Perché i napoletani non hanno paura della morte

A spasso tra vie e cimiteri del capoluogo campano con gli occhi di Lucia Benavides

Proprio come la maggior parte delle persone, anche io ho paura della morte. Sono estremamente attenta a parlarne e quando lo faccio non la nomino mai esplicitamente. A volte mi capita di evitare canzoni sul tema tipo That’ll be the day di Buddy Holly, o le strade in cui si sono verificati incidenti mortali. Altre, invece, uso espressioni eufemistiche e meno angoscianti “se n’è andato”, “ha lasciato questo mondo”, come se la morte fosse un’entità viva (cosa paradossale) e pronta a darmi la caccia ogni volta che ne scrivo o la nomino ad alta voce. Come se parlandone, la stessi effettivamente invocando. Quasi tutti, nei paesi occidentali in cui ho vissuto, vivono la morte in questo modo, ma fra i napoletani mi sono ritrovata ad essere l’unica a farlo. I napoletani infatti, non hanno esorcizzato la morte come tanti altri. Ne L’amica geniale di Elena Ferrante, un tipico quartiere popolare di Napoli viene descritto dopo la seconda guerra mondiale come «un mondo in cui bambini e adulti si ferivano spesso, dalle ferite usciva il sangue, veniva la suppurazione e a volte morivano». La città è piena di contraddizioni: raggi di sole luminosi, una grande storia da una parte e ombre oscure, quartieri poveri dall’altra. E lo yin e yang di vita e morte è una di queste. In una qualsiasi strada può capitare di vedere attaccati sulla porta dei palloncini blu con il nome del nascituro e sul muro di pietra accanto, un cartello che commemora la morte di un qualche vicino del luogo.
 

Un venditore di cornicelli si avvicina a Borrelli e gli lancia del sale. L’uomo mi passa accanto senza riservarmi la stessa dose di sale portafortuna, mi chiedo se sia un cattivo presagio


Mimmo Borrelli, un drammaturgo napoletano che nel suo lavoro esplora in profondità il tema della morte, mi dice che la morte è sempre accanto, gesticolando come se il Tristo Mietitore stesse camminando accanto a noi per quegli stretti vicoli. Sopra di noi la gente urla per parlarsi da un balcone all’altro, mentre i motorini sfrecciano, portando a volte intere famiglie. Un venditore di cornicelli, dei portafortuna a forma di peperoncino, si avvicina a Borrelli e gli lancia del sale. Chiedo cosa significhi e mi risponde che è un augurio di buona fortuna, poi in dialetto napoletano si gira verso di lui e lo ringrazia. L’uomo mi passa accanto senza riservarmi la stessa dose di sale portafortuna, mi chiedo se sia un cattivo presagio. Una delle opere di Borrelli, Opera Pezzentella, approfondisce il culto napoletano dell’“adottare” un teschio, pregare per la sua anima per chiedere in cambio un favore.

Napoli è costellata di vecchie cripte contenenti antichi teschi, il più famoso dei quali è il Cimitero delle Fontanelle (che io non ho potuto visitare a causa della pioggia) e la chiesa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco. In questi cimiteri, sono conservati i teschi e le ossa di coloro che morirono nel 1600, un secolo di devastazioni, fra cui la Peste Nera e l’eruzione del Vesuvio, e non ricevettero degna sepoltura (perché non potevano permetterselo, afferma Borrelli). Secondo la Divina Commedia di Dante, senza una degna sepoltura queste anime erano condannate ad un’eternità in purgatorio, a meno che qualcuno non pregasse per loro. Così i napoletani rigirarono la questione a proprio vantaggio. Dedicavano preghiere ad un teschio affinché a sua anima raggiungesse il paradiso e in cambio aspettavano qualcosa. Io faccio un favore a te e tu a me.

Fra le migliaia di teschi nella chiesa ad Arco ce ne sono alcuni molto importanti, o per meglio dire, che hanno soddisfatto più preghiere di altri. (Se le richieste non erano esaudite, il teschio veniva sostituito con un altro. In fondo perché perdere tempo con qualcuno che non ti ricambia?). Il più famoso si chiama come me, Lucia, fatto che mi inquieta non poco, ed è il teschio a cui si rivolgono gli innamorati. Lucia è una vera celebrità, infatti a differenza degli altri teschi che sono ammassati l’uno sull’altro, lei ha un reliquiario tutto suo, stracolmo di lettere d’amore scritte a mano e di foto sbiadite.
Quando ci siamo incontrati, come prima cosa Borrelli mi ha voluto mostrare la chiesa e la cripta che tra l’altro sono stati il set per la sua opera sulle anime del purgatorio del 2014. Il drammaturgo e Daniela d’Acunto, direttrice amministrativa della chiesa, mi hanno raccontato che durante la seconda guerra mondiale le donne si recavano a far visita ai teschi chiedendo di far tornare i figli dalla guerra sani e salvi. «Pregavano questi teschi perché potevano toccarli e sentirli», mi racconta Borrelli. «In un certo senso per loro era molto più reale e credibile che pregare dei santi che non potevano vedere fisicamente. Come se quei teschi fossero i loro terapeuti, qualcuno con cui parlare».

Oggigiorno questo culto è più vivo che mai. Ho visto una famiglia con due bambini piccoli rendere omaggio a qualche teschio, una donna sulla trentina da sola lasciare un bigliettino sulla teca di Lucia. In un angolo fatto apposta, invece, centinaia di monetine lanciate dagli studenti nella speranza di riuscire a superare gli esami. 
Mentre ero nella cripta, umida e buia, circondata da teschi (alcuni dei quali sigillati in teche di metallo dopo che la Chiesa Cattolica vietò il culto nel 1969) mi sono chiesta se fossi l’unica ad aver paura. La direttrice d’Acunto mi ha risposto: «Avevi paura mentre scendevamo qui giù?».
«Sì», ho risposto.
«Noi no», mi disse guardando Borrelli e ridendo. «Il punto è che ho bisogno di vedere e toccare la morte. Quando qualcuno muore, se non vedo e tocco il corpo, non riesco a credere sia morto».

