Il silenzio assordante di Scorsese

Silence e la sfida razionale della fede

Il Signore rispose: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».

Luca, 12, 49 – 53

 

Due millenni di esegesi biblica non sono riusciti a intaccare la ‘scorrettezza’ politica di queste frasi, dalle quali emerge un Gesù guerriero, dove l’amore che caratterizza la sua ‘buona novella’ è indissolubilmente legato all’odio nei confronti delle storture che dominano il mondo. Perché il suo è un messaggio radicale: non accetta compromessi, chiede dedizione assoluta. Tale, del resto, era la fede dei mártyres, ‘testimoni’ di Cristo a costo della vita.
Su questo binario si muove Silence, l’ultima fatica di Martin Scorsese, dedicata alla storia delle persecuzioni anticristiane nel Giappone seicentesco degli Shogun. Protagonisti sono i padri gesuiti Sebastião Rodrigues e Francisco Garupe, che arrivano in terra nipponica per cercare il loro mentore, padre Cristóvão Ferreira, di cui sono giunte notizie allarmanti: secondo voci sempre più insistenti, egli avrebbe abiurato la propria fede e si sarebbe convertito al buddismo. L’arrivo dei due gesuiti ridà speranza alle comunità cristiane, rimaste senza sacerdoti e costrette a vivere la loro fede in segreto, ma alla lunga provocherà una cascata di sangue.

Il cinema ‘aristotelico’ di Scorsese
Di fronte a questo sublime esempio di complessità cinematografica, dove – come vedremo – le domande contano molto più delle risposte che ogni spettatore può dare, ci si chiede il senso di alcune critiche riguardanti un presunto abuso di violenza, che accompagna lo spettatore per tutte le 2 ore e 40 minuti di visione. Sarebbe riduttivo giustificare Scorsese con il ricorso al realismo, che pure è un tipico marchio del suo cinema sin dai tempi remoti del cortometraggio The Big Shave, dove un giovane americano iniziava a radersi e finiva per tranciarsi la gola (metafora geniale di una intera generazione di ragazzini massacrata nella guerra del Vietnam); quello stesso realismo che era alla base di Quei bravi ragazzi, formidabile «relazione clinica» (Morandini) dove la violenza era analizzata in chiave antropologica. Ugualmente riduttivo potrebbe essere riferirsi alla necessità dell’inquadramento storico, come per il sangue che scorre copioso in Gangs of New York, poiché, per quanto mi riguarda, con Silence siamo molto più prossimi ai sentieri impervi e intimisti di Al di là della vita (il più grande film del maestro italoamericano?).
La violenza, in realtà, è un dovere poetico, aristotelicamente inteso. La religione che impone di amare il prossimo come se stessi ha infatti da sempre un rapporto controverso con il Male. La storia dell’arte cristiana è una sequenza interminabile di decollazioni, crocifissioni, corpi straziati da graticole, frecce e spade. Quanto alla letteratura, in autori latini e greci convertiti al Cristianesimo si leggono particolari raccapriccianti, come nella Psychomachia di Prudenzio (IV-V sec. d.C.):

 

La sorte dirige la pietra, sicché il respiro si infrange
in bocca e le labbra si congiungono all’incavo del palato.
Dilaniati i denti, la lingua strappata
riempie la gola recisa di brandelli insanguinati.
La gola si incrudelisce per questi insoliti cibi
e ingurgitando le ossa liquefatte vomita i bocconi che aveva ingoiato.

 

La violenza di Silence è connaturata a questo ‘genere’, secondo i parametri della Poetica di Aristotele e dei suoi epigoni: non è forse un caso che l’ultimo film di Scorsese, aboliti i tipici flashback e flashforward (la scena iniziale di Casinò, con De Niro che salta in aria accompagnato dalla Passione secondo Matteo di Bach, ne è forse l’emblema), rispetti con rigore implacabile le unità di tempo, spazio e azione. E se è vero che, nella tradizione aristotelica, ogni storia richiede il suo stile secondo il concetto del prépon [πρέπον, «ciò che si addice»], ecco che la vicenda di fede narrata da Silence obbliga a un linguaggio essenziale, senza quei movimenti forsennati di camera a cui Scorsese ci ha abituati e che abbiamo tanto amato, laddove gli eccessi di The Wolf of Wall Street erano necessità di genere per raccontare un personaggio estremo. Su questa adesione di forma e contenuto si muove l’intera filmografia del regista italoamericano – cos’era Kundun se non la lenta costruzione e la rapida distruzione del mandala buddista? – e dunque non poteva fare eccezione quest’opera, dalla travagliata gestazione trentennale.

