La Nigeria dilaniata

La minaccia dell’organizzazione terroristica Boko Haram e un paese allo sbando

Il rapimento di 276 studentesse avvenuto lo scorso mese nel nordest della Nigeria ad opera del gruppo estremista islamico Boko Haram è ormai divenuto un caso di livello mondiale. In un recente video postato su internet, il leader del movimento Abubakar Shekau ha definito le ragazze “schiave” e ha minacciato di venderle al mercato: da qui è partita una campagna mediatica virale che, al grido di #BringBackOurGirls, ha smosso le coscienze di eminenti personalità attorno al globo. Tra di esse anche Michelle Obama, che ha twittato una foto di se stessa con in mano un cartello riprendente il sopracitato hashtag.

Di certo è sorprendente che la lunga serie di stragi perpetrate da Boko Haram sia venuta alla ribalta a livello internazionale con così ampio ritardo. L’organizzazione, sebbene sia affiliata a vari gruppi di al Qaeda, è essenzialmente legata alla realtà nazionale nigeriana e nasce come sintesi della disperazione e rabbia verso la corruzione e inefficacia del governo. Come riportato da Human Rights Watch, Mohammed Yusuf, il primo leader del gruppo, non avrebbe riscosso tutto questo successo se avesse agito nel quadro di uno stato efficiente ed operativo; il suo credo è stato ben presto accettato perché l’ambiente e la frustrazione hanno creato terreno fertile per la diffusione della sua ideologia.
Così come le radici del movimento, anche i suoi obiettivi sono radicati nel territorio: la sua versione fondamentalista dell’Islam ripudia le influenze secolari e occidentali e mira alla creazione di uno stato islamico “puro” in Nigeria. A tal fine, il gruppo ha messo in atto numerosi attentati nel nord del paese per anni, prendendo di mira principalmente le scuole, luoghi in cui è forte il desiderio di Occidente: lo scorso febbraio i membri del gruppo hanno attaccato un collegio nel cuore della notte bruciando vivi alcuni adolescenti e risparmiando le ragazze (ad esse è stato consigliato di far ritorno a casa, rinunciare all’istruzione laica e sposarsi).

La scelta di attaccare le scuole può essere inoltre vista sotto un’altra lente, quella della denuncia sociale. Nonostante la Nigeria sia uno dei più grossi produttori mondiali di petrolio, dal 1991 la quota di spesa nazionale per l’istruzione registra un misero 1%; a livello mondiale solo la Birmania ha fatto peggio. È quindi compito degli studenti nigeriani acquistare libri e uniformi, per un costo medio che si aggira sui 200 dollari, chiaramente proibitivo per la maggior parte delle famiglie. La tattica terroristica di Boko Haram rischia inoltre di esacerbare le già evidenti disparità tra nord e sud in questo ambito: nel 2010 gli iscritti alla scuola primaria nello stato settentrionale di Zamfara rappresentavano solamente il 18% della popolazione mentre lo stato meridionale di Anambra vantava un 86% di giovani alunni. A questi dati bisogna aggiungere che in alcune regioni del nord solamente il 20% delle donne afferma di saper leggere. Per fronteggiare e sanare un divario così vasto bisogna adottare una strategia a livello governativo che contrasti in maniera decisa l’organizzazione islamista: è evidente come lo stato d’assedio generato da Boko Haram influisca negativamente sull’alfabetizzazione della Nigeria settentrionale. Ma è proprio la latente autorità politica centrale il fulcro del problema.

