rifinire l’ambiente e arredare. Gli ultimi piccoli dettagli non potevano essere ultimati con i guanti e le mascherine rendevano difficile la comunicazione verbale, fondamentale quando si è sopra una scala o in procinto di spostare mobili molto pesanti. Erano ormai tre giorni che continuavamo comunque a fare il nostro lavoro proteggendoci con mezzi nostri di fortuna, la produzione ci prometteva mascherine e guanti mai ricevuti e cominciavamo a sentirci presi in giro. Abbiamo comunque abbozzato, appoggiati dal nostro intero reparto, nonostante fossimo una quarantina di persone e sarebbe bastato che uno solo di noi avesse contratto il virus per infettare tutti gli altri. L’ultimo giorno, mercoledì 11 marzo, ci siamo ribellati pretendendo misure per tutelarci, che ci spettavano di diritto, per poter procedere nel lavoro in totale sicurezza. La produzione ci ha voltato le spalle rispondendoci “Le mascherine non sono obbligatorie, non sta scritto da nessuna parte che dobbiamo fornirvele”, a quel punto c’è stato un tumulto generale e il nostro gruppo di lavoro di scenografia si è spaccato a metà: lo scenografo con gli assistenti dalla parte della produzione – o meglio, secondo loro misure di sicurezza o no l’ambiente andava comunque finito e consegnato a tutti i costi – dall’altro lato l’attrezzista di preparazione con relativi aiuti che, stanchi di quella farsa, hanno ricaricato tutti gli attrezzi e sono andati via. Anche per me era follia continuare a lavorare in quello stato di mancanza di rispetto e privo di buonsenso. Ho comunque portato a termine quella giornata lavorativa per non mettere in difficoltà il reparto, con tutti i disagi del caso e continuando a lavorare senza protezioni, comunicando alla produzione che non sarei più andato dall’indomani. Il giorno successivo hanno in ogni caso sospeso la produzione e stoppato i lavori.

Franco, aiuto attrezzista

 

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Io ero in preparazione di un film in co-produzione con la Polonia che doveva partire il 6 aprile in Sardegna. La settimana del 2 marzo sono arrivati i polacchi per i sopralluoghi definitivi e per chiudere le location. La settimana in Sardegna è andata abbastanza liscia, ma al momento del loro rientro la Polonia già non accettava più i voli dall’Italia: i colleghi polacchi sono dovuti atterrare a Berlino e sono venuti a prenderli in macchina per riportarli a Varsavia. Ogni giorno c’era un confronto costante e io mi sono trovato in un ruolo di responsabilità: l’ultima parola spettava alla produttrice polacca e al produttore italiano, ma io in tutta onestà suggerivo di fermarci perché era chiaro che la situazione si sarebbe estesa in tutta Italia nel giro di poco tempo, mentre il mio alter ego, l’organizzatrice polacca, probabilmente non rendendosi conto della situazione, spingeva per continuare con la preparazione delle riprese. Quando abbiamo staccato la spina al film, lunedì 9 marzo, è stato molto triste. Ero in ufficio da solo con il produttore, che era in un’altra stanza perché già mantenevamo le distanze di sicurezza, e abbiamo deciso che non c’era più niente da fare. L’ultima cosa che ho fatto è stato telefonare a tutti i membri della troupe che avevo coinvolto per decretare la sospensione, telefonare agli albergatori che avevo tenuto in sospeso fino a quel momento, dato che da lì a un mese sarebbero arrivate 45 persone ad alloggiare nelle strutture nei dintorni di Alghero –è stata una parte difficilissima, perché ovviamente il turismo è tra i settori più colpiti da questa situazione –, chiamare i fornitori per dire a tutti che ci saremmo fermati.

Maurizio, organizzatore

 

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Lunedì 9 marzo: una mattina come le altre, le solite tensioni, ma quella mattina ce n’era un’altra, un chiacchiericcio, un malumore, si parlava nei corridoi ma nessuno che si organizzava per avere delle risposte. Questa volta non c’entrava il sacrificio o gli orari eccessivi. Cosa succede in città? Cosa succede nel mondo reale al di fuori del set? Cosa fa la produzione? Cosa dice? Ma lo sa che c’è un’emergenza? Non sappiamo nulla, non sappiamo se dobbiamo chiedere o aspettare ancora. The show must go on. Sì, ma fino a che punto. Questa volta gli altri si sono già fermati… noi no! Siamo al sicuro. Ma chi l’ha detto? A pranzo una riunione voluta dai responsabili. Anche loro si sono fatti le stesse domande, ma non hanno le risposte. Come noi. Per una volta produzione e troupe tutti uguali, stessa posizione e stessa incertezza. Avrebbero parlato ai sindacati, avrebbero avuto dalle istituzioni le direttive e ci avrebbero detto qualcosa in serata. Fine pausa! E si ritorna al lavoro: chi urla “Silenzio!” sul set e chi si affanna a rendere possibile la giornata di domani. Ore 18.15, una mail inviata dalla solita casella che ci dice il da farsi per la mattina seguente, un solenne diktat è emesso: domani state a casa per via di un decreto bla bla bla. Fine giornata, pochi commenti, ognuno rinchiuso nei propri pensieri. Ce ne siamo andati in silenzio, raccogliendo un po’ di cose come quando si abbandona la cabina di una nave crociera. E via. Ciao, ci sentiamo. Tutte le porte degli studi si sono chiuse, il silenzio anticipava il vuoto che sarebbe seguito.

