I migliori film del 2022

La top ten delle migliori pellicole uscite quest’anno nelle sale italiane, tra Östlund e Iñárritu, Del Toro e Panahi

Il 2022 ha riaperto definitivamente al pubblico le porte delle sale, pur con qualche difficoltà, permettendoci di tornare a godere dello spettacolo cinematografico nel suo luogo prediletto – imperdonabili uscite lampo di Netflix escluse. Nella nostra classifica dei migliori film usciti in Italia quest’anno dieci titoli eterogenei e di alta levatura, nonostante l’esclusione del notevole Esterno Notte di Bellocchio (come fu per Twin Peaks nel 2017) per la sua natura televisiva. I nostri redattori hanno premiato le storie autobiografiche di Iñárritu e Spielberg, che ripercorrono i passi del loro vissuto con gli alter ego di Bardo The Fabelmans, e suntuosi film di genere come il noir La fiera delle illusioni di Guillermo del Toro e Nope, l’originalissimo horror di Jordan Peele. Tra gli altri, spazio anche alla satira di Triangle of Sadness, Palma d’Oro a Cannes, e il criticatissimo Bones and all di Guadagnino, entrato in ultima posizione. Come da tradizione, la classifica della redazione di cinema de L’Eco del Nulla è non numerata, ma mette in ordine dieci film che secondo noi non dovreste assolutamente perdervi.

Bardo – La cronaca falsa di alcune verità di Alejandro G. Iñárritu
Silverio Gama, celebrato giornalista e documentarista messicano trasferitosi ormai da tempo a Los Angeles, torna nel paese natio con la famiglia per ricevere un importante premio internazionale. Ben oltre la prestigiosa vetrina che lo attende, però, deve affrontare un complesso viaggio interiore, facendo i conti con la crisi identitaria di un uomo perennemente sospeso tra Messico e Stati Uniti che soffre il suo successo e la precarietà di una non-nazionalità. L’ultima opera di Alejandro Gonzalez Iñárritu segna il “ritorno a casa” del regista messicano dopo le parentesi hollywoodiane, a sette anni di distanza dal precedente Revenant – Redivivo. Iñárritu apre con maestria e libertà un varco sul mondo onirico del suo protagonista, dichiarato alter-ego che come lui vive la strana condizione di mezzo del non sentirsi pienamente né messicano né americano. Riflessione intima e ironia politica, autocompiacimento barocco e senso di colpa fanno di Bardo un film potente e sfarzoso, un atto di cinema puro compiuto tramite quell’arte eterna che permette di indagare in profondità le origini di uno smarrimento e può liberare dal “bardo”, dal limbo, chiunque sia disposto a riceverne conforto. Presentato alla 79esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
Leggi la nostra recensione qui ► Bardo di Alejandro G. Iñárritu

Spencer di Pablo Larraín
La famiglia reale britannica si appresta a festeggiare le vacanze natalizie nella tenuta di Sandringham nel rispetto delle tradizioni monarchiche, ricevimenti di lusso e buon cibo. Tra i partecipanti c’è, ovviamente, anche Diana che sin dalla prima sequenza si mostra insofferente a tutta quella opulenta riverenza regale, costretta in dei panni che non si sente di indossare. Pablo Larraín decide di prendere le distanze dal classico biopic, come nel caso dei precedenti Neruda e Jackie, e decide di raccontare la sua personale Lady Diana, interpretata da Kristen Stewart, nei giorni che portarono alla rottura definitiva tra lei e la Corona. Il regista cileno è straordinario nel penetrare i tormenti della protagonista scavando dentro la sua personalità e restituendoci un’immagine priva di orpelli, una donna reale, fatta di tanta sofferenza e insoddisfazione. Le lunghe carrellate di Larraín tra i corridoi della tenuta trasformano le eleganti stanze in spazi di terrore, le inquietanti soggettive vuote e le claustrofobiche riprese grandangolari contribuiscono a immergere lo spettatore in un’atmosfera che riflette lo stato d’animo della protagonista: non la Lady Diana idealizzata dai tabloid e dalle folle, ma la Diana Spencer filmata nella sua angoscia senza velature. Candidatura all’Oscar e al Golden Globe per Kristen Stewart.

