Obama folgorato sulla via di Damasco

La Casa Bianca prende le distanze dal conflitto siriano, tra l’appeasement europeo e il presunto pacifismo di Putin

Era il 15 marzo 2011 quando per le strade di Damasco iniziavano a costituirsi piccoli gruppi spontanei che, sull’onda emotiva delle proteste in Africa settentrionale, facevano sentire la loro voce contro il regime familistico di Asad, chiedendo una vera apertura democratica e riforme economiche che restituissero dignità alla popolazione. Da protesta pacifica, la “primavera siriana” si è tramutata in un lungo e rigido inverno, un conflitto esacerbato e prolungato frutto della repressione del dissenso verso il regime e degli atti terroristici dei gruppi jihadisti nel paese. In questo movimentato susseguirsi di eventi, la Siria si è così tramutata non solo in un terreno di scontro tra fazioni opposte, assumendo tutti i caratteri della guerra civile, ma anche in un banco di prova per la comunità internazionale preoccupata nel mantenere gli equilibri geopolitici del Medio Oriente.

Messa subito da parte l’ipotesi (piuttosto inverosimile) di un’attuazione delle riforme richieste da parte di Bashar al-Asad, o del consenso da parte di quest’ultimo ad un dorato esilio come l’omologo tunisino Ben Ali, i potenti del globo si sono mostrati incerti nelle azioni da intraprendere e profondamente divisi al loro interno: Russia e Iran hanno continuato a proteggere Asad per tutelare i loro interessi geostrategici a Damasco; Turchia, Arabia Saudita e Qatar hanno supportato i ribelli nella speranza di rovesciare l’unico alleato iraniano nella regione; gli Stati Uniti e i governi europei, complice anche la stretta della crisi economica, hanno inizialmente condannato l’azione repressiva del presidente siriano escludendo qualsiasi intervento armato che non rientrasse nel quadro delle Nazioni Unite.
Il coup de théâtre che ha rischiato di innescare una precipitosa corsa agli armamenti contro il tormentato Stato del Vicino Oriente è stato l’attacco del 21 agosto a Ghuta, periferia di Damasco, perpetrato nei confronti dei civili con l’uso di armi chimiche. Numerose fonti internazionali hanno accertato il lancio di alcuni razzi contenente gas Sarin, classificato come arma chimica di distruzione di massa, che avrebbe provocato la morte di circa 1300 persone, tra cui molti bambini.
Come sostiene l’autorevole Washington Post, nonostante qualche incertezza iniziale nell’attribuire la paternità dell’attacco, la responsabilità dello stesso sembra essere tutta del regime di Asad per una serie di ragioni: le armi sono state lanciate da nordovest, punto molto vicino a una base militare dell’esercito (le postazioni dei ribelli si trovano dalla parte opposta); i caratteri in cirillico trovati sulle armi provano la fabbricazione russa delle stesse, e la Russia non fornisce di certo armi ai ribelli; le parole utilizzate durante la presentazione dei risultati delle indagini degli ispettori dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon sull’utilizzo di armi chimiche («qualcuno dovrà rispondere per questi crimini di guerra» e «i responsabili dovranno essere processati») sembrano rivolte più al regime di Asad che non a un gruppo di ribelli senza statuto formale.

A prescindere dalla deprecabile inattività delle Nazioni Unite, l’escalation verbale provocata dal raid del regime ha fatto chiedere a molti perché aver ucciso un migliaio di persone con le armi chimiche abbia scosso la comunità internazionale – leggasi Stati Uniti – più delle 100.000 persone uccise dalle armi convenzionali durante l’intera guerra civile.
Con una mossa che ricorda il miglior (o peggior) George W. Bush, Obama ha affermato che Asad ha superato la famosa red line fissata per un intervento militare, compiendo il più orribile crimine di guerra dal 1988 (da quando cioè Saddam Hussein usò il gas Sarin contro migliaia di curdi iracheni).
Il presidente Usa si è in seguito dichiarato pronto ad attaccare anche senza l’avallo delle Nazioni Unite, specificando comunque – stiamo sempre parlando di un Premio Nobel per la Pace – che non verranno inviati soldati americani sul territorio siriano (“no boots on the ground”) come è avvenuto in Iraq o in Afghanistan, né vi sarà una lunga campagna di bombardamenti aerei come in Libia e in Kosovo. La parola d’ordine è stata inizialmente una: attacco “limitato”.
L’America aveva bisogno di alzare la voce, di ridare credibilità alla sua politica estera, innalzando il suo vessillo umanitario per evitare che  nemici storici come Russia e Iran la dipingessero come una tigre di carta. Gli Stati Uniti però, come lo stesso Obama ha più volte ripetuto nei suoi due mandati presidenziali, non sono caput mundi ma primus inter pares. Ciò implica che l’azione militare deve ottenere l’avallo della comunità internazionale la quale non ha affatto dimostrato, se si esclude la Francia e Hollande, alcun entusiasmo alla prospettiva di un intervento in Siria. Già alle prese con una crescente opposizione dell’opinione pubblica interna, Obama ha dovuto ingoiare i bocconi amari provenienti dall’alleato britannico, costretto dal voto del parlamento a chiamarsi fuori da un’eventuale avventura militare, e dalla cancelliera Merkel, professatasi convinta pacifica in concomitanza delle imminenti elezioni politiche. L’umiliazione più grande è però venuta da Mosca.

