Due anni di Brexit | Eureka
7 grafici per capire il Regno Unito post referendum
In pochi, due anni fa, si aspettavano la vittoria di Leave. Ma forse ancora meno si aspettavano quello che sarebbe successo di lì a poco. All’indomani del referendum, l’allora premier David Cameron, dopo aver incensato il suo sgangherato azzardo politico come «un grande esercizio di democrazia, forse il più grande nella nostra storia», si affrettò a rassegnare le dimissioni, adducendo la necessità di «fresh leadership» per il Paese. Altrettanto prontamente, anche il raggiante leader del partito nazionalista UKIP, Nigel Farage, dopo aver celebrato il momento come «a victory for ordinary people, a victory for decent people», forse convinto che uscire dall’Unione Europea fosse un processo rapido e indolore, abbandonò la politica. E lasciò il suo amato e glorioso Paese a fare i conti (piuttosto salati, tra l’altro: tra i 35 e i 39 miliardi di sterline, secondo le stime) con l’ignoto. Perché visto che Brexit sembrava così implausibile, nemmeno il governo aveva preparato un piano per quest’eventualità. E allora il nuovo primo ministro, Theresa May la Temporeggiatrice, ormai avvezza a muoversi tra le insidie di una maggioranza parlamentare incredibilmente automutilata con una snap election, si è trovato a non poter fare altro che continuare a esortare i colleghi europei a trovare una «soluzione creativa» ad una scelta senza precedenti. In fondo, «Brexit means Brexit». Ma questa tautologia dimostra un fatto molto chiaro: che nessuno sa cosa Brexit significhi.
INCERTEZZA
Se c’è un Leitmotiv che ha dominato il periodo successivo al referendum, è l’incertezza. Non ci sono precedenti a cui affidarsi per capire quale sarà il destino del Regno Unito fuori dall’Unione Europea. A livello macroeconomico, la mancanza di chiarezza sul futuro è esiziale, tanto per l’opulenta élite finanziaria della City quanto per l’operaio di Nottingham che teme la globalizzazione e la tecnologia. L’Economic Policy Uncertainty Index mira a cogliere il livello di incertezza in una economia, e per il Regno Unito sembra mostrare una certa correlazione con l’andamento del PIL nominale. Con la crisi del 2008, mentre la recessione iniziava a distruggere ricchezza, il livello di incertezza è balzato improvvisamente. Ma un salto ancora più elevato si è registrato a seguito del referendum, che ha visto un balzo di oltre 1.5 percento rispetto all’anno precedente, mentre il PIL nominale ha registrato una leggera flessione. E sebbene questa incertezza sia poi diminuita sensibilmente nel 2017 e nei primi mesi del 2018, la crescita economica del Regno Unito ha rallentato: il primo trimestre di quest’anno ha registrato la crescita più bassa in cinque anni, allo 0.1%, con una significativa contrazione del settore delle costruzioni e del manifatturiero. Intanto, la crescita del PIL in termini reali dell’Eurozona, al 2.4 nel 2017, ha superato quella del Regno Unito, scesa all’1.8, ai minimi dal 2012.
INFLAZIONE E SALARI
Se il governo era del tutto impreparato all’eventualità di un voto contro l’Unione Europea, i mercati finanziari lo sono stati in misura minore. Quantomeno, sono stati capaci di reagire prontamente all’indomani del voto, all’apertura dei mercati. La sterlina perse in un giorno oltre il 9 percento contro il dollaro e il 5 percento contro l’euro, e non ha mai recuperato da allora. Il deprezzamento repentino della sterlina ha avuto l’effetto di spingere l’inflazione. In generale, la Bank of England non è stata mai molto capace di mantenere l’inflazione al target del 2 percento: negli anni Settanta, in piena crisi petrolifera e prima della cura Thatcher, l’inflazione superò il 24 percento. Dopo un periodo di relativa stabilità dagli anni Novanta alla recente crisi finanziaria, l’implementazione del quantitative easing da parte della banca centrale ha contribuito a portare l’inflazione intorno allo 0.5 percento. Ma con il referendum i prezzi hanno cominciato ad aumentare improvvisamente, portando nel giro di un anno l’inflazione a raggiungere il 3 percento, costringendo la Bank of England a un innalzamento dei tassi di interesse, portando il costo del denaro dallo 0.25 percento allo 0.5. Questo innalzamento dell’inflazione sembra avere avuto conseguenze sul potere d’acquisto delle famiglie. La crescita dei salari si è mantenuta debole almeno fino ad aprile 2018, erodendo di fatto la capacità di spesa delle famiglie. Considerando il ritratto del votante-tipo di Brexit, con un reddito inferiore a 20mila pound l’anno e un livello di istruzione medio-basso, è chiaro che proprio quelli che hanno difeso l’uscita dall’Unione Europea sono stati i primi a perderci.
RISPARMI DELLE FAMIGLIE
In un momento di incertezza, le famiglie solitamente riducono i consumi, per proteggersi da eventuali deterioramenti ulteriori delle condizioni economiche. Ma non nel Regno Unito, dove i consumatori sembrano essere impavidi (il Regno Unito è anche il primo Paese in UE per acquisti online, con l’82% della popolazione che utilizza internet per acquistare beni e servizi). Infatti, il livello di risparmio delle famiglie nel 2017 ha toccato i minimi dal 1963. Su cento sterline di reddito, in media le famiglie sono riuscite a risparmiare solo 3.7 pound nel primo trimestre del 2017. Una delle spiegazioni del trend potrebbe essere la crescita dell’inflazione, che ha eroso i redditi senza in realtà aumentare i consumi. E questo non sarebbe sicuramente un segnale incoraggiante per l’industria.