Nope di Jordan Peele
Il maneggio della famiglia Haywood, che alleva cavalli per il cinema da decenni, va in rovina dopo morte di Otis Senior, scomparso prematuramente per una misteriosa pioggia di oggetti dal cielo. Mentre cercano di tirare avanti la baracca senza di lui, i figli OJ e Em si rendono conto che la morte del padre è legata ad un oggetto non identificato che si nasconde nelle nuvole sopra il terreno del maneggio, e che non può essere guardato senza conseguenze. Con Nope Jordan Peele continua il suo lento spostamento orrorifico verso l’esterno, mettendo in dialogo le case isolate già raccontate in Scappa - Get Out e in Us con le enormi lande americane che qui hanno la forma del terreno di famiglia. Peele, anche sceneggiatore, costruisce il film ad incastro temporale, dando ai capitoli i nomi degli animali che lo abitano – scimmie, cavalli, umani, alieni – e porta lo spettatore lungo un sentiero che ben presto prende una svolta inaspettata. In grande equilibrio tra comicità e paura, tra western e thriller, Nope è un film sulle conseguenze dell’atto del guardare, sulla visione come immagine e come sfida al naturale, in cui messinscena, idee registiche, direzione di attori e riflessione di fondo restituiscono allo spettatore momenti di grande originalità e di grande cinema.
Leggi qui l’approfondimento di Olivia Rutigliano Nope è uno spettacolare film sullo sguardo

La fiera delle illusioni di Guillermo del Toro
Stan, un uomo dal passato turbolento del quale sappiamo ben poco, accetta di lavorare in un luna park come giostraio, e in poco tempo apprende l’arte della veggenza con l’intento di sfruttarla per sedurre le folle e arricchirsi. Insieme alla giovane Molly, anche lei attrazione del circo, decide di spostarsi per le grandi città dove il suo fraudolento spettacolo acquista sempre più notorietà, ma l’incontro con una cinica psicologa complica il suo lavoro. Non è casuale che Guillermo del Toro parta proprio dal circo – con chiari riferimenti a Freaks di Tod Browing e a Santa Sangre di Alejandro Jodorowsky ­– e da quell’universo abitato da mostri molto cari al suo cinema per raccontare una storia colma di personaggi insensibili e avidi, peggiori dei freak che li circondano e che schiacciano i deboli per il proprio tornaconto. Di nuovo al cinema dopo la vittoria dell’Oscar per La forma dell’acqua, il regista messicano posa il suo occhio su un mondo fatto di falsità e di inganni, in cui è forte e tranciante la sua critica sociale pur nei confini del genere in cui si immerge. Nella cornice di un noir suntuoso, del Toro disegna una società in cui spesso i truffatori hanno la meglio, ma in cui tutti, nel gioco delle illusioni, possono passare rapidamente da carnefici a vittime.
Leggi la nostra recensione qui ► La fiera delle illusioni - Nightmare Alley di Guillermo del Toro

Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson
Nella San Fernando Valley degli anni Settanta, Gary Valentine è un quindicenne spaccone e intraprendente che, con la spensieratezza dell’adolescenza, cavalca l’onda di notorietà conquistata come attore di una serie tv corale, all’ombra di una Hollywood in decadenza. In un improvviso colpo di fulmine, il ragazzo dichiara amore eterno ad Alana, incrociata tra i corridoi di scuola e più grande di lui di dieci anni. Nasce così una frequentazione quotidiana e lentamente anche un sentimento che dovrà però percorrere le insidie e gli scivoloni del non saper ancora amare. Il regista californiano Paul Thomas Anderson torna nella sua San Fernando Valley facendo rivivere sul grande schermo gli anni dell’infanzia tramite uno sguardo nostalgico e spensierato, uno sguardo registico che diventa esso stesso gesto d’amore. Gary e Alana, così come la macchina da presa, si muovono in una sorta di danza che procede in direzione contraria alla crisi del tempo e la loro corsa incessante – raccontata in varie sequenze del film – si fa metafora dell’unicità dell’amore che li lega. Tre candidature agli Oscar come miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura.
Leggi la nostra recensione qui ► Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson e qui l’approfondimento di Olivia Rutigliano ► In Licorice Pizza tutti vogliono rimanere bambini