Domande senza risposta
Nessun virtuosismo della cinepresa, del resto, potrebbe aggiungere alcunché alle sequenze più potenti del film: le immagini in rilievo di Cristo pronte per essere calpestate, ieratiche come icone nella loro totale assenza di naturalismo. Quasi un contraltare del Cristo di El Greco, umanissimo e iperrealista, che ispira padre Rodrigues nella sua fede continuamente lacerata dal dubbio: perché quel Dio che invochiamo per venire a salvarci non si manifesta? Sicché il solo punto di partenza possibile per comprendere questo film è il titolo: Silence è il ‘silenzio di Dio’, su cui tanto si era speso (da par suo) Ingmar Bergman.
È un mutismo che contrasta con il bisogno umano di avere un ‘segno’ (chiamasi miracolo o apparizione), opponendosi come un muro alle preghiere dei cristiani nel Giappone del Seicento: nulla di nuovo, se è vero che nessuno, dall’alto dei cieli, rispose a Cristo sulla croce quando gridò “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Se Dio è eterno, fuori dal tempo e dallo spazio, allora significa che Dio non è nella nostra realtà fisica: Dio non è qui. Dio, etimologicamente, non esiste, nel senso che non appare (ex-sistere). Almeno fino a quando Rodrigues arriverà al cospetto di padre Ferreira, la cui assenza ha informato di sé l’intera ricerca del gesuita portoghese: di nuovo, come per Dio, un silenzio parlante, una presenza che si sostanzia nel suo non esserci. Si potrebbe addirittura affermare che Ferreira è l’esatto rovesciamento del Signore cristiano: non è un caso che proprio al suo cospetto si svolga l’abiura di padre Rodrigues, che sceglie di salvare cinque cristiani calpestando una immagine di Cristo crocifisso.

È giusto far morire qualcuno nel nome di una idea da difendere o è più giusto salvare comunque una vita a costo di tradire la propria esistenza? Scegliendo questa seconda strada, Rodrigues non ha forse compiuto il più doloroso dei gesti d’amore?

Da questo momento cruciale del film sgorgano infinite domande. La prima riguarda la contingenza: è giusto far morire qualcuno, anche se disposto a farlo, nel nome di una idea da difendere, o è più giusto salvare comunque una vita a costo di tradire la propria esistenza? Scegliendo questa seconda strada, Rodrigues non ha forse compiuto il più doloroso dei gesti d’amore? Non si è forse sacrificato per gli altri come Gesù ne L’ultima tentazione di Cristo, l’altro capolavoro uguale e contrario a Silence? Ma Scorsese punta ancora più in alto, dove gli interrogativi sono eterni per definizione, e arriva alla più radicale delle questioni filosofiche: e se fosse Dio stesso a tradire l’essere umano, ad essere apostata nei confronti dell’uomo poiché «si trova lontano» da lui (come vorrebbe il greco apó-stasis)? Proprio questa è la posizione implicita dell’ex gesuita Ferreira, sputata in faccia a padre Rodrigues in un serrato confronto teologico che richiama il momento della verità fra il capitano Willard e il colonnello Kurtz in Apocalypse Now.
Oppure è vero il contrario? Se Rodrigues sceglie l’apostasia nel momento in cui Dio e l’anti-Dio si fanno materia tangibile (rispettivamente con l’immagine da calpestare e la figura di Ferreira), significa che solo nel silenzio, nell’assenza, nel non esserci del trascendente si danno le uniche condizioni per il suo senso? È questo il sottotesto che anima l’ultima scena, unico movimento di macchina in tutto il film (ma «dall’esterno» e non dalla prospettiva del protagonista), dove riappare ciò che si credeva perduto per sempre? Di tale portata sono le questioni sollevate da Silence, che esige spettatori disposti a credere in un cinema ancora capace di interrogare le coscienze, nel nome di quello che Miguel de Unamuno ha definito con parole inequivocabili:


Esiste qualcosa che, in mancanza d’altro nome, chiameremo “il sentimento tragico della vita”, che porta dietro di sé tutta una concezione della vita stessa e dell’universo, tutta una filosofia più o meno formulata, più o meno cosciente. E questo sentimento possono averlo, e l’hanno, non solo uomini individuali, ma interi popoli. E questo sentimento non nasce dalle idee, ma piuttosto le genera, sebbene dopo, è chiaro, queste idee reagiscano su di esso, fortificandolo. […] E non serve parlare di uomini sani e malati. […] L’uomo, per il fatto di essere uomo, di avere coscienza, è già, rispetto all’asino o al gambero, un animale malato.
La coscienza è una malattia.


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