Giovanni, assistente alla regia
 

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Il venerdì la situazione era totalmente normale, nessuno aveva accennato all’idea di fermarsi tranne qualche voce e qualche dubbio all’interno della troupe. Lunedì siamo arrivati sul set e c’era un’aria strana, la mattina è stata misurata la temperatura e alcuni l’avevano superiore alla norma stabilita – qualcosa come 37,2 °C – e sono stati mandati a casa. Si sono create molte discussioni su quello che si sarebbe o non si sarebbe dovuto fare finché dopo pranzo c’è stata una riunione improvvisa con regista, attori, troupe in cui si è deciso di punto in bianco di interrompere tutto: è stato chiesto ai presenti di votare se chiudere immediatamente la giornata oppure di chiudere la scena e di andare via. All’unanimità si è votato di finire la scena, dopodiché abbiamo riportato tutti a casa. Noi di produzione siamo tornati lì per capire cosa fare il giorno successivo; alcuni hanno lavorato per portare gli attori in aeroporto o sbrigare le ultime commissioni e gli altri, me compresa, hanno smesso subito di lavorare. Abbiamo resistito finché abbiamo potuto, ma poi la situazione era ovviamente inevitabile: eravamo in teatro e non era possibile lavorare per gli attori, non era possibile lavorare per la troupe. Non abbiamo ricevuto nessuna notizia su un’eventuale ripresa e chissà quando ripartirà tutto, non ne abbiamo la più pallida idea.

Giuditta, assistente di produzione
 

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Stavamo lavorando su una serie in costume spagnola, un blocco di riprese in Italia di sei settimane, i tempi erano come sempre condensatissimi: in due settimane avevamo messo su un magnifico reparto scenografia/arredamento tutto al femminile, affiatato e super produttivo. La nostra attrezzeria scoppiava di arredi, i costruttori e gli attrezzisti lavoravano a ritmi serratissimi, eravamo riusciti nell’impossibile, un po’ come spesso accade in questo maledetto meraviglioso lavoro. Il Covid-19, però, lavorava più alacremente di noi. Con il passare dei giorni nel mondo aumentavano i contagi, l’Italia iniziava ad accusare il colpo e nel nostro ufficio cominciava a serpeggiare il dubbio che forse ci saremmo dovuti fermare. Abbiamo atteso la notizia un po’ come l’orchestra del Titanic, mentre tutto intorno a noi sembrava smaterializzarsi noi abbiamo continuato a suonare. La notizia è arrivata all’inizio della terza settimana, i colleghi spagnoli subito richiamati in patria: assurdo, abbiamo pensato. Assurdo è stato, più che altro, dover affrontare le riconsegne di un film mai girato, dover ricaricare sui furgoni arredi appena scaricati, chiamare i fornitori per dire che, per colpa del Covid-19, non se ne faceva più nulla. A quel punto però ci siamo accorti che qualcosa stava cambiando, i fornitori ci dicevano che non eravamo la prima produzione a dirglielo, sempre più amici e colleghi rimanevano senza lavoro. L’ultimo giorno, venerdì 28 febbraio, abbiamo chiuso i conti, riconsegnato le chiavi dell’ufficio e abbiamo fatto un bellissimo pranzo di “fine film”, lo ricordo con un sorriso amaro. Eravamo tantissimi dentro una saletta piccina, tutti vicini, tutti a brindare, abbracci baci e “ci vediamo presto!”, senza la minima idea che quello sarebbe stato, per molti, l’ultimo momento conviviale prima della quarantena.

Vittoria, assistente arredatore

 

In copertina uno scatto di Giulia Parmigiani
Nella nostra ricerca non siamo stati in grado di recuperare testimonianze di lavoratori dei reparti trucco, capelli e macchinismo impegnati sul set al momento della sospensione e invitiamo i professionisti di questi reparti a contattarci: chi volesse raccontare la sua storia può farlo scrivendoci all'indirizzo redazione@ecodelnulla.it


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