Arrivederci Europa Ciao

Certezze, rischi e occasioni per Regno Unito e Unione Europea dopo la Brexit

All’inizio, Gibilterra aveva fatto ben sperare. Quel territorio britannico di oltremare, attaccato alla penisola iberica e forse anche un po’ spagnolo, è stato il primo collegio da cui sono pervenuti i risultati del referendum sull’uscita dall’Unione Europea. Quasi il 96 percento dei votanti, intimoriti dalle rivendicazioni spagnole, si sono espressi per il remain, e solo poco più di 800 voti erano andati al leave. Era un entusiasmo piuttosto effimero. Al risveglio da una delle notti più lunghe e più oscure per il Regno Unito e per l’Unione Europea degli ultimi decenni, la Commissione elettorale ha ufficialmente diffuso il risultato del referendum. Con un’affluenza al 72,2%, più alta di sei punti rispetto alle elezioni del maggio 2015, il Regno Unito ha scelto di abbandonare l’Unione Europea. Ha prevalso il leave, con il 51,9% dei voti, mentre il remain si è fermato al 48,1%. «I want my country back», l’ossessivo mantra degli euroscettici e nostalgici dell’impero perduto ha prevalso e la maggior parte dei sondaggi, che pure segnalavano un testa a testa, è stata smentita. 

Il primo ministro David Cameron, rivolgendosi pubblicamente alla stampa a Downing Street questa mattina, ha parlato del referendum come di un «gigantesco esercizio di democrazia, forse il più grande» nella storia del Regno Unito. Se si considera che negli ultimi quarant’anni si sono tenuti appena tre referendum (di cui due sulla partecipazione al progetto europeo), non c’è da stupirsi. Ma forse, più che di un grande esercizio democratico, si è trattato solo di grande ingenuità politica. Con il discorso presso la sede di Bloomberg David Cameron aveva tentato di mettere in discussione il ruolo del Regno Unito in Europa. Poi, temporeggiando e rimanendo vago, aveva concluso un accordo con gli altri 27 Stati membri, convinto di poter lenire l’euroscetticismo in patria. Ma, alla fine, non è bastato convertirsi improvvisamente alla causa dell’Europa unita e fare campagna «with all my heart and soul», come ha ripetuto anche stamani. Quell’attitudine ad essere «more practical than emotional» dei britannici, che lo stesso primo ministro aveva citato nel discorso di Bloomberg, è venuta meno al referendum. Ha prevalso la paura, la miopia, la soluzione più semplice ad un problema complesso. Così, invocando la necessità di una «fresh leadership» che porti il Regno Unito fuori dell’UE, Cameron ha annunciato le proprie dimissioni, che saranno formalizzate a Ottobre, dopo che i Conservatives avranno designato un successore. Con buona probabilità sarà euroscettico, e con buona probabilità sarà l’ex Mayor di Londra, Boris Johnson

Il leader del partito nazionalista UKIP, Nigel Farage, ha parlato trionfante di una vittoria «for the real people, for the ordinary people, for the decent people», in un discorso sporco della retorica usata della nazione e della sovranità. Ha idealmente proclamato il 23 giugno come «independence day» del Regno Unito dal giogo europeo. Purtroppo non ha spiegato a quanti hanno voluto abbandonare l’Unione Europea cosa accadrà dopo (e poco dopo il voto ha prontamente smentito che i 350 milioni di trasferimenti verso Bruxelles potranno essere investiti nel servizio sanitario). Ciò che è certo è che l’incertezza non piace ai mercati finanziari. Il presunto giorno dell’indipendenza non è iniziato sotto i migliori auspici. Intorno alla mezzanotte, quando sono stati annunciati i risultati di Sunderland, cittadina portuale del Nord Est dell’Inghilterra, la sterlina è crollata, perdendo tre punti in un colpo. Ha raggiunto un minimo di 1,3236 contro il dollaro, mentre poco prima della fine del referendum si attestava ancora intorno ad 1,50. Il FTSE 100, all’apertura di stamane, ha perso l’8%, con il settore bancario che ha registrato il calo più significativo, trainato in negativo da Barclays e RBS, che sono arrivati a perdere rispettivamente oltre il 36% e il 44%. Forse gli appelli della politica, delle imprese e della finanza al rimanere parte dell’Unione Europea non erano infondati.