Per generazioni, i napoletani sono cresciuti con l’idea che la morte fosse parte integrante della vita quotidiana. All’inizio del XX secolo, prima che il cimitero delle Fontanelle diventasse un sito turistico, i bambini erano soliti giocare con i teschi abbandonati nella caverna. Dunque questo legame, questa comunicazione continua, teatrale e mistica con l’altro mondo, ha alla fine lasciato il segno anche sull’arte e sulla cultura popolare. In quest’ottica l’opera teatrale Non ti pago del 1940, scritta da uno dei più noti drammaturghi napoletani Eduardo De Filippo, è emblema dell’importanza che i sogni hanno per i napoletani. La commedia narra la storia di un uomo che perde l’occasione di vincere la lotteria perché suo padre appare in sogno e rivela i numeri vincenti a qualcun altro. Seguirà poi una faida famigliare che mette in discussione diversi punti: il legame fra il mondo dei vivi e quello dei morti, l’autenticità dei sogni, e l’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti di questi riti “pagani”. (La chiesa afferma che solamente i santi possono rispondere alle preghiere).

Il fascino per il mondo dei sogni ha portato alla nascita di un vero e proprio dizionario, la smorfia napoletana, che decifra i messaggi crittografati nei sogni che si crede siano inviati da parenti morti e persone care per aiutare coloro che sono ancora vivi a vincere alla lotteria. Alcune immagini e scene possono essere associate a numeri differenti; ad esempio, secondo il dizionario se si sogna Dio o l’Italia, si deve giocare il numero uno nella lotteria della settimana. Più sogni fai, più numeri avrai da giocare. 
Mi vengono in mente alcuni film a riguardo. C’è una scena del film Così parlò Bellavista del 1984, in cui due signore anziane cercano di ricordare ogni dettaglio dei sogni fatti per sapere quale numeri giocare. In un altro invece, del 1950, la commedia 47, morto che parla con Antonio de Curtis, meglio conosciuto come Totò, un gruppo di truffatori cerca di convincere un barone morto a rivelare loro dove nasconde le sue ricchezze. 

Nella letteratura napoletana più recente, la Ferrante racconta come i fantasmi della seconda guerra mondiale siano stati una presenza forte nell’infanzia della protagonista del romanzo, nonostante fosse nata dopo la guerra. Ne L’amica geniale scrive che «Quando si è al mondo da poco è difficile capire quali sono i disastri all’origine del nostro sentimento di disastro». L’antropologo Gianluca Mastrocinque afferma che a Napoli i morti convivono coi vivi. «Sono parte della famiglia» dice. «C’è una familiarità con la morte, ma allo stesso tempo, questa suscita un sentimento contrastante. Perché vuoi la morte vicina, vuoi che sia tua amica così che non ti prenda». La città ha vissuto molte tragedie. Mastrocinque indica il Vesuvio, che con le sue eruzioni ha distrutto intere popolazioni (per ricordarlo basta prendere un treno e in mezz'ora si arriva a Pompei), ma che allo stesso tempo ha permesso all’area circostante di godere di un terreno estremamente fertile. Ci sono stati terremoti devastanti, come quello del 1980 che portò alla morte di migliaia di persone. Ci sono stati bombardamenti durante entrambe le guerre mondiali. Ci sono stati omicidi commessi sia dalla mafia che dalla polizia. «C’è molta precarietà e instabilità», aggiunge Mastrocinque. «E questo ci ha fatto avvicinare moltissimo alla morte».
 

C’è una familiarità con la morte, ma allo stesso tempo, questa suscita un sentimento contrastante. Perché vuoi la morte vicina, vuoi che sia tua amica così che non ti prenda


Uno degli ultimi giorni a Napoli, mi sono imbattuta in un necrologio che ha attirato la mia attenzione. La donna si chiamava Lucia Palumbo, aveva il mio stesso nome, e il mio stesso secondo cognome o per intenderci, il cognome di mia madre da nubile (in Spagna, dove vivo, usiamo sia il cognome del padre che della madre). Era il mio alter ego napoletano, forse una lontana parente, o un macabro scherzo dei miei antenati. Per la seconda volta in una settimana, un morto napoletano aveva rubato il mio nome. Mi sono allontanata velocemente, non mi piace vedere il mio nome su un necrologio. Ovviamente l’ho rivista altre volte per le strade, la sentivo osservarmi mentre camminavo mano nella mano col mio compagno, mentre ridevo a qualche battuta, mangiavo la sfogliatella e mi inebriavo dei rumori e della vivacità dei vicoli napoletani. Mi ricordava che io ero ancora viva. E se la morte è l’unica certezza in questa vita, tanto vale urlare dai balconi, ascoltare Buddy Holly e vivere come i napoletani.





Lucia Benavides è una giornalista e scrittrice di origine argentina. Cresciuta in Texas, vive ora a Barcellona dove collabora regolarmente con NPR. Questo articolo è stato pubblicato su Literary Hub il 23/01/2020 ► What Neapolitans Understand About Death (Better Than Most)
Traduzione di Sonia Valentini

In copertina: un dettaglio della Chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco. Fotografia per cortesia di Cristina Arborio, dal suo blog Drive My Car


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