La dignità della donna è la dignità dell'uomo
E se invece che dalla donna dovessimo ripartire dall'essere umano?
«L’influenza della donna in Europa è diminuita nella misura in cui si sono accresciuti i suoi diritti e le sue pretese; e l’«emancipazione della donna» […] risulta di conseguenza un sintomo rilevante del crescente infiacchimento e ottundimento degli istinti più femminili. […] Come se la storia non ci insegnasse [...] che le donne più potenti e più ricche di influenza dovevano proprio alla loro forza di volontà - e non ai precettori! - il loro potere e il loro sopravvento sugli uomini». Questo lo scriveva 133 anni fa Friedrich Nietzsche in Al di là del bene e del male, ma potrebbe benissimo essere il settimo punto del volantino della Lega giovani di Crotone uscito proprio in occasione della Festa della donna lo scorso 8 marzo. Nel volantino – che, forse, ha più le fattezze di un manifesto ideologico – si attacca “chi offende la dignità della donna”, andando da chi favorisce l’utero in affitto (usurpazione del ruolo di madre feconda come cardine della famiglia e della vita) a chi vuole uniformare le differenze di genere ricorrendo alle nuove terminologie neutre di “genitore1” e “genitore2”, passando per la “rivoluzionaria” pretesa di autodeterminazione femminile che altro non sarebbe, a loro avviso, che un tentativo di iniettare un rancoroso e conflittuale risentimento nei confronti dell’uomo. In risposta non ha tardato a levarsi un nugolo di critiche contro una visione ritenuta fondamentalmente sessista e retrograda. Perfino Salvini ha dovuto prendere le distanze dalla polemica dichiarando di non condividere i sei punti del volantino e richiamando la necessità di un lavoro per l’ottenimento della parità dei sessi. Una tanto rapida e decisa levata di scudi nei confronti dei diritti delle donne non dovrebbe che lasciarci piacevolmente soddisfatti: finalmente alcuni temi fondamentali sono dati per assodati e ritenuti imprescindibili. La discussione, insomma, parrebbe non porsi.
Ma le cose stanno veramente così? Appena 21 giorni dopo la Festa della donna si tiene a Verona il controverso XIII Congresso Mondiale delle Famiglie che, giusto a dare una sbirciata ai nomi dei relatori, pare muoversi proprio sui binari teorici sintetizzati nel volantino leghista dell’8 marzo. Lo stesso vicepremier Salvini compare tra i suoi fieri partecipanti. Schizofrenia? Non penso proprio. Mi pare invece che in gioco ci sia una sostanziale differenza di profonde visioni culturali tra loro contrapposte: da una parte il liberal libertario movimento femminista – recentemente incarnato nel MeToo –, dall’altra il revanscismo conservatore perlopiù di stampo cattolico. Smarcandoci dalle strumentalizzazioni politiche alle quali sono sottoposte entrambe le posizioni, mi pare che il fulcro della questione ruoti attorno alla domanda: cosa intendiamo quando usiamo la parola ‘donna’? Esiste qualcosa come una “natura” femminile (e, di pari, “maschile”), oppure parlare di essenze non è altro che un sortilegio metafisico per ingabbiare e controllare questa alterità che, in quanto tale, avrebbe quindi il diritto/dovere di autodeterminarsi liberamente? E chi dovrebbe parlarne: ancora una volta l’uomo, rischiando però di passare per il tutore che paternalisticamente elargisce le sue concessioni, oppure si tratta di un terreno dove può avere libero gioco un dibattito unicamente al femminile?
Esiste qualcosa come una “natura” femminile oppure parlare di essenze non è altro che un modo per ingabbiare e controllare questa alterità che, in quanto tale, avrebbe quindi il diritto/dovere di autodeterminarsi liberamente?
La problematica è, evidentemente, spinosa e oramai ampiamente articolata e variegata, al punto da intrecciarsi con tutta la galassia di rivendicazioni LGBT e più in generale legate alla tematica gender. Vorrei però prendere in prestito da Nietzsche – che sulle donne, si sa, ha spesso speso parole non proprio generose – alcune intuizioni tutt’ora di estrema attualità. Centra, quantomeno parzialmente, alcuni nodi cruciali che troppo spesso vengono liquidati come rigurgiti oscurantisti. Innanzitutto il cosiddetto “indottrinamento” della donna, ovvero il far rifluire la sua differenza all’interno dell’alveo maschile. A suo avviso infatti l’emancipazione femminile – per come stava nascendo e per come oggi, per certi aspetti, possiamo vedere attuata – altro non è che una tecnica di storpia riconversione mascherata secondo categorie maschili. Alla donna è stata progressivamente concesso (termine non casuale) di partecipare alla grande lotta per il potere, ma sempre ahinoi di potere si tratta. Potere che piaccia o meno non va tanto per il sottile guardando ai vari generi: uomini o donne che siano, la sua grammatica si rivela essere implacabilmente e inesorabilmente la medesima. Basti pensare ai vari casi di abusi perpetrati dalle donne (di potere) ai danni degli uomini e che tanto spesso sono stati utilizzati come contraltare all’insorgere delle proteste del MeToo. Si tratta delle identiche dinamiche di forza.
