Così vicino così lontano

Dalla nascita del Fespaco a "Timbuktu": il cinema africano tra passato, presente e futuro

«Dall’Africa c’è sempre qualcosa di nuovo», scriveva Plinio il vecchio a conclusione di uno dei suoi viaggi esplorativi, e possiamo dire che questa si è tramutata in una massima per il grande e sconfinato Continente Nero. Quel che di nuovo è arrivato e arriva dall’Africa, negli ultimi dieci, quindici anni, è una vasta quantità di opere filmiche che per contenuti e qualità sta valicando i confini e abbattendo le distanze con l’Occidente. Nel cinema l’Africa sta dando i suoi migliori frutti, perché ha iniziato a usufruire di quei diritti negati anche in campo artistico, dando vita a un’evoluzione dal punto di vista culturale che pian piano sta modificando l’estetica del terzo cinema, avvicinandola sempre di più a quella occidentale.
L’arte in tutte le sue forme è sempre stata al centro della cultura africana, le sue radici ne sono impregnate, e il cinema attraverso la sua forza visiva si è sempre fatto portatore della ricca identità nazionale spesso calpestata. Un vasto continente, più culture, diversi cinema africani ognuno con un lungo cammino alle spalle, perché il cinema in Africa nasce come in Occidente – alla fine del XIX –, ma è nella fase di decolonizzazione all’inizio degli anni Sessanta che prende il via, scontrandosi però con le due facce della globalizzazione. Contro le industrie cinematografiche come Hollywood, le produzioni europee, i concorrenti indiani, giapponesi ed egiziani che riempivano le sale con film a basso costo, l’Africa decide di unire le forze e creare delle forme di cooperazione. Nel ’66 fu istituito il FESPACO, ancora oggi uno dei maggiori festival del cinema africano, che non solo continua a essere vetrina importante per registi emergenti e non ma si fa portatore di un’idea politica di cinema, dove politica ritorna a significare cosa pubblica, proponendosi quindi di dare valore a un popolo e a una cultura spesso dimenticata.

Pian piano iniziò per l’Africa un percorso che la vide sempre in prima linea, alla conquista dei propri diritti. I paesi francofoni iniziarono a produrre film a basso costo e d’intrattenimento, l’Algeria nazionalizzò l’industria cinematografica e la fetta di cinema d’autore attirò l’attenzione dei festival. Molti registi si erano formati e si formano tuttora in Europa e quindi riuscivano e riescono ad unire un pensiero e un modo personale di rappresentare i propri lavori con le convenzioni cinematografiche occidentali. E tanti sono i Festival in tutto il mondo oggi dedicati al cinema africano sia in Italia nelle città di Roma, Milano, Bari, Verona che all’estero in città come Cartagine, Johannesburg, Durban, Los Angeles, Marrakech, New York, Londra, Ouagadougou. I paesi anglofoni invece sviluppano un cinema di massa e a basso costo e negli anni ’90 del ’900, grazie ai finanziamenti degli imprenditori nigeriani, la Nigeria crea Nollywood, un’industria cinematografica africana, che oggi produce anche film di qualità. Tanto è cresciuta da produrre piattaforme digitali cui un pubblico sempre più vasto, collegandosi a internet, può accedere, e da creare applicazioni per i cellulari da cui poter vedere le ultime novità nollywoodiane.

Dagli anni Sessanta a oggi sono cambiati i mezzi, i governi e c’è stato il passaggio al digitale che ha facilitato e velocizzato la fruizione e il commercio. E se negli anni Settanta e Ottanta il cinema africano, il terzo cinema, nasce e cresce da una voglia di lottare e di rendere visibili le condizioni di un intero popolo – portatore di un orgoglio nero molto forte – oggi cresce, si evolve e diviene un pari avversario per l’Occidente. Pensiamo a film come L’atleta (2009) per la regia di Davey Frankel e Rasselas Lakew, proposta etiope per la candidatura all’Oscar per il miglior film straniero, un biopic all’americana sulla vita del maratoneta etiope Abebe Bikila che vinse le Olimpiadi romane del 1960 portando lo sguardo del mondo intero sull’Africa. Il film alterna materiali di repertorio alla fiction narrata dalla voce off del protagonista lenta e costante nel ritmo timbrico a contrasto con la velocità cui procede il film. Timbuktu (2014) del regista Abderrahmane Sissako, candidato come miglior film straniero agli ultimi Academy Awards, fa conoscere la storia del rapporto tra la Jihad e parte del continente nero, un film coraggioso che si pone contro ogni fondamentalismo. Il regista nato in Mauritana, formatosi a Mosca e in Francia, accosta l’estetica di un regime scopico occidentale con una struttura lineare classica, una fotografia pregna di colori accecanti alla poesia dei primi piani degli attori non professionisti e dei campi lunghi usati per raccontare le storie di un’Africa in connessione con la natura. Il cinema, l’arte diventano nelle mani di Sissako strumenti di denuncia che riescono, attraverso la sua affinità con l’Occidente, a destare l’attenzione di un vasto pubblico che può riconoscersi e riuscire a comprendere l’altro.

La vera novità degli ultimi anni è stato il film Cold Harbour (2013) diretto da Carey McKenzie, un’opera contemporanea che presenta un’Africa diversa, e sorprende confrontandosi con un genere come il thriller-noir, più vicino alla cinematografia occidentale che a quella africana. Esperimento riuscito da parte di una documentarista alle prese con la sua prima opera di finzione. La regista emula la scuola americana e nord-europea distaccandosene, raccontandoci, attraverso le luci fredde e una forte saturazione del colore, la realtà di un Sudafrica multietnico che vive gli stessi problemi di criminalità di una città americana.
La sensibilità, lo spessore e la bellezza del cinema d’autore francofono s’incarica di portare sullo schermo il tema dei rapporti umani con Fièvres (2013), diretto dal regista franco-marocchino Hicham Ayouch, un film indipendente che ha avuto molte difficoltà di distribuzione, vincitore dell’edizione del Fespaco 2015. Il regista ha voluto puntare sul valore di un’opera figlia di un autore africano, ma che vuole porre l’accento sulla creatività, la poesia di una storia che potrebbe essere stata narrata in qualsiasi luogo e che vuole abbattere gli stereotipi spesso usati per etichettare un continente, un artista, un’opera. Il messaggio che passa è che in fondo siamo tutti cittadini del mondo.

L’Africa si racconta profondamente attraverso uno strumento come il cinema e mette in evidenza le sfumature del suo continente. Il cinema africano, conservando un personale modo di rappresentare se stesso, continua a evolversi, e nello sperimentare le sue capacità finalmente si apre al mondo donando tutta la sua ricchezza. Ne è la prova la 26ma edizione delle Journées Cinématographiques de Carthage 2015 – o Carthage Film Festival –, che per la prima volta accoglie film in concorso di autori argentini, italiani e portoghesi. Numi tutelari e simboli di questa edizione il “primo” regista  senegalese Ousmane Sembène e il tunisino Tahar Cheriaa, per un’ Africa presente, che si muove tra passato e futuro.


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