MERCATO IMMOBILIARE
Se il mercato delle costruzioni soffre, sembra essere in difficoltà anche il mercato immobiliare, soprattutto a Londra. L’incertezza si percepisce più nettamente nel momento in cui sono necessarie decisioni importanti, e acquistare un’abitazione lo è certamente. Il mercato immobiliare è in calo da giugno 2016: i prezzi crescono meno in tutto il Paese, ma il rallentamento è assai più consistente a Londra, dove si concentrano ben sette delle 10 aree residenziali dai prezzi più proibitivi dell’intero Regno Unito. Dopo un picco di crescita annuale di quasi il 15%, ad aprile la crescita media nella capitale si è attestata intorno all’1 percento.
IMMIGRAZIONE NETTA
Uno degli argomenti forti della campagna referendaria è stata l’immigrazione. Come ha raccontato l’Economist in un articolo, la percezione degli immigrati nel mercato del lavoro può avere avuto un ruolo nel determinare le scelte di voto. Dal 2012, un crescente numero di cittadini europei si è stabilito all’interno dei confini del Regno Unito. Almeno fino al 2016, quando il trend sembra essersi attenuato, con un calo significativo dei cittadini europei che hanno fatto del Regno Unito la loro residenza. Al contempo, il numero degli expats britannici verso l’Unione Europea è cresciuto dal 2013, e sembra essersi intensificato nel 2017. Tra questi, molti pensionati stabilitisi in Spagna che consultavano ansiosi la BBC in cerca di risposte sul loro futuro nell’eventualità di una vittoria del Leave.
STUDENTI UE
Un’apparente contraddizione è rappresentata dal numero di studenti europei che si recano a studiare nel Regno Unito. Lo spettro dell’uscita dall’Unione Europea non sembra aver scoraggiato i giovani, che continuano a scegliere il Regno Unito per i loro studi, mostrando dati in forte controtendenza rispetto a quanto anticipato. Alla base di questo andamento è probabile che ci sia l’ottima reputazione del sistema universitario del Regno Unito, che è rimasta per adesso intatta, anche se potrebbe soffrire soprattutto in termini di internazionalizzazione una volta che la separazione dall’Unione Europea avrà luogo. Al contempo, la garanzia per gli studenti europei di poter sicuramente beneficiare dello stesso piano tariffario degli studenti britannici ancora per questo anno accademico (e non di quello assai più oneroso riservato agli studenti non europei) può avere certamente esercitato dell’influenza.
CRIMINI D’ODIO
I dati su crimini d’odio denunciati alla polizia non mostrano una variazione improvvisa riconducibile al referendum. Mostrano qualcosa di molto più preoccupante: un Paese che ha, nel tempo, maturato un livore sempre più forte verso l’immigrazione, che è culminato nel desiderio di isolazionismo espresso appieno nel referendum. I dati presentati nel grafico non si riferiscono al numero di casi, ma al loro livello rispetto all’anno precedente: dal 2012, i crimini sono aumentati senza posa. Nel 2013, si sono registrati oltre il 40 percento di crimini legati a motivi di religione rispetto all’anno precedente, e nel 2017 l’aumento rispetto all’anno precedente è stato ancora consistente, di quasi il 35 percento. Similarmente, i crimini a sfondo razzista sono aumentati di oltre il 26 percento.
A due anni di distanza dal referendum, le certezze restano poche. Nel tempo, si sono raggiunti accordi sui diritti dei cittadini, la giurisdizione della Corte di giustizia europea, il periodo di transizione dopo la conclusione del processo di divorzio. Ma molto resta ancora da fare. Il tempo scorre. I fondamentali dell’economia britannica rimangono tutto sommato solidi: una disoccupazione relativamente bassa (ad aprile, al 4.2 percento) e una produttività abbastanza elevata da rende il Paese competitivo, unitamente ad una amministrazione generalmente funzionante e attenta ad attrarre investimenti. Ma parte consistente del successo del Regno Unito è derivata, nel corso del tempo, dall’apertura e dalla partecipazione al mercato unico, grazie al quale è anche diventato il punto di riferimento per i grandi investitori in Unione Europea. Il rischio è che questo vantaggio comparato svanisca in mancanza di un accordo condiviso sul divorzio e sulla nuova relazione commerciale tra UK e UE. C’è solo da sperare che il governo di Theresa May abbia pronto un piano per il dopo-Brexit, prima della scadenza del periodo di uscita.
REFERENZE
Grafico #1
- PIL nominale: Eurostat
- Incertezza: Economic Policy Uncertainty Index (eds. Baker et al.)
Grafico #2
Grafico #3
- Risparmio delle famiglie: ONS
Grafico #4
- Prezzi mercato immobiliare: Land Registry UK
Grafico #5
- Immigrazione: ONS
Grafico #6
- Studenti UE: HESA
Grafico #7
- Crimini d'odio: UK Government
Parte della serie Eureka, la rassegna europea
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