Il sogno europeo

La luce fioca delle stelle, ventotto o cinque che siano

«Bisogna cambiare il corso degli avvenimenti. Bisogna cambiare, per questo, lo spirito degli uomini. Non bastano delle parole. Solo un’azione immediata su un punto essenziale può smuovere l’attuale situazione di stasi. È necessaria un’azione profonda, reale, rapida e drammatica che cambi le cose e faccia entrare nella realtà le speranze alle quali i popoli stanno per non credere più». Le parole di Jean Monnet, scritte nel Memorandum del 1950, risuonano con rinnovato vigore anche oggi. Soprattutto oggi. Nel volgere di una notte le sorti dell’Unione europea sono innegabilmente mutate. Si è avuta la conferma inequivocabile di un sentimento corrosivo, latente, violento che pervade gli animi. Il risultato del voto europeo fornisce la prova di un’Europa disaffezionata, profondamente inaridita, stanca. In fondo, sempre più povera. Un’Europa in cui la coesione si sgretola, e gli alti ideali comuni sbiadiscono, ottenebrati dall’irruenza dello sciovinismo più angusto.

Le elezioni hanno dato un segnale concreto del pericolo che sta correndo l’Unione europea. Non c’è solo l’affermazione del Partito popolare europeo e dei Socialisti democratici. C’è la bassa affluenza. E poi c’è la deriva euroscettica ed estremista, oltre che populista. A lungo paventata, adesso è comprovata dal voto. Dal Front National della Le Pen in Francia, che registra il risultato migliore tra tutti, ad Alba Dorata, passando per l’Npd tedesco, arriva un impeto destrutturante, in un tripudio di autocompiacimento. Questi nuovi soggetti politici non propongono riforme dall’interno, bensì hanno l’obbiettivo le sorti dell’Europa dal cuore stesso delle istituzioni. Intendono riacquistare la propria sovranità nazionale alienata a beneficio della pace e della stabilità. E questo è un rischio che sarebbe sciocco minimizzare ancora. Ma se l’esplosione incontrollata antieuropeista e demagogica percorre l’Europa, l’Italia, invece, si mette al riparo. Quel quaranta per cento del Partito democratico è una conferma che «c’è un Italia profonda che non si rassegna». Un’Italia che sa distinguere tra la speranza e l’illusione. Ma, soprattutto, è una vittoria netta per il premier, Matteo Renzi. È difficile pensare che senza di lui il Partito democratico sarebbe comunque riuscito a raggiungere agevolmente certi risultati. La discontinuità col passato che il nuovo esecutivo ha saputo segnare – non solo a parole e diapositive – ha premiato.

Messo da parte il linguaggio della rottamazione, Renzi parla di costruire, adesso. Riporta alla luce le parole sommerse dalla crisi e che guidano quella parte del Paese che, pur provata, non cede. In una campagna elettorale dai toni accesi, dominata dalle boutade effimere, dagli attacchi personali e dai deliri sconclusionati, ha portato il modus in rebus. Sfilandosi dalla scadente sticomitia intercorsa a lungo tra Grillo e Berlusconi, ha fatto leva sulle proposte e su un genuino sentimento europeista, forte anche del consenso della classe media nei confronti dell’azione di governo. Quel quaranta per cento si traduce in stabilità. Garantisce che vi siano i margini per riprendere un percorso di riforme che negli ultimi tempi aveva sofferto di un rallentamento piuttosto evidente. Corrobora la linea dell’esecutivo, induce gli alleati a convergere sul programma. Nessun partito, e forse nemmeno il Pd, si augurerebbe adesso le elezioni. Nemmeno Forza Italia, che prende atto di un risultato piuttosto al di sotto delle attese, e si trova a dover temporeggiare per trovare una soluzione alla défaillance. Una crisi di governo e le urne significherebbero sancire ancora più nettamente una sconfitta che così resta solo ufficiosa, e superficiale.
L’affermazione del Partito democratico, oltretutto, fa ben sperare per l’avvio del semestre europeo. La stabilità interna al Paese, infatti, non può che giovare anche al periodo che si inaugura il prossimo mese, e che vedrà l’Italia assumere un ruolo più prominente nelle politiche dell’Unione europea. Soprattutto perché, agli occhi dell’Europa che conta, il nostro Paese, insieme alla Germania, ha il merito di aver contenuto l’avanzata euroscettica.

Il Movimento cinque stelle ha infatti ottenuto un risultato assai deludente. Poco più del ventuno per cento non è abbastanza per saziare la fame dell’elettorato della disperazione. Tempestivamente si leva un grido estremo dall’onnipotente blog di Beppe Grillo. «Adesso ci state prendendo in giro», rivolgendosi con un tocco di ingenuità puerile a quanti ironizzano sulle sorti del Movimento. Subito si va alla ricerca di un capro espiatorio adatto per giustificare l’inatteso. «Quest’Italia è formata da generazioni di pensionati che non hanno voglia di cambiare». Eccola, la motivazione più inconsistente di tutte, pronta per essere versata nelle menti degli elettori. Gli scenari sconclusionati da Rivoluzione francese non hanno premiato. L’idea perversa di una nebulosa democrazia orizzontale è stata superata da quella assai più sana di una democrazia solida. La devastazione verbale ha ceduto alla proposta moderata. E persino il progetto reazionario e delirante di un novello Comitato di Salute pubblica, arbitro del bene e del male, che processasse sotto l’egida dell’ignoranza i politici, i giornalisti e gli imprenditori è fortunatamente tramontato. Se può essere vero che il Movimento cinque stelle abbia costituito un freno all’insorgenza di partiti estremisti in Italia, è pur vero che i toni, in molti casi, non sono così moderati.

Se per ora il fare ha prevalso sul disfare, non si può certo sottovalutare il rischio che la deriva antieuropeista coinvolga anche il nostro Paese, e che le acque putride della reazione lambiscano le nostre coste. Il malessere che aleggia in Europa non è una minaccia lontana. Sull’Europa, all’indomani delle elezioni, incombe il rischio di vanificare sessant’anni di accordi e di intese e di cooperazione. Ora ci si accorge che la frammentazione è uno degli scenari possibili. Non bisogna indugiare, quindi, nel porre rimedio ad una crisi identitaria, prima ancora che economica. Come in un quadro di Gauguin, c’è da chiedersi da dove veniamo, che siamo, dove andiamo. Riscoprire un fondamento solido su cui radicare un progetto più ampio, da sempre ostacolato dai particolarismi che, a tratti, sono stati ora più marcati, ora più superabili. Cedere alle istanze nazionaliste significa far vacillare il futuro. Significa suonare un Inno alla gioia senza armonia.
Probabilmente, ha fallito la rigidità burocratica, che ha vanificato gli ultimi anni di un progetto ambizioso e innovativo. Ha fallito la blandizie, ma parimenti anche il rigore. Hanno fallito gli artefici di uno sviluppo lento e impreciso. Ma non ha fallito il sogno europeo. Per questo, l’impegno deve essere anzitutto orientato a ristabilire i principî originari dell’Unione. A correggere, più che a disfare. A risanare, anziché sopprimere. Bisogna strappare l’Europa ai venditori di violenza. E l’Italia, con questo voto, può essere parte attiva di una rinascita.


Parte della serie Speciale Europee 2014

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