La nobile leggerezza

Intervista a Carlo Loforti, autore del romanzo Appalermo, appalermo!

Mimmo Calò è un popolare giornalista sportivo locale. Perso malamente il lavoro a causa degli sporchi affari del suo capo beccato dalla finanza, realizza il suo sogno di aprire una sfincioneria nel centro storico di Palermo, dentro un piccolo magazzino strappato per sbaglio durante un’asta giudiziaria. Quello sarà l’inizio di una serie di sfortunate disavventure che porteranno l’uomo a una lucida e cinica consapevolezza della sua vita e dei suoi affetti. Col suo brillante romanzo d’esordio Appalermo, appalermo!, edito da Baldini&Castoldi e finalista al Premio Calvino, il palermitano Carlo Loforti ambisce alla leggerezza, quella non superficiale leggerezza che proprio da Italo Calvino veniva decantata nella sua forma più pura e nobile come un delicato planare sulle cose dall’alto. Una scrittura fluente e matura racconta così, tramite la voce cinica del suo mediocre protagonista, la Sicilia e la sicilianità universalizzandole dentro il binomio uomo/donna con un linguaggio “senza pudore” – dicono dal Premio Calvino – ma che proprio grazie a quell’alto non-pudore riesce a racchiudere pregevolmente dentro un tempio di sacralità nostalgica anche seghe, puttane, pompini e Postal Market. Ne vien fuori un racconto intelligente e gradevolissimo animato da un umorismo alla Hornby “che regala momenti d’autentico spasso”.

La figura della donna ha un ruolo centrale nel tuo romanzo, peraltro dedicato a una donna. «Ci sono un sacco di cose difficili da spiegare a una donna. […] Qualunque ruolo essa abbia nella tua vita, la femmina è sospettosa. A priori», sono le prime parole in cui ci s’imbatte nella lettura. Lo spaccato che da questo incipit via via delineerai, passando per quadri alle colorate figure di madri, mogli, suocere, è pittorescamente pungente. Quali sono state le prime parole di tua madre alla lettura del romanzo?
“Bello, mi sono divertita. Ma non sarà un poco vastasello? (maleducato)”. E ancora: “non ti sposerai mai, vero?”

A un approccio superficiale, la tua potrebbe presentarsi come una visione cinicamente maschilista. La leggerezza e la sapida ironia con cui giochi calandoti dentro al punto di vista maschilista del tuo protagonista, pur rimanendone a debita distanza, potrebbero essere malamente fraintese. Come risponderesti a questo tipo di considerazioni?
Non ho molta paura del fraintendimento, in realtà. Credo che il personaggio, alla fine, non sia assolutamente un vero maschilista; più volte ribadisce e ripete che la moglie, ad esempio, è molto ma molto più in gamba di lui. Piuttosto lo definirei come uno al quale hanno aspirato con una siringa un morbo che assopisce l’ironia: il buonismo. E vincere il buonismo non equivale a vincere la bontà, non significa necessariamente essere persone terribili.

«Malattie, povertà, guerre, corruzione, criminalità, persino il fottuto scioglimento dei ghiacci è causato dal peccato più originale di tutti gli altri, questa pigrizia maschile che non riusciremo mai a sconfiggere. Perché diciamoci la verità, l’uomo piuttosto che fare preferisce non fare. Sempre e da sempre. E non solo in Sicilia, quelli sono luoghi comuni buoni per fare qualche film, ma che non vanno al nocciolo della questione».

La scelta formale del tuo racconto è quella di esprimerti per bocca del tuo protagonista con un italiano sporcato da strutture ed espressioni tipicamente palermitane. La Sicilia scontata di mafia e pizzo è solo uno sfondo marginale che cede respiro a uno sguardo quasi antropologico sulla sicilianità. Al tempo stesso, però, sembri ambire all’universalità, esternalizzando quel torpore e quell’insularità d’animo gattopardiani a un più vasto immaginario che galleggia fondamentalmente sui temi della mediocrità e del rapporto uomo/donna. Quale credi o speri sarà il pubblico del tuo romanzo oltre l’orizzonte siciliano?

È troppo ambizioso rispondere che mi auguro che questo libro possa piacere a tutti? Inoltre non mi dispiacerebbe fare una capatina anche al di là delle Alpi. Credo che il mix tra iper localizzazione e un certo tono da commedia che ho provato ad usare, spero attuale, renda il testo appetibile anche per il lettore non italiano. Me lo auguro, quantomeno.

