Loveless - Sulle orme di Tarkovskij

Il cinema di Andrej Zvjagincev e il suo percorso sulle tracce del maestro russo

Il cinema di Andrej Zvjagincev, uno degli autori più interessanti del panorama cinematografico russo, è fatto di drammi domestici e di equilibri interrotti. Dal suo esordio con Il ritorno (2003), storia di un padre che torna dopo dodici anni di assenza, a The Banishment (2007), un malinteso sulla terza gravidanza di una coppia distrugge l’equilibrio familiare, da Elena (2011), moglie divisa tra l’amore per il figlio e quello per il marito, a Leviathan (2014), parabola sull’individuo soffocato dalla società. Con i riconoscimenti internazionali ottenuti a Cannes (premio Un Certain Regard per Elena, Prix du scénario per Leviathan) e a Venezia, dove si è aggiudicato il Leone d’oro al miglior film con Il ritorno, quarantuno anni dopo L’infanzia d’Ivan di Tarkovskij, Zvjagincev si è affermato fuori dai confini nazionali. Una delle ragioni principali del suo successo all’estero è la sua sorprendente capacità di cogliere lo spirito della Russia contemporanea e trasmetterlo allo spettatore occidentale, che le è totalmente estraneo. Il suo universo artistico è popolato da vittime innocenti, paesaggi inospitali e grandi silenzi, motivo per cui il suo cinema è stato spesso accostato dai critici a quello di Tarkovskij.

Loveless, con cui Zvjagincev si è aggiudicato il Premio della giuria all’ultima edizione del Festival di Cannes, è l’ultima fatica cinematografica del regista siberiano girata interamente a Mosca e ambientata nel dicembre del 2012. La trama è molto semplice: Ženja e Boris decidono di divorziare, ma nessuno dei due vuole la custodia del figlio, il dodicenne Alëša. Il ragazzino, dopo aver ascoltato le furiose liti dei genitori scappa di casa, ma Ženja e Boris, occupati dai loro nuovi partner, se ne accorgono soltanto il giorno seguente. Iniziano le ricerche, ma non ci sarà niente da fare. Alla fine del film i genitori sono chiamati all’obitorio a identificare il cadavere sfigurato di un ragazzino, ma nonostante la reazione isterica alla vista del corpo negano che si tratti di loro figlio. La sorte di Alëša rimarrà avvolta nel mistero.
In questa spietata cronaca familiare l’egoismo corrompe anche il più sacro e puro dei valori, l’amore tra genitori e figli. Nell’umanità dipinta da Zvjagincev non c’è posto per l’amore, sentimento antico affievolitosi al gelo di un inverno moscovita che sembra durare in eterno. Una Mosca moderna, fredda e mai così cupa fa da sfondo al dramma di Alëša, vittima del “non-amore” (traduzione letterale di Neljubov’, titolo originale del film) dei suoi stessi genitori. Con questo film Zvjagincev raggiunge una grandissima coesione e compiutezza narrativa, dando vita a un racconto compatto, asciutto e spietato. Ma Loveless è interessante anche perché, più dell’altra tragedia urbana di Zvjagincev, Elena, si può leggere attraverso la lente del cinema di Tarkovskij.
 

Una delle ragioni principali del successo di Zvjagincev all’estero è la sua sorprendente capacità di cogliere lo spirito della Russia contemporanea, in un universo artistico è popolato da vittime innocenti, paesaggi inospitali e grandi silenzi


Già le inquadrature fisse in apertura – la stessa serie di quadri che tornerà alla fine del film, in una ringkomposition paesaggistica che ritroviamo in tutto il suo cinema e nello stesso Loveless, che finisce dove è cominciato, con le inquadrature del bosco del quartiere e la macchina che stringe sul nastro segnaletico impigliato al ramo – scatenano una serie di associazioni, mostrandoci degli alberi spogli e innevati che si riflettono in uno specchio d’acqua. Da questi primi quadri abbiamo l’impressione di trovarci nel mezzo di una foresta, invece, come capiamo poco dopo, siamo in un bosco alla periferia di Mosca. Nella scena successiva Alëša esce da scuola e per tornare a casa attraversa il bosco. Seguiamo il ragazzino che raccoglie un brandello di nastro segnaletico, lo lega a un ramo e poi lo lancia sulle fronde spoglie di un albero caduto, dove rimane impigliato. Nei primi cinque minuti di film compaiono tre elementi tipici del mondo di Tarkovskij: l’albero, l’acqua e il bambino. L’immagine-simbolo dell’albero percorre tutta la sua filmografia – con essa si apre il suo primo lungometraggio, L’infanzia d’Ivan, e si chiude il suo ultimo film, Sacrificio –, l’acqua è presente in una forma o nell’altra in tutti i suoi film e serve al regista per restituire a livello cinematografico lo scorrere del tempo, il bambino invece è un personaggio onnipresente. Che cos’è Alëša se non un’altra delle fragili figure di fanciullo tanto care a Tarkovskij?