Goodluck Jonathan, come il nome lascia intendere, è sempre riuscito a trovarsi nel posto giusto al momento giusto, ma non questa volta. Presidente della Nigeria dal 2010, insignito del titolo a meno di 12 ore dalla morte del predecessore Umaru Yar'Adua, Jonathan è altresì capo delle forze armate della nazione più popolosa del continente, nonché una delle democrazie notoriamente più fragili. Ci sono volute tre settimane prima che il presidente prendesse posizione sulla vicenda del rapimento delle ragazze, e nel farlo ha incolpato tutto e tutti per l’escalation di violenza nel nordest del paese. Tutti meno che il suo stesso esecutivo. I suoi alleati accusano i governatori del nord di aver fomentato volutamente le violenze nel territorio in risposta al tradimento del gentleman’s agreement siglato con Jonathan, il quale si sarebbe impegnato a lasciare la presidenza dopo il primo mandato. Premesso che sarebbe illogico supporre che tali politici sacrifichino le proprie figlie sull’altare dell’ascesa politica solamente per prevenire un secondo mandato di Jonathan, la verità è che Boko Haram ha sfruttato l’incapacità di governo del presidente per tramutare le innocue schermaglie iniziali in un vero e proprio stato di guerra.
Boko Haram ha iniziato ad operare molto tempo prima della comparsa di Goodluck, ma negli ultimi quattro anni gli attacchi terroristici hanno assunto proporzioni notevoli: solamente nel 2011 sono stati presi di mira il palazzo delle Nazioni Unite ad Abuja in agosto e una chiesa nei sobborghi della capitale durante la processione natalizia. All’indomani degli attacchi, molti edifichi governativi nella capitale, incluso il quartier generale della polizia, sono stati letteralmente barricati e il numero dei checkpoint è triplicato.
Invece di raccogliere il sentimento comune e far riemergere il paese da questo abisso di violenza, Jonathan si è limitato a impartire ordini pensando al proprio tornaconto personale: finché Abuja è al sicuro, il resto del paese può tranquillamente cadere in rovina. Illusione, peraltro, che è stata prontamente distrutta da due recenti attacchi kamikaze ad una stazione degli autobus poco distante da Aso Rock, la residenza presidenziale. L’attacco ha sollevato numerose polemiche, in particolare sull’inefficienza delle telecamere a circuito chiuso installate due anni fa ad Abuja dal governo proprio per prevenire atti di questo tipo. Le stesse, costate la bellezza di 470 milioni di dollari, erano da tempo non funzionanti. Se non si è in grado di proteggere il centro principale del paese, che speranze ci sono di fronteggiare la sfida terroristica di Boko Haram?

Due anni fa, in un momento di esasperazione misto a frustrazione, Goodluck Jonathan esternò il sospetto di infiltrazioni terroristiche nel suo governo. Sia che la Nigeria sia stata ridotta in ginocchio dall’interno, sia che la corruzione e la flebile - se non inesistente – leadership abbia fiaccato la controffensiva governativa, è tremendamente chiaro che è in atto una guerra per la sopravvivenza stessa del paese. I due nodi cruciali, religione ed etnia, sono rispuntati nelle loro forme più violente, rimarcando lo stato di povertà in cui versa la popolazione. Ritrovare le 300 ragazze rapite potrebbe essere un buon punto di partenza per far riacquistare credibilità alle istituzioni sia all’interno del paese che a livello internazionale, ribadendo a gran voce che le alte cariche dello stato, anziché gettare la spugna, si impegnano giornalmente a garantire alla Nigeria una certa stabilità e continueranno a farlo nel futuro. In tal senso, la richiesta di inserire Boko Haram nella lista delle Nazioni Unite delle organizzazioni terroristiche legate ad al Qaida, per le quali vengono applicate sanzioni come l’embargo sulle armi e il congelamento dei beni, denota piccoli passi in avanti.
È proprio da questi punti che si deve ripartire salvare la Nigeria dallo sbando, avendo però come priorità assoluta l’istruzione: essa rappresenta il caposaldo fondamentale deputato a formare le future generazioni che guideranno il paese, possibilmente immuni dall’oscurantismo che vuole imporre l’immagine di un “Dio iracondo” contravvenendo ai principi dell’Islam stesso. Nel Corano, infatti, il “Wa’ed” (il “seppellire vive le neonate”) è considerato una manifestazione di malvagità, e pertanto viene Haram, proibita.


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