Mimmo Calò è un visceralmente pigro: un lagnuso. Se Totò Schillaci, come scrivi tramite il tuo protagonista, è un inspiegabile eroe popolare, un sopravvalutato, un illusionista della mediocrità calcistica, Mimmo sembra ancor di più una vittima della sua illusione: un anti-eroe, un mezzo eroe, al massimo un eroe per sbaglio. La sua realtà, come quella dello sfincione – pizza molto lievitata tipicamente palermitana dall’aspetto spugnoso –, è “impregnata d’olio, accartocciata e unta”, invischiata nelle scorie del matrimonio, un vincolo che cinicamente vede soltanto come un estremo atto di pigrizia.
A che tipo d’immedesimazione credi possa portare il tuo personaggio? Pensi che il lettore riuscirà realmente a immedesimarsi, magari smascherando le proprie ‘mediocrità’ o, al contrario, ne riderà semplicemente avendone distaccata compassione?
Credo e spero che il lettore possa sorridere di se stesso. Il tentativo però, non è smascherarle, le mediocrità, ma elevarle. Come? Preferirei che sulla distaccata compassione, prendesse il sopravvento, durante la lettura, un empatico desiderio di non combatterle, le proprie mediocrità, ma di spassarsela per una volta insieme ad esse (attraverso le vicende del protagonista e insieme ad egli).

Hai una scrittura molto scorrevole, com’è stato anche detto, dal ritmo cinematografico. Sono i presupposti per un adattamento cinematografico?
Se rispondessi che c’è già un trattamento dettagliato?

Rimanendo invece in ambito prettamente letterario, il finale aperto del tuo Appalermo, appalermo! sembra lasciar respiro a un possibile seguito. Ci stai già pensando?
Sì, sto già scrivendo il seguito.

Una pregevole sfumatura del romanzo è di certo lo scarto tra il lucido narratore, che quasi compatisce avendone cura – “mischinìa” direbbe un palermitano – il suo protagonista, e quello stesso protagonista che silentemente chiede un agognato conforto, probabilmente persino al suo autore. Ma, abbattuto lo scarto letterario dell’abile narratore, quanto e cosa c’è di Carlo Loforti in Mimmo Calò?
Cinque cose cose: 1) stempiatura precoce, 2) incapacità ad attendere la cosiddetta manna dal cielo, 3) goliardico cinismo, 4) arrovellamento mentale reiterato, 5) monogamia seriale patologica. Per il resto, sono io a chiedere aiuto a lui.

Un testamento dell’autore per i lettori. Cosa vorresti che rimanesse, oltre alla “pelle d’oca sulla punta della lingua”?
Vorrei che sentissero di avere incontrato tra le pagine un personaggio indimenticabile.

Hai dichiarato d’aver osservato e studiato molto la realtà di borgata. Il quartiere di Settecannoli, che lega più specificamente Mimmo Calò a Palermo, è un quartiere a tuo dire molto poetico perché ha il mare ma non lo ha del tutto, un mare assolutamente negato che distrugge emotivamente le prospettive di guardare oltre il suo orizzonte. Parlando di te, inoltre, hai ammesso che i tuoi amici ti accusano simpaticamente d’essere un “vecchio dentro”, un mix esplosivo di pigrizia e molleggiata pacatezza, ma alcune tue dichiarazioni svelano al tempo stesso una profonda ambizione e una dedizione all’impegno e al sudore. Sarà forse quella doppia anima del tuo mare, che un po’ culla e un po’ allontana, a caratterizzare visceralmente i siciliani e la loro sicilianità? Cosa vede Carlo Loforti, da siciliano, oltre quell’orizzonte?
Vedo che la pigrizia sta lasciando il posto, in alcuni fortunati casi, alla voglia di fare. Allo stesso tempo, vedo ancora molta gente, troppa, che si arrende e soccombe. Quanto a me, la pigrizia di cui parlo è una pigrizia superficiale, unica ancora di salvezza alla vita frenetica che ormai, da anni conduco. Un argine che impongo a me stesso, quando posso, nel tentativo di recuperare le energie (e le energie fresche servono, altrimenti si rischia di bruciarle a vuoto). E non c’è posto migliore della Sicilia, per farlo. Ecco, quello che mi auguro, è che questa terra recuperi le proprie energie migliori.

«ABBUTTARE: sentimento molto simile alla pigrizia, contro cui il siciliano prova a combattere da secoli e che impedisce una qualsiasi forma di opposizione o atteggiamento proattivo a qualsiasi evento della vita. È alla base di molte delle dominazioni subite dal popolo siciliano».

Carlo Loforti scrive per LEco del Nulla. Potete ordinare il suo romanzo d'esordio Appalermo, Appalermo! scrivendo a info@ecodelnulla.it

Foto in copertina di Giulia Patanè

 


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