«We must stop using the language of force and return to the path of civilized diplomatic and political settlement». Queste sono le parole utilizzate dal presidente Putin lo scorso 11 settembre in un articolo indirizzato al popolo americano e pubblicato nientemeno che sulle pagine del New York Times. L’autocrate del Cremlino non si è fatto sfuggire l’occasione di infliggere una lezione di Realpolitik al suo riluttante partner della Casa Bianca, con tanto di codice morale sull’insostenibilità dell’eccezionalità americana, visto che, come ribadisce anche la Dichiarazione d’indipendenza americana, «Dio ci ha creato uguali». È giusto ricordare che si parla dello stesso Putin che nel 2002 autorizzò l’uso di gas nervino per liberare gli ostaggi del teatro Dubrovka a Mosca, causando la morte di 129 di essi, e che nel 2004 approvò l’operazione militare nella scuola di Beslan che portò alla morte di 334 ostaggi fra cui 186 bambini, per non dire delle molte ombre che si allungano sull’assassinio della giornalista Anna Politkovskaja, sulle esecuzioni al polonio e sulla soppressione sistematica di molte delle libertà elementari che il fragile Occidente può ancora vantarsi di disporre.
L’ex KGB che non ha perso il pelo del lupo sovietico e lavora alacremente per riportare la Grande Russia ai fasti dell’imperialismo rosso che fu battuto da Reagan un quarto di secolo fa, ha sfruttato gli argomenti sciaguratamente usati da Obama in anni di retorica anti Usa per rivolgersi al pubblico americano come l’adulto della compagnia, garante dell’ordine mondiale e difensore della pace internazionale.

L’inaspettata eclissi del principio eccezionalista, tratteggiato per la prima volta nel 1840 da Tocqueville nell’opera De la démocratie en Amérique, ha portato negli ultimi giorni all’accordo di Ginevra tra il Segretario di Stato Kerry e il Ministro degli Esteri russo Lavrov sulla dismissione delle armi chimiche del regime di Asad. La mossa diplomatica è però servita solo a trarre d’impaccio l’amministrazione Obama, messa all’angolo da una serie di leggerezze e di inspiegabili errori fino all’impensabile opzione militare “limitata” prefigurata dalla Casa Bianca, il cui unico risultato certo sarebbe stato l’allargamento del conflitto su scala regionale e l’impennata inevitabile della minaccia terroristica nel mondo occidentale.
Lo sbaglio maggiore di Obama è stato quello di aver consentito, per esclusione o per inadeguatezza, che a rientrare dalla porta principale del complesso scacchiere mediorientale fosse questo autocrate cui ora guardano come arbitro autorevole e con una fiducia mai mostrata prima non solo il suo protetto Asad, ma anche le potenze regionali come l’Iran e l’Egitto, e a suo modo lo stesso Israele, dove l’indice di gradimento di Obama è oltremodo precipitato, insieme alla fiducia nell’eccezionalismo americano. Il presidente si sta gradualmente disimpegnando dal ruolo di leader che incombe su chi abita alla Casa Bianca, come ha già dimostrato l’atteggiamento di basso profilo nell’affaire libico.
In conclusione, il vero vincitore della disputa mediorientale sembra essere ironicamente Asad: inchiodato appena poche settimane fa al ruolo di tiranno spietato e sanguinario, con cui nessun governo avrebbe dovuto intrattenere relazioni di alcuna sorta, il presidente siriano è adesso divenuto il principale garante ed esecutore del disarmo dell'arsenale chimico siriano, nonostante il rapporto degli ispettori delle Nazioni Unite lo renda oggi maggiormente sospettabile di “crimini contro l'umanità” di quanto lo fosse al momento dell'ultimatum americano. Un interlocutore unanimemente accettato che ha compiuto un piccolo miracolo, paragonabile alla celebre conversione di San Paolo nella tradizione cattolica. Anche quella inaspettata. Anche quella a Damasco.


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