The Fabelmans di Steven Spielberg
Sam Fabelman scopre il cinema andando per la prima volta in sala a vedere Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille e comincia a coltivare la sua passione girando filmati con i suoi giocattoli e le sue sorelle, spronato dalla madre. Con l’adolescenza e la crescita, la passione diventa presto un’obiettivo che si scontra con le volontà del padre, che lo vorrebbe ingegnere come lui, e con i problemi psicologici e sentimentali della madre, che mettono in bilico la stabilità della famiglia. Il film più personale e autobiografico di Spielberg, preceduto in sala da un cappello introduttivo in cui il regista ringrazia il pubblico per essere venuto a vederlo sul grande schermo, fa delle memorie del celebre regista statunitense prezioso materiale poetico per raccontare il conflitto tra arte e famiglia. Giocando con l’evidente essenza metacinematografica del proprio lavoro, Spielberg mette in scena se stesso – il suo alter ego Sam Fabelman, letteralmente “l’uomo delle fiabe” – e riesce ad emozionare con la leggerezza di un ragazzino, disseminando la pellicola di filmati, proiezioni, locandine, film e di un finale con l’impagabile cameo di David Lynch nei panni di John Ford. Una storia che esprime tutta la potenziale grandezza del cinema: macchina dei sogni, costruzione di immaginari, luogo dove plasmare il reale attraverso lo sguardo. Come dimostra il dialogo a tavola con il burbero zio Boris, che parla ai nipoti delle sue incredibili peripezie con i leoni del circo. «Sta mentendo, vero?», chiede al padre una delle figlie. «No, sta raccontando una storia».

Gli orsi non esistono di Jafar Panahi
Jafar Panahi si trova in un paese rurale dell’Iran al confine con la Turchia dove cerca di dirigere un film da remoto aggirando la sentenza governativa che da dodici anni gli impedisce di girare liberamente. La sua storia si intreccia con quella degli attori del film, che racconta una versione fittizia del loro tentativo di fuga dal paese, e con quella degli abitanti del paese, che cercano di coinvolgerlo in una faida familiare su un tradimento a cui il regista avrebbe testimoniato facendo alcuni scatti con la sua reflex. Con tre linee narrative che si compenetrano l’un l’altra, Gli orsi non esistono racconta con agghiacciate naturalezza le difficoltà quotidiane dell’Iran di oggi, con il regista iraniano che si rende nuovamente protagonista mettendo un’ammirevole scrittura e una regia sobria al servizio di un discorso politico tanto forte quanto commovente, nella sua semplicità. Da un certo punto del film in poi, gli abitanti gli ripetono continuamente che farebbe meglio ad andarsene dal paese, ma lui sceglie di restare. Dal 2010 a Panahi è imposto il divieto di lasciare l’Iran e di girare film, dal 2010 Panahi ha diretto This Is Not a Film (2011), Closed Curtain (2013), Taxi Teheran (2015), Tre volti (2018) e Gli orsi non esistono (2022) vincendo per i rispettivi film la Carrosse d’Or, un Orso d’argento, un Orso d’oro, il Prix du scénario a Cannes e il Premio speciale della giuria a Venezia. L’11 luglio 2022 Jafar Panahi è stato arrestato di nuovo, accusato di propaganda antigovernativa: è ancora in carcere.