Ovviamente se da qui si pensa di ristabilire le diverse sfere di competenza sociale (alla donna i lavori di casa, di madre; all’uomo quelli di procacciatore di ricchezze e di sostentamento familiari) si cade nel più bieco e ridicolo sessismo, ma non vedo differenza tra questo genere di estremismi ideologici e quelli che, ad esempio, si possono vedere nell’illuminante (e inquietante) La teoria svedese dell’amore di Erik Gandini. Nel documentario il regista italiano sonda tutta una serie di fenomeni collaterali connessi alla liberalizzazione dei costumi che dagli anni ’70 ha preso avvio in Svezia. Il mantra ricorrente è sempre il solito: piena e libera indipendenza dell’individuo e del suo diritto a una totale autoaffermazione. Tutto ciò che può ostacolarli – famiglia, relazioni sentimentali, obblighi parentali – deve perciò essere rimosso. Cosa ne è derivato nell’arco di quarant’anni? La metà della popolazione vive da sola; molti anziani muoiono in anonimi alloggi senza che nessuno si accorga della loro assenza (tant’è che esiste un’apposita agenzia deputata a rintracciarne i parenti al momento della loro morte); ai giovani vengono proposte terapie contro l’individualismo e la depressione (si parla, non a caso, di “rialfabetizzazione emotiva”); le donne si interrogano sul perché dovrebbero legarsi a un partner quando con un click su internet possono acquistare una fialetta contenente spermatozoi maschili per potersi autonomamente fecondare e, così, iniziare la propria famiglia da sole.
Quando si parla del “ruolo naturale della donna” mi pare che al contempo si centri e si manchi il bersaglio: emancipazione deve per forza significare assunzione di un modello neutro che appiattisce le differenze, riducendo l’essere umano a una vuota funzione produttiva sfrondata da qualsiasi altro tipo di caratterizzazione? Lottare contro questa deriva necessariamente implica appellarsi a un ideale del femminile schiacciato sulla mera capacità biologico-riproduttiva (con la relativa esclusione dall’universo affermativo ed emancipativo del lavoro)? Davvero l’intero problema deve essere lasciato in balìa di una strumentalizzazione meschina di queste due posizioni estreme? Quello che a mio avviso ancora manca è un’istanza globale che inviti nuovamente a prendere in considerazione l’essere umano. Uscendo però dalle dinamiche meramente performative e utilitaristiche del potere. Dovremmo inventare una nuova grammatica di senso, in parte anche riscoprendola da una tradizione che, in quanto tale, non può né deve essere negata in toto. Finora abbiamo corso sull’unico binario che abbiamo avuto modo di conoscere: il potere maschilista, dove l’aggettivo non qualifica (e incolpa) un genere, ma una declinazione delle logiche di potere. Sentiamo invece l’insanabile mancanza di un altro binario, di una possibilità di essere umani altrimenti, e questa può essere illuminata dallo sviluppo e potenziamento di quelle doti che da sempre hanno caratterizzato la femminilità: il cosiddetto caring, l’intelligenza emotiva, la maggiore predisposizione a un pensiero non calcolante, giusto per citarne alcune. Tutto questo può, evidentemente, sfociare allo stesso modo in versioni stereotipate e naïf di regressione a un’immagine primitiva dell’essere umano, da cui i vari modelli di comunitarismo spicciolo che talvolta vediamo proposti come alternativa al male capitalistico. Anche qui, allora, si tratta di mantenere una certa cautela. Non fosse altro che per le evidenti ripercussioni che queste considerazioni hanno all’interno della sfera più ampia del politico.
C’è del vero in entrambe le posizioni. Quando evidenziano delle istanze profonde che reclamano un riconoscimento e non una netta cesura tra giusto o sbagliato
C’è del vero in entrambe le posizioni. Quando evidenziano delle istanze profonde che reclamano un riconoscimento e non una netta cesura tra giusto o sbagliato, che appare sempre più un escamotage per eludere un più attento e approfondito confronto. Certo, le posizioni categoriche hanno da sempre un vantaggio: l’irresistibile fascino del partigianismo, dell’avere una bandiera e una causa da sposare e nelle quali potersi identificare. Identificazione che però reclama sempre un esterno, un negativo (un nemico) contro il quale strumentalmente contrapporsi, e così trovare la propria forma. Allora, se davvero vogliamo prendere sul serio la problematica delle differenze di genere che scaturisce dal dibattito sui diritti delle donne, dovremmo forse fare un passo indietro, mettere da parte le ideologie di bassa lega che troppo liberamente circolano nell’odierno mercato delle idee e farci carico del più arduo e scomodo compito di approfondire seriamente la questione: quale dignità, oggi, per l’essere umano?
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