Il ragazzino di Loveless si aggiunge alla schiera degli innocenti sacrificati, come Ometto di Sacrificio e Ivan de L’infanzia di Ivan, con la differenza che Alëša non è immolato in nome della salvezza dell’umanità e non è nemmeno vittima delle atrocità della guerra, ma viene annientato da una mancanza d’amore, dall’individualismo accecante dei suoi familiari. Niente ha potuto salvarlo, né la dimensione del sogno-ricordo, né il sacrificio dell’amore paterno, il bambino moscovita si trova con le spalle al muro, schiacciato da una realtà opprimente che alla fine gli diventa intollerabile. L’insofferenza ai continui litigi dei genitori – il tema del figlio che soffre per il divorzio dei genitori è presente anche in Lo specchio – e la disperazione più nera, la frattura dell’anima, vengono riassunte da Zvjagincev in un’unica potentissima immagine, l’urlo muto di Alëša, che tiene la testa fra le mani senza emettere nessun suono come in un quadro di Munch.
 

A unire Zvjagincev e Tarkovskij c’è anche una citazione pittorica: I cacciatori nella neve di Pieter Bruegel il Vecchio che Tarkovskij citava in Solaris e Lo specchio


Casualmente, a unire Zvjagincev e Tarkovskij c’è anche una citazione pittorica. Nell’epilogo di Loveless torniamo nell’appartamento di Ženja e Boris, invaso dagli operai che lo stanno ristrutturando. La macchina da presa si avvicina lentamente alla finestra della camera di Alëša e vediamo nel parco sottostante dei bambini che giocano nella neve. Il riferimento è all’opera di Pieter Bruegel il Vecchio I cacciatori nella neve, già citato da Tarkovskij in Solaris e Lo specchio.
È profondamente tarkovskiana anche la “base”, l’edificio abbandonato nel cuore del bosco dove i bambini vanno a giocare e dove le squadre di ricerca trovano la giacca di Alëša. Il luogo, in pieno disfacimento e invaso dall’acqua, è una citazione diretta della Zona di Stalker, dove si respira la stessa aria apocalittica di rovina, abbandono e sfacelo. Ma il senso di fine, di un’apocalisse imminente è conferito alla pellicola anche dal momento storico in cui si svolgono gli eventi, cioè nel dicembre del 2012. Mentre Boris va a lavoro sente alla radio che quel giorno ci sarà la fine del mondo predetta dai Maya; nell’epilogo, due anni dopo la scomparsa di Alëša, la televisione annuncia lo scoppio della guerra in Ucraina, in altre parole l’approssimarsi della fine del mondo, almeno del mondo russo contemporaneo.

In Zvjagincev la fine dello spazio domestico corrisponde all’estinzione dell’universo familiare, riprendendo l’immagine tarkovskiana della casa distrutta – ne Il rullo compressore e il violino delle vecchie case vengono abbattute dalla palla demolitrice per far posto a una delle Sette Sorelle, mentre il protagonista di Sacrificio dà alle fiamme la propria casa. In Loveless invece l’appartamento in cui vive la famiglia protagonista è messo in vendita dalla prima scena e alla fine del film vediamo degli operai al lavoro. Lo spazio domestico è violentato, smembrato e fatto a pezzi, come nella poderosa scena finale di Leviathan, in cui le ruspe abbattono la dimora di Kolja, lasciandola mutilata e sventrata come lo scheletro di una balena.
Tra le altre immagini-simbolo di Tarkovskij in Loveless troviamo anche la mela, addentata dall’amante di Boris, e lo specchio – titolo della sua opera più autobiografica –, reinterpretato in chiave contemporanea. Gli specchi di Loveless sono schermi neri, black mirrors attraverso cui i personaggi filtrano, distorcono la realtà e che sembrano essere onnipresenti. Gli smartphone si insinuano in ogni attimo della quotidianità, al ristorante, dal parrucchiere, a lavoro, perfino nell’intimità del letto, diventando quasi oggetti di culto. Lo specchio riflettente di Tarkovskij – strumento di autoconoscenza, mezzo di esplorazione del proprio mondo interiore – si tramuta in un dispositivo potenzialmente pericoloso, un buco nero in cui può venir risucchiato ogni residuo di slancio spirituale.
 

Gli specchi di Loveless sono schermi neri, black mirrors attraverso cui i personaggi filtrano, distorcono la realtà e che sembrano essere onnipresenti


Zvjagincev prende in prestito (consapevolmente o meno) molte delle immagini del maestro russo. Non è solo la ricorrenza delle solite immagini a creare un legame tra i due cineasti, ma soprattutto il modo in cui queste immagini vengono interpretate. Come in Tarkovskij, per Zvjagincev l’immagine-simbolo non è un arido enigma intellettuale, ma un contenitore evocativo che lo spettatore è chiamato a leggere alla luce delle proprie esperienze personali, attraverso il filtro della percezione soggettiva. Nel suo universo simbolico gran parte del significato rimane sepolta, invisibile e quindi in certa misura aperta alla visione del singolo. Come interpretare univocamente l’acqua del fiume in cui potrebbe essere annegato Alëša, la base abbandonata di tarkovskiana memoria, cimitero della società sovietica sulle cui fondamenta marcescenti si erge la corrotta Russia contemporanea, o il brandello di nastro segnaletico impigliato al ramo, ultima traccia materiale, reliquia della giovane vita spezzata? La risposta rimane aperta.

Serena Mannucci


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