Dando la parola alla gente comune, il Regno Unito ha scelto di abbandonare la vischiosa legislazione europea, il deficit democratico, i fondi per la politica agricola comune, i debiti della Grecia e dell’Italia, l’immigrazione dall’Est Europa. Ha preferito la soluzione più grossolana, l’isolazionismo, la deriva economica. Ha rinnegato la propria openmindness, la propria dinamicità, il proprio prestigio, e anche buona parte del proprio futuro. Ha lasciato che le fasce più vecchie dell’elettorato decidessero del futuro della nazione. Non è stato coraggio. È stata solo l’irrazionalità dettata dalla paura. Cosa accadrà ora è incerto. Le voci più autorevoli concordano sull’atto autolesionista del Regno Unito, che per almeno due anni soffrirà le conseguenze dell’incertezza e probabilmente della recessione e del calo degli investimenti. Da questa decisione, l’Unione Europea ha subito uno shock profondo.

«Quando si è fuori, si è fuori», aveva commentato alla vigilia del referendum il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker. È il clima che si respira tra gli altri leader  europei. Dopo il summit straordinario di stamani dei quattro presidenti europei, Martin Schulz, alla guida del Parlamento, si è rivolto alla stampa. «Rimpiangiamo la decisione, ma la rispettiamo», ha scandito nel proprio discorso, «ma gli Stati membri che rimangono devono discutere come migliorare l’Unione Europea». Se il percorso per l’uscita di uno Stato membro è già stato delineato all’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea, è anche abbastanza chiaro che i rapporti tra Unione Europea e Regno Unito non saranno favorevoli per i britannici dopo l’uscita. Juncker ha già invitato il Regno Unito ad avviare immediatamente le procedure per la richiesta di uscita. Se la Brexit è senza precedenti, e di fatto costituisce un precedente, gli altri Stati membri sceglieranno di adottare una linea ben poco generosa verso i britannici, che serva da esempio, per non dare adito ad ulteriori spinte disgregatrici che già si profilano

È il momento per l’Unione Europea di cambiare. Dal deficit democratico, passando per le politiche economiche che non hanno sortito molti effetti se non la recessione e l’affamare la Grecia e il diffondere l’austerity, alla lotta al terrorismo e al controllo dei flussi migratori, alle politiche per la concorrenza e all’innovazione, l’Unione Europea può migliorare. Senza la boria e gli opt out del Regno Unito, l’UE deve procedere verso la «ever closer union» con quei membri che vogliono impegnarsi per portare avanti il progetto. Non deve certo svendersi alla Turchia, mercanteggiando i migranti, o al Regno Unito, come aveva tentato di fare con l’accordo del febbraio scorso. Il miglior metodo per limitare l’euroscetticismo è dimostrare che l’Unione Europea funziona. Non si può rimpiangere l’entusiasmo per l’unità europea quando nei fatti si è stretti in un’impasse deleterio ormai da anni. 

I piani per il futuro dell’Unione Europea non mancano. Soprattutto in Inghilterra, sia il Guardian che l'Economist immaginano (anche troppo idillicamente) che le sorti del progetto di unità europea siano nelle mani del premier italiano, Matteo Renzi. Manca solo di raccogliere la volontà politica dei Paesi fondatori, e non sarà semplice. «L’Europa ha dimostrato nel corso della sua storia di essere più forte di ogni difficoltà», ha esordito Renzi in conferenza stampa questa mattina, dinanzi alla bandiera italiana ed europea. «L’Italia farà la sua parte», ha proseguito, convinto del dovere che l’Italia, tornata a suo dire solida, abbia il dovere di «offrire questa solidità anche agli altri partner europei». Per domani è già fissato l’incontro tra i ministri degli esteri dei Paesi fondatori. Lunedì, invece, in un incontro tra il presidente francese, François Hollande, la cancelliera tedesca, Angela Merkel,  e Renzi, insieme al presidente Donald Tusk, si cercherà di capire quali siano gli scenari futuri dell’Unione Europea. «Il mondo che verrà ha bisogno di molta Europa», sostiene il premier. La crisi senza precedenti della Brexit non segnerà necessariamente la disgregazione dell’Unione Europea. Può costituire il momento per far prevalere l’unità, risolvendo i problemi che affliggono l’Europa ormai da tempo, dalla crisi economica e la disoccupazione, alla crisi dei migranti. Se ci sarà volontà politica e lungimiranza, si potrà avere un’ulteriore cessione di sovranità che consenta di dare seguito al progetto di unità europea. Questo significa avere coraggio, e non lasciarsi prendere dalle emozioni forti, come invece è accaduto ai britannici.


Parte della serie Speciale Brexit

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