Triangle of Sadness di Ruben Östlund
Un modello e una modella si prendono una pausa dalle passerelle per approfittare di un crociera regalo. A bordo, un concerto di ricchi grotteschi e sopra le righe serviti e riveriti dall’equipaggio della nave, guidata da un capitano marxista e ubriacone. Spingendo sull’acceleratore della satira sociale, lo svedese Ruben Östlund dirige un cast azzeccatissimo per mettere in scena le stridenti contraddizioni della contemporaneità, tra influencer straricchi, imprenditori delle armi, magnati e mogli trofeo che fanno del lusso la propria vita quotidiana. In tre capitoli – “Carl & Yaya”, “Lo Yacht”, “L’isola” – Triangle of Sadness, che prende il titolo dal “triangolo della tristezza” con cui si indica in chirurgia estetica lo spazio tra le sopracciglia, è una fotografia spietata del mondo della bellezza, che ridicolizza i propri personaggi e li denuda letteralmente mettendoli di fronte alla propria imbarazzante umanità: prima sullo yacht in balìa delle onde del mare, che rendono la lussuosa cena del capitano una toilette a cielo aperto, poi sull’isola deserte dove i ricchi dimostrano tutta la propria inettitudine e i ruoli sociali si ribaltano velocemente. Palma d’Oro a Cannes, la seconda consecutiva per Östlund dopo The Square.
Leggi la nostra recensione qui ► Triangle of Sadness di Ruben Östlund

Crimes of the Future di David Cronenberg
In un futuro prossimo in cui la società è alla deriva, uomini e donne sono colpiti da strane mutazioni che causano in loro la nascita di organi accessori e indesiderati. Mentre il governo e la polizia tengono sotto controllo le attività clandestine legate alle mutazioni, l’artista Saul Tenser ne fa l’oggetto delle sue performance artistiche, dove con la moglie procede ad asportare chirurgicamente i nuovi organi che crescono in lui. Tornando a due decenni da eXistenZ (1999) al body horror, il genere che più ne ha dimostrato le qualità autoriali con vette indiscusse come Videodrome (1983) e La mosca (1986), Cronenberg costruisce un universo in cui la chirurgia è un nuovo sesso, e ad ogni taglio corrispondono un’eccitazione e un piacere proibiti. Le pulsioni e le mutazioni interne dei propri personaggi sono per il regista canadese l’opportunità di indagare le contaminazioni della carne e mettere in discussione la vera natura dell’essere umano. Pur in un’essenzialità che ne tarpa le ali narrative, Crimes of the Future è un’opera da ricordare per il fascino indiscusso del mondo che immagina, per la folgorante e inquientatissima sequenza iniziale e per un discorso ambientalista di rara complessità e intelligenza.

Bones and all di Luca Guadagnino
Maren vive una vita errante con il padre Frank, costretto a fuggire di città in città per le tendenze cannibali della figlia. Quando il padre la abbandona, Maren va in cerca della madre scoprendo di non essere la sola cannibale, e intrecciando il proprio percorso con altri come lei, tra cui il solitario Lee con cui nasce una storia d’amore. Bones and all – dall’acme del piacere cannibale che si otterrebbe mangiando anche le ossa – costruisce gli anni Ottanta in cui è immerso fin dal registro tecnico, a partire dalle zoomate ricorrenti, per inseguire il percorso sentimentale di una storia d’amore nella cornice di un road movie di formazione. Raccontando il viaggio di Maren verso l’accettazione di se stessa e della propria natura, il film apre ad una dimensione simbolica dell’amore, laddove la totale identificazione con l’innamorato passa attraverso l’atto fisico dell’assimilazione, che diventa la porta d’accesso alla pura coincidenza con la persona amata. Con una grande messinscena e una grande direzione d’attori, Bones and all è l’opera più matura della filmografia di Guadagnino, costruita con una ricercatezza visiva e uno spessore equilibrati e finalmente all’altezza delle proprie ambizioni. Premio Mastroianni alla protagonista Taylor Russell e Leone d’argento alla regia per Luca Guadagnino alla 79esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia.


Parte della serie I migliori